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I
In un meriggio mite di marzo, quando il lino
dal tepore de’ solchi fiorisce alto e turchino,
quando trepido verzica il grano, un aratore
uscì da’ suoi tuguri a godersi il tepore
nuovo. E recò soletto la sua tarda vecchiaia
lungo le siepi nivee, là giù, sotto la gaia
giovinezza de i mandorli. Sentiva egli, a’ lontani
fiati de l’aria, a i languidi aliti che da i piani
spiravano, a l’immenso stupore sonnolento
che occultava i risvegli, un intenerimento
indicibile. Udiva con pia gioia d’amore
il respir de la madre Terra. Il sereno odore
che salìa per l’azzurro da i calici socchiusi
era come un incenso. E da lungi i confusi
strepiti e le canzoni, or sì or no mancando,
da l’opere de gli uomini venìan per l’ora, quando
il vecchio udì ne l’erba un fievole vagito
umano; e vide a l’ombra d’un mandorlo fiorito
tremolare una forma viva. Sopra le zolle
a le rugiade un bimbo giacea nudo: la molle
nudità parea quasi un grappolo di fiori
da le rame caduto. Tra le rame fulgori
tremuli discendeano a quel germine d’uomo;
e trionfava sopra candidamente il duomo
primaverile al sole.
la gran pelle di capra da gli òmeri; e tremava
nel sorriso rugoso la sua gengiva cava
quando il pargolo ignoto ne la pelle ravvolse.
Tornava a’ suoi tuguri tenendo su le braccia
quel peso palpitante, ove il roseo calore
de la vita affluiva. Ed aveva la faccia
luminosa. In trionfo lungo i pascoli in fiore
ei passava recando quell’indizio felice
di primavera. Aperse le froge al suo passaggio
un poledro tigrato come un zebra selvaggio,
con arcata la coda, eretta la cervice;
e guardava con occhi pieni di meraviglia.
Poi, quando il vecchio sparve da lungi tra le folte
macchie de la bassura ne la nebbia vermiglia,
dietro squillò il nitrito pe ’l silenzio tre volte.