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II
Così, come il caduto figlio di un nume antico,
ne la cuna di quercia crescea l’Ercole infante.
Una zingara muta co’ i succhi de le piante
gli infuse la fortuna un dì ne l’ombelico.
Ed una vecchia insonne gli filava da lato
senza posa cantando le dolci cantilene
de la patria. Saliva teneramente il fiato
da la bocca infantile, ed era come un lene
aroma. Ora, migravano giù da i contadi a torme
uomini e donne; ed era la gran cuna scolpita
a i migranti un altare. Tutte rosee di vita
cedeano sotto i baci gravi e caldi le forme;
e l’eroe con le dita cercava tra le dure
barbe, tra i cerchi d’oro, tra i femminili seni,
arridendo. Godeano quelle rudi figure
riflettersi nel riso de’ suoi occhi sereni.
Partivano co’ i canti, poi che in torno l’estate
su la grande abondanza de le mèssi esultava
e i mietitori curvi sotto il cielo di lava
iteravano i colpi de le falci lunate.
Crescea l’Ercole; e quando Ei da l’inerzia sorse
de la cuna ed il passo rivolse al limitare,
squillaron liete grida su per le case; e forse
rise benignamente al malfermo il dio Lare.
Ne i pascoli, abondanti d’acque vergini e fresche,
l’erba lo ricopriva. Ei l’infanzia inquieta
liberò per que’ pascoli, correndo senza mèta,
tra le mandre affondate ne l’erbe gigantesche.
I giovenchi fiutavano quel fanciullo gagliardo;
ed Ei senza paura sentiva su ’l suo capo
passar quel caldo fiato che sapeva di nardo,
di timo, di cennàmo, di citiso, d’isapo.
Nitrivano i poledri con un gentile omaggio
del collo; ed Egli amava quegli occhi in cui le brame
inquiete brillavano come in un terso rame
i riflessi d’un fuoco vermiglio. Ed era maggio;
ed era il maggio immenso, quando su da le prime
scorze una prodigiosa pubertà ruppe ed arse
con l’impeto de le àgavi che vibravan le cime
de i candelabri d’oro, lungi ne l’aria sparse.
Ed era maggio. Eretto su ’l dorso insofferente
di un poledro, a traverso la prateria, con l’erbe
a i fianchi, galoppava, come un centauro imberbe
senza faretra ed arco, meravigliosamente,
sollevando al passaggio fochi di cupidigia.
Le fanciulle su ’l limite de’ campi accorse a schiera
gittavano il cuor vivo dietro le sue vestigia.
Al ritorno cantando, per l’odor de la sera,
aveano ancor ne gli occhi la grande visione.
E l’eroe, come un dio, scendea ne la canzone.