Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Intermezzo
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Eleganze

Venere d’acqua dolce 31.

I

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I

E ancóra io t’odo su la riva, o Nara,

tra le selve de’ giunchi e de’ canneti

chiamar con le canzoni agile a gara

ogni cosa vivente, ne’ quieti

meriggi! Era il gran giugno. La Pescara

gorgogliava freschissima pe’ i greti.

Cantando, il piede breve e la rotonda

gamba tenevi tu, Nara, ne l’onda.

O giovinetto bosco di Fusilli

pieno d’erbe aromatiche e di more,

ove di quella voce alta a gli squilli

si destavan le capre da ’l sopore

e guatavan colunghi occhi tranquilli

per l’ombra verde, in atto di stupore,

o bosco, ed or tu dammi ne le ottave

l’aura de la tua verde ombra soave!

In questa siccità di mezzogiorno

un disìo de la dolce acqua nativa

mi prende. Ora verdeggia ampia d’in torno

Villa Borghese; ed io su l’erba estiva

mi distendo supino, ed un ritorno

naturale di versi mi ravviva

le memorie; e non mai così da prima

larga sonante mi fluì la rima.

Non mai, Nara, così nitidamente

l’omerica bellezza del tuo rude

corpo si disegnò ne la mia mente

tutte oscurando l’altre forme ignude.

Ben io so la divina tua parente

cui non un bosco ma un palagio chiude.

Levasi di sul plinto, in Vaticano,

radiosa nel suo candor sovrano.

Pur ieri io la guardai, per quelle sale

mute vagando senza compagnia.

Una fresca ombra il gran museo papale

occupava; e il bel popolo dormia

profondato nel suo sogno immortale.

Forse nel cor marmoreo l’Iddia

sognava il giovinetto cacciatore

terrestre e il gelo de le ciprie aurore.

Anche di me — pensai — questa superba

rinnovellante deità si piacque.

Anche per me scalzata calcò l’erba

rorida e si tuffò ne le dolci acque.

Non così bianca (la saetta acerba

del sol l’aveva attinta) meco giacque;

non di marmo così ma d’un sonoro

metallo: al sole tutta quanta d’oro!


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