Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Intermezzo
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Eleganze

La tredicesima fatica 34.

I

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I

In un meriggio mite di marzo, quando il lino

dal tepore de’ solchi fiorisce alto e turchino,

quando trepido verzica il grano, un aratore

uscì da’ suoi tuguri a godersi il tepore

nuovo. E recò soletto la sua tarda vecchiaia

lungo le siepi nivee, giù, sotto la gaia

giovinezza de i mandorli. Sentiva egli, a’ lontani

fiati de l’aria, a i languidi aliti che da i piani

spiravano, a l’immenso stupore sonnolento

che occultava i risvegli, un intenerimento

indicibile. Udiva con pia gioia d’amore

il respir de la madre Terra. Il sereno odore

che salìa per l’azzurro da i calici socchiusi

era come un incenso. E da lungi i confusi

strepiti e le canzoni, or sì or no mancando,

da l’opere de gli uomini venìan per l’ora, quando

il vecchio udì ne l’erba un fievole vagito

umano; e vide a l’ombra d’un mandorlo fiorito

tremolare una forma viva. Sopra le zolle

a le rugiade un bimbo giacea nudo: la molle

nudità parea quasi un grappolo di fiori

da le rame caduto. Tra le rame fulgori

tremuli discendeano a quel germine d’uomo;

e trionfava sopra candidamente il duomo

primaverile al sole.

Il buon vecchio si tolse

la gran pelle di capra da gli òmeri; e tremava

nel sorriso rugoso la sua gengiva cava

quando il pargolo ignoto ne la pelle ravvolse.

Tornava a’ suoi tuguri tenendo su le braccia

quel peso palpitante, ove il roseo calore

de la vita affluiva. Ed aveva la faccia

luminosa. In trionfo lungo i pascoli in fiore

ei passava recando quell’indizio felice

di primavera. Aperse le froge al suo passaggio

un poledro tigrato come un zebra selvaggio,

con arcata la coda, eretta la cervice;

e guardava con occhi pieni di meraviglia.

Poi, quando il vecchio sparve da lungi tra le folte

macchie de la bassura ne la nebbia vermiglia,

dietro squillò il nitrito pel silenzio tre volte.


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