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II
Tale prima io la scorsi. Era un’oscura
conca d’acque in un braccio solitario
del fiume, ove per entro a la frescura
giocava il sole a tratti agile e vario.
Sotto una dolce filial verzura
d’arbusti qualche tronco centenario
di salcio da le radiche scontorte
un gran nodo parea di bisce morte.
Io disteso nel fieno (era il battello
tra le canne ormeggiato) udiva il lento
flutto de l’erbe o i gridi d’un uccello
acuti e spessi tra ’l frascheggiamento.
Ma trasalii; poi che un odor novello
parve improvviso mi recasse il vento.
E scorsi fuor de l’erbe il corpo eretto
di Nara, seminudo, a mezzo il petto.
Ella scendeva al fiume ardita e lesta
e simile a la cerva sitibonda.
Era negli occhi suoi una profonda
inconsapevolezza; e la sua testa
era così fulvidamente bionda
che certo l’api dovean trarre, come
a un lor miele, a l’inganno de le chiome.
Giunta su ’l margo ella ristette, in forse.
Ma poi le chiome — degne de l’antico
pettine ciprio — su la nuca attorse
e tutta, senza alcun gesto pudico,
la sua bellezza al sole ignuda porse
e a l’acqua, entrando sino a l’ombelico
ne la conca ove tale ella rifulse
qual Prassitele a Cnido e a Coo la sculse.
O sogno di bellezza in cieli aperti,
che la mia prima pubertà compose
quando parean salir su da le inerti
i lauri de l’Ilisso come serti
a la mia fronte e l’acidalie rose,
o Sogno, al fin raggiavi senza veli
fiorito in carne sotto aperti cieli!
Io spiava tra l’erba. Ella protese
le braccia a un ramo che di molta fronda
ricco pendeale sopra e a quel sospese
tutto il corpo ondeggiando in agile onda.
Poi con sùbito balzo si distese
lanciandosi dov’era più profonda
l’acqua che in gran tempesta si commosse
rifiorendo di schiume a le percosse.
Le nudità pieghevoli guizzanti,
nel mister de la conca fluviale,
tra una greggia di foglie galleggianti
metteano un solco; e dietro il solco l’ale
il desiderio mio tratto a gli incanti
de la carne battea rapido quale
dal ciel sommo precipita a l’odore
de la preda selvaggia un avoltore.
Ma quando il corpo ella adagiò deterso
a fior de l’acqua e parvero scarlatte
bacche le cime del suo sen riverso
e su ’l ventre brillò — suggel d’intatte
ricchezze — l’ombelico e su l’emerso
pube e ne l’incavato inguine attratte
scintillaron le gocciole tra il crespo
vello come rugiade tra un bel cespo,
io che, nascosto nel profondo letto
verde, in silenzio mi torcea ferito
di crudele desìo, tale dal petto
per non più soffocar misi un bramito,
che con rapido moto ella in sospetto
si volse; e, come cerva che a l’invito
de l’amore pugnace erge la testa
se oda il maschio bramir ne la foresta,
risalendo la sponda con piè fermo
riguardava per entro a la verzura
in van ché la verzura erami schermo
a l’indagine ed era l’ombra oscura.
Tutto taceva in torno, alto su l’ermo
lido il meriggio. — O Pane, l’avventura
di Siringa a la stessa ora fu trista.
Sorte miglior m’ ebb ’io ne la conquista.
Ma chi celebrerà la pugna lieta
che poi pugnammo così fieramente?
Chi ridirà la gioia de l’atleta
umano e il grido de la soggiacente
iddia? Chi loderà quella segreta
ombra che ricoprì l’amplesso ardente
impregnata di tutte le fragranze?
Scendi, Cipride iddia, ne le mie stanze!