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I
E ancóra io t’odo su la riva, o Nara,
tra le selve de’ giunchi e de’ canneti
chiamar con le canzoni agile a gara
meriggi! Era il gran giugno. La Pescara
gorgogliava freschissima pe’ i greti.
Cantando, il piede breve e la rotonda
gamba tenevi tu, Nara, ne l’onda.
O giovinetto bosco di Fusilli
pieno d’erbe aromatiche e di more,
ove di quella voce alta a gli squilli
si destavan le capre da ’l sopore
e guatavan co’ lunghi occhi tranquilli
per l’ombra verde, in atto di stupore,
o bosco, ed or tu dammi ne le ottave
l’aura de la tua verde ombra soave!
In questa siccità di mezzogiorno
un disìo de la dolce acqua nativa
mi prende. Ora verdeggia ampia d’in torno
Villa Borghese; ed io su l’erba estiva
mi distendo supino, ed un ritorno
le memorie; e non mai così da prima
larga sonante mi fluì la rima.
Non mai, Nara, così nitidamente
l’omerica bellezza del tuo rude
corpo si disegnò ne la mia mente
tutte oscurando l’altre forme ignude.
Ben io so la divina tua parente
cui non un bosco ma un palagio chiude.
Levasi di sul plinto, in Vaticano,
radiosa nel suo candor sovrano.
Pur ieri io la guardai, per quelle sale
Una fresca ombra il gran museo papale
occupava; e il bel popolo dormia
profondato nel suo sogno immortale.
Forse nel cor marmoreo l’Iddia
sognava il giovinetto cacciatore
terrestre e il gelo de le ciprie aurore.
Anche di me — pensai — questa superba
rinnovellante deità si piacque.
Anche per me scalzata calcò l’erba
rorida e si tuffò ne le dolci acque.
Non così bianca (la saetta acerba
del sol l’aveva attinta) meco giacque;
non di marmo così ma d’un sonoro
metallo: al sole tutta quanta d’oro!