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VI
Ora, lungi prosperava crescente
la colonia feminea, ne la selva; e una pace
grande tenea la selva già, poi che lentamente
ne le femmine accolte si spense ogni pugnace
impeto di possesso. Regnava eguale il sire
diffondendo il benefico amore. E contro i fusti
de le querci e de’ faggi intrecciate di arbusti
sorsero le capanne; e si vedean le spire
del fumo bianche svolgersi ne l’aria e a vespro i fochi
de le querci, a la notte illune. Ardeano fiochi
bagliori ne l’azzurro ed era l’aria senza
vento. Ma nel silenzio pur nasceano romori
vaghi: passi furtivi di bestie su’ tappeti
del musco, urti improvvisi d’ali a i rami, secreti
brividi de le foglie; assai vaghi romori.
E, salendo la notte al colmo, anche i profumi
s’addensavano. Tutte le cose eran tranquille,
placidi tutti i corpi, sommersi in alti fiumi
di sonno.
Ed ecco, a i lembi de la selva da mille
punti ruppe l’incendio, come da mille immani
fiaccole, in una cerchia. E la cerchia fragrante
rosseggiò. Si contorsero prime al fuoco le piante
giovini, in furiosi contorcimenti umani
di dolore; e le femmine, che udirono il ruggire
de i morituri, ignude, balzaron dal giaciglio,
tra ’l sonno, ad alte grida supplicando; ed il sire
chiedeano. Allora il gruppo di quei corpi, vermiglio
nel rossor de l’incendio, si aderse come un mobile
cumulo su l’altura de la selva; ed augusto,
quale un dio saliente sorse di tutto il busto
l’Ercole su quel cumulo, non mai piegando il nobile
capo.
Splendeva in torno per la notte d’estate
il gran rogo; ed attoniti dal lontano confine
guardavano i Feresi il rogo ove immolate
arsero con l’eroe tremila concubine.