Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Intermezzo
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Eleganze

La tredicesima fatica 34.

V

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V

Or dunque ne’ contadi al piano eran le case

de l’agricola stirpe de i Feresi deserte

di compagne. Teneva uno stupore inerte

quei deformi, e premeva le grosse teste rase

la tristizia. Fasciati da le pelli caprine

gli òmeri (dietro i lombi, come un arco di argento,

pendea la falce), biechi in cerchia, su ’l confine

de’ lor campi, i Feresi stavano a parlamento.

A loro un turpe nano dicea meravigliose

favole de l’eroe. Ascoltavan, con occhi

dilatati, i bifolchi; ed un che avea ginocchi

ritorti, — Oh maledettolatrò — chi lo depose

ne la culla! — Ristettero a quel grido i bifolchi,

attoniti, guardando in gran sospetto a torno

se mai sopraggiungesse il nemico. Da i solchi

si levava il vapore lentamente, ed il corno

de la luna saliva nel ciel crepuscolare.

Voi porgetemi orecchioparlò sommesso un altro,

un che aveva l’aspetto volpino, e l’occhio scaltro.

Porgete orecchio! — Vennero, ne la nebbia lunare,

ad accostarsi; e, sopra, i vipistrelli a sghembo

tesseano voli. — Dorme colui con le sue drude

ne la notte, e una siepe secca di sterpi è al lembo

de la selva. Bruciamo la selva! Il fuoco chiude

ogni scampo. — Chinarono le grosse teste rase

annuendo i bifolchi, in susurro. E veniva

or sì or no col vento ne la notte lasciva

un cantico da lungi, mentre a le vuote case

tornavano.


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