Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Intermezzo
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Eleganze

La tredicesima fatica 34.

II

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II

Così, come il caduto figlio di un nume antico,

ne la cuna di quercia crescea l’Ercole infante.

Una zingara muta co’ i succhi de le piante

gli infuse la fortuna un ne l’ombelico.

Ed una vecchia insonne gli filava da lato

senza posa cantando le dolci cantilene

de la patria. Saliva teneramente il fiato

da la bocca infantile, ed era come un lene

aroma. Ora, migravano giù da i contadi a torme

uomini e donne; ed era la gran cuna scolpita

a i migranti un altare. Tutte rosee di vita

cedeano sotto i baci gravi e caldi le forme;

e l’eroe con le dita cercava tra le dure

barbe, tra i cerchi d’oro, tra i femminili seni,

arridendo. Godeano quelle rudi figure

riflettersi nel riso de’ suoi occhi sereni.

Partivano co’ i canti, poi che in torno l’estate

su la grande abondanza de le mèssi esultava

e i mietitori curvi sotto il cielo di lava

iteravano i colpi de le falci lunate.

Crescea l’Ercole; e quando Ei da l’inerzia sorse

de la cuna ed il passo rivolse al limitare,

squillaron liete grida su per le case; e forse

rise benignamente al malfermo il dio Lare.

Ne i pascoli, abondanti d’acque vergini e fresche,

l’erba lo ricopriva. Ei l’infanzia inquieta

liberò per que’ pascoli, correndo senza mèta,

tra le mandre affondate ne l’erbe gigantesche.

I giovenchi fiutavano quel fanciullo gagliardo;

ed Ei senza paura sentiva su ’l suo capo

passar quel caldo fiato che sapeva di nardo,

di timo, di cennàmo, di citiso, d’isapo.

Nitrivano i poledri con un gentile omaggio

del collo; ed Egli amava quegli occhi in cui le brame

inquiete brillavano come in un terso rame

i riflessi d’un fuoco vermiglio. Ed era maggio;

ed era il maggio immenso, quando su da le prime

scorze una prodigiosa pubertà ruppe ed arse

con l’impeto de le àgavi che vibravan le cime

de i candelabri d’oro, lungi ne l’aria sparse.

Ed era maggio. Eretto su ’l dorso insofferente

di un poledro, a traverso la prateria, con l’erbe

a i fianchi, galoppava, come un centauro imberbe

senza faretra ed arco, meravigliosamente,

sollevando al passaggio fochi di cupidigia.

Le fanciulle su ’l limite de’ campi accorse a schiera

gittavano il cuor vivo dietro le sue vestigia.

Al ritorno cantando, per l’odor de la sera,

aveano ancor ne gli occhi la grande visione.

E l’eroe, come un dio, scendea ne la canzone.


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