Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Intermezzo
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Eleganze

Il peccato di maggio 30.

V

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V

E ci fermammo. A noi su ’l capo quel fulgore

piovea placido e fresco; ne la carne un languore

novo mettendo, quasi penetrasse la cute,

ammollisse le vene. Ora un disìo di acute

voluttà mi pungeva, innanzi a quella bianca

vergine inconsapevole.

Io sono tanto stanca

ella disse, piegando verso di me. — Non vuoi

tu riposare? — Aveano le sue parole, i suoi

gesti una così nova dolcezza ch’io tremai

ne l’ime fibre come a una voce non mai

udita, indefinibile. E mi sentii su gli occhi

scendere un denso velo; e le caddi a’ ginocchi;

e con avide mani su pel suo corpo ascesi,

e tremar come un’arpa viva il suo corpo intesi.

Atterrita a que’ sùbiti vibramenti d’ignote

fibre, ella con aneliti, gemiti, con immote

le pupille e convulsa la bocca, omai perduta,

omai perduta senza scampo, omai posseduta

da la dolce e terribile forza a cui la foresta

era schiava in quell’ora, pendea su me…

La testa

in dietro a l’improvviso abbandonò. Le chiome

effuse le composero un letto ov’ella, come

per morire, si stese. Un irrigidimento,

quasi un gelo di morte, l’occupò. Lo spavento

m’invase, per un attimo, innanzi a quel candore

mortale che parea cingerla d’un orrore

mistico e da l’impuro desìo che in me sì forte

fiammeggiava difenderla per sempre. Ma fu morte

breve. Tornò la vita ne l’onda del piacere.

Chino a lei su la bocca io tutto, come a bere

da un calice, fremendo di conquista, sentivo

le punte del suo petto insorgere, al lascivo

tentar de le mie dita, quali carnosi fiori…

O bei fiori vermigli — in cui eran sapori

de’ più teneri frutti che tarda su le soglie

de l’Estate ridendo l’ultimo riso coglie

la Primavera —, o fiori, o frutti dal più lene

sangue virgineo nati, nudriti da le vene

più cernie che scorrano in paradisi umani,

o fiori, o frutti, ancóra io mi sento su i vani

versi, al ricordo antico, impallidir la faccia!

Ed ancóra le reni, come allora, mi ghiaccia

un brivido!


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