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IV
Quando il grande letargo del bosco nei chiarori
lunari si sommerse, crescevano gli odori
su dal bosco profondo in marea fresca; e il vento
carico de gli odori per quel biancheggiamento
alitava, recando come lunghi bramiti
di cervi in lontananza. Or le cerve da i miti
occhi umani, in ascolto, ad ogni più leggero
alito trasalivano, trepide nel mistero
de l’ombre vigilando se non già fra le piante
brillassero i terribili occhi del fulvo amante.
Era il desìo diffuso ovunque. I secolari
tronchi di quercia ergevano agli incanti lunari
le membra, come atleti che chiedessero abbracci
ansando ed anelando, non più paghi dei lacci
d’un’edera. Pareano truci mostri in agguato
taluni alberi a l’ombra; altri da un delicato
artefice scolpiti nei diaspri più rari,
divine opre notturne. E gli incanti lunari
mi fingeano a la vista lunghi ordini lontani
di cupole e di aguglie, adunanze di strani
palagi, fughe d’alti portici risplendenti:
attossicavan l’aria, ma da quel gran letargo
vegetale un respiro saliva, quasi il largo
respiro d’una belva; ma mille voci rotte
di piacere turbavano il bosco ne la notte.