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III
E così tante volte io su quel grande
talamo d’erbe amai la fluviale
Venere nova, sotto le ghirlande
palagio cui cingea di belle bande
aurine il Sole e il Vento musicale
con arboree cetre in vari modi.
dove l’ansia del Cintio fu delusa
da le frondi, più fiero de l’Alfeo
che proseguì la cerula Aretusa
e strinse l’invisibile imeneo,
più puro del Cefiso ove diffusa
regnò la luce de le Grazie immerse,
quel fiume a me tutti i suoi doni offerse.
E primo dono — dono più divino
d’ogni altro — il fiore che da lui fioria!
Non sorgeva ella forse ogni mattino
come l’Anadiomene dal marino
gorgo? Talor di sùbito apparia
così bella nel solco del mio remo
ch’io per l’intime vene ancóra tremo
se ripenso la gioia folgorante
che m’invadea, mista d’un sovrumano
orgoglio, quando il suo corpo stillante,
impregnato del fresco odor fiumano,
era su le mie braccia palpitante
d’amore. Il giovanetto cipriano
tal non recava su le braccia ardite
verso un letto d’anemoni Afrodite?
Oh pe ’l rossore vesperal ritorni,
con remeggio lentissimo, a la foce!
Cantava ella; e viveano i suoi soggiorni
di favolosa vita a la sua voce.
Non io le ninfe e i satiri bicorni
scorsi lungo le rive ed il feroce
stuol de gli ippocentauri in sonore
fughe perdersi a monte pe ’l rossore?
E vissi anch’io la vita favolosa
lungo le rive d’un terrestre fiume!
Il mio cuore fiorì come una rosa
a l’aura immensa ed a l’immenso lume.
Io mi chiedea: — Vi fu mai nubilosa
stagione? Sceser mai le fredde brume
da le stelle? Oscurarsi può su ’l mondo
il Sole? — Tutto eterno era e giocondo.
Ella cantava l’inno unico immenso
de la Gioia; e pareva che un mistero
sacro mi rivelasse. Un altro senso,
qualcosa di raggiante e di leggero,
si diffondea ne le mie vene. Io penso
fosse qualcosa de l’antico Omero.
In lei cantava l’anima infinita
de la Terra a le fonti de la Vita.