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V
E ci fermammo. A noi su ’l capo quel fulgore
piovea placido e fresco; ne la carne un languore
novo mettendo, quasi penetrasse la cute,
ammollisse le vene. Ora un disìo di acute
voluttà mi pungeva, innanzi a quella bianca
— Io sono tanto stanca —
ella disse, piegando verso di me. — Non vuoi
tu riposare? — Aveano le sue parole, i suoi
gesti una così nova dolcezza ch’io tremai
ne l’ime fibre come a una voce non mai
udita, indefinibile. E mi sentii su gli occhi
scendere un denso velo; e le caddi a’ ginocchi;
e con avide mani su pe ’l suo corpo ascesi,
e tremar come un’arpa viva il suo corpo intesi.
Atterrita a que’ sùbiti vibramenti d’ignote
fibre, ella con aneliti, gemiti, con immote
le pupille e convulsa la bocca, omai perduta,
omai perduta senza scampo, omai posseduta
da la dolce e terribile forza a cui la foresta
era schiava in quell’ora, pendea su me…
La testa
in dietro a l’improvviso abbandonò. Le chiome
effuse le composero un letto ov’ella, come
per morire, si stese. Un irrigidimento,
quasi un gelo di morte, l’occupò. Lo spavento
m’invase, per un attimo, innanzi a quel candore
mortale che parea cingerla d’un orrore
mistico e da l’impuro desìo che in me sì forte
fiammeggiava difenderla per sempre. Ma fu morte
breve. Tornò la vita ne l’onda del piacere.
Chino a lei su la bocca io tutto, come a bere
da un calice, fremendo di conquista, sentivo
le punte del suo petto insorgere, al lascivo
tentar de le mie dita, quali carnosi fiori…
O bei fiori vermigli — in cui eran sapori
de’ più teneri frutti che tarda su le soglie
de l’Estate ridendo l’ultimo riso coglie
la Primavera —, o fiori, o frutti dal più lene
sangue virgineo nati, nudriti da le vene
più cernie che scorrano in paradisi umani,
o fiori, o frutti, ancóra io mi sento su i vani
versi, al ricordo antico, impallidir la faccia!
Ed ancóra le reni, come allora, mi ghiaccia
un brivido!