Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Intermezzo
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Eleganze

La tredicesima fatica 34.

VI

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VI

Ora, lungi prosperava crescente

la colonia feminea, ne la selva; e una pace

grande tenea la selva già, poi che lentamente

ne le femmine accolte si spense ogni pugnace

impeto di possesso. Regnava eguale il sire

diffondendo il benefico amore. E contro i fusti

de le querci e de’ faggi intrecciate di arbusti

sorsero le capanne; e si vedean le spire

del fumo bianche svolgersi ne l’aria e a vespro i fochi

splendere.

Custodiva i sonni la clemenza

de le querci, a la notte illune. Ardeano fiochi

bagliori ne l’azzurro ed era l’aria senza

vento. Ma nel silenzio pur nasceano romori

vaghi: passi furtivi di bestie su’ tappeti

del musco, urti improvvisi d’ali a i rami, secreti

brividi de le foglie; assai vaghi romori.

E, salendo la notte al colmo, anche i profumi

s’addensavano. Tutte le cose eran tranquille,

placidi tutti i corpi, sommersi in alti fiumi

di sonno.

Ed ecco, a i lembi de la selva da mille

punti ruppe l’incendio, come da mille immani

fiaccole, in una cerchia. E la cerchia fragrante

rosseggiò. Si contorsero prime al fuoco le piante

giovini, in furiosi contorcimenti umani

di dolore; e le femmine, che udirono il ruggire

de i morituri, ignude, balzaron dal giaciglio,

tra ’l sonno, ad alte grida supplicando; ed il sire

chiedeano. Allora il gruppo di quei corpi, vermiglio

nel rossor de l’incendio, si aderse come un mobile

cumulo su l’altura de la selva; ed augusto,

quale un dio saliente sorse di tutto il busto

l’Ercole su quel cumulo, non mai piegando il nobile

capo.

Splendeva in torno per la notte d’estate

il gran rogo; ed attoniti dal lontano confine

guardavano i Feresi il rogo ove immolate

arsero con l’eroe tremila concubine.



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