Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
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Eleganze

Venere d’acqua dolce 31.

II

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II

Tale prima io la scorsi. Era un’oscura

conca d’acque in un braccio solitario

del fiume, ove per entro a la frescura

giocava il sole a tratti agile e vario.

Sotto una dolce filial verzura

d’arbusti qualche tronco centenario

di salcio da le radiche scontorte

un gran nodo parea di bisce morte.

Io disteso nel fieno (era il battello

tra le canne ormeggiato) udiva il lento

flutto de l’erbe o i gridi d’un uccello

acuti e spessi tra ’l frascheggiamento.

Ma trasalii; poi che un odor novello

parve improvviso mi recasse il vento.

E scorsi fuor de l’erbe il corpo eretto

di Nara, seminudo, a mezzo il petto.

Ella scendeva al fiume ardita e lesta

e simile a la cerva sitibonda.

N’esultava la tenera foresta.

Era negli occhi suoi una profonda

inconsapevolezza; e la sua testa

era così fulvidamente bionda

che certo l’api dovean trarre, come

a un lor miele, a l’inganno de le chiome.

Giunta su ’l margo ella ristette, in forse.

Ma poi le chiomedegne de l’antico

pettine ciprio — su la nuca attorse

e tutta, senza alcun gesto pudico,

la sua bellezza al sole ignuda porse

e a l’acqua, entrando sino a l’ombelico

ne la conca ove tale ella rifulse

qual Prassitele a Cnido e a Coo la sculse.

O sogno di bellezza in cieli aperti,

che la mia prima pubertà compose

quando parean salir su da le inerti

pagine ne le notti studiose

i lauri de l’Ilisso come serti

a la mia fronte e l’acidalie rose,

o Sogno, al fin raggiavi senza veli

fiorito in carne sotto aperti cieli!

Io spiava tra l’erba. Ella protese

le braccia a un ramo che di molta fronda

ricco pendeale sopra e a quel sospese

tutto il corpo ondeggiando in agile onda.

Poi con sùbito balzo si distese

lanciandosi dov’era più profonda

l’acqua che in gran tempesta si commosse

rifiorendo di schiume a le percosse.

Le nudità pieghevoli guizzanti,

nel mister de la conca fluviale,

tra una greggia di foglie galleggianti

metteano un solco; e dietro il solco l’ale

il desiderio mio tratto a gli incanti

de la carne battea rapido quale

dal ciel sommo precipita a l’odore

de la preda selvaggia un avoltore.

Ma quando il corpo ella adagiò deterso

a fior de l’acqua e parvero scarlatte

bacche le cime del suo sen riverso

e su ’l ventre brillòsuggel d’intatte

ricchezze — l’ombelico e su l’emerso

pube e ne l’incavato inguine attratte

scintillaron le gocciole tra il crespo

vello come rugiade tra un bel cespo,

io che, nascosto nel profondo letto

verde, in silenzio mi torcea ferito

di crudele desìo, tale dal petto

per non più soffocar misi un bramito,

che con rapido moto ella in sospetto

si volse; e, come cerva che a l’invito

de l’amore pugnace erge la testa

se oda il maschio bramir ne la foresta,

risalendo la sponda con piè fermo

riguardava per entro a la verzura

in van ché la verzura erami schermo

a l’indagine ed era l’ombra oscura.

Tutto taceva in torno, alto su l’ermo

lido il meriggio. — O Pane, l’avventura

di Siringa a la stessa ora fu trista.

Sorte miglior m’ ebb ’io ne la conquista.

Ma chi celebrerà la pugna lieta

che poi pugnammo così fieramente?

Chi ridirà la gioia de l’atleta

umano e il grido de la soggiacente

iddia? Chi loderà quella segreta

ombra che ricoprì l’amplesso ardente

impregnata di tutte le fragranze?

Scendi, Cipride iddia, ne le mie stanze!


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