Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Intermezzo
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Eleganze

Il peccato di maggio 30.

II

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II

Soli andavamo. — Ah, senti, senti i merli fischiare

ella disse, fermandosi. Dal ciel crepuscolare

discendeva su i rami la nebbia violetta.

Senti, senti! — D’un tratto, dietro l’ultima vetta

scomparve, in fondo al lago de le nuvole, il sole.

Allora fu una molle cascata di viole

ne l’aria. Un solco d’oro s’apriva basso; rotto

il bagliore su i culmini indugiava; di sotto

a i culmini illustrati, già ne l’assopimento

grave i tronchi annegavano. Lente nel vapor lento

de la sera le cose perdevano le forme.

Le viole cadevano; era una pioggia enorme.

Tutto il bosco, un istante, parve a la mia vista

una maravigliosa foresta di ametista

che risplendeva; e Yella parve la maga. Eretta

fra l’erba, d’un’aerea tunica violetta

circonfusa, a quell’ultima luce crepuscolare

ella diede l’addio con un alto cantare.

Ella cantava ancóra al mio fianco. Una ciocca

de’ suoi capelli, a tratti, mi sfiorava la bocca;

ed il profumo, l’anima di quella cosa viva,

m’irritava le nari avide, mi saliva

pel capo. Io le guardai la gola palpitante

al ritmo de le note: come bianca!

le piante

curve al passaggio udivano?

Io le guardai la gola.

Or vanivan d’intorno le nebbie di viola

ne l’aria; una penombra dolce velava l’aria,

e su da la foresta profonda e solitaria

sorgevano le voci de le cose, gli odori

de le cose. Pareva, non so, come dai fiori

da le foglie da l’erbe un sogno vegetale

salisse e si spandesse, grande e soave; quale,

non so, da le dormenti acque a l’alba un vapore.

Io respirava un sogno di foresta in amore.

Ella cantava; e il puro canto rendeva pure

tutte le cose.


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