Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
L'allegoria dell'autunno
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La Rosa di Cipro

PROLOGO

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PROLOGO

Appare, nella Reggia del Re latino di Cipro chiamata «la ben composta corte real», la camera terrena chiamata «Volta» perché fatta in vòlto, dalle pareti coperte di drappi d’oro. Lungo la mensa imbandita, a foggia di mezza luna, seggono i quattordici Vescovi, quattro greci e dieci latini; e l’Arcivescovo di Nicosìa è tra il Vescovo di Pafo e il Vescovo di Famagosta; e lo zio del Re, il principe di Tiro, conestabile del Reame di Gerusalemme, è tra il Maliscalco dell’Ospital e il Maestro del Tempio. E quivi sono il principe d’Antiochia e il principe di Galilea, e il Turcopliere, e il Siniscalco, e i Priori, e il fiore della cavalleria e della baronia franca. E all’un capo della mensa lunata siede la Regina, la madre di Sire Ughetto; all’altro capo il giovinetto Re. Scalchi, trincianti e coppieri attendono a ministrare. Una compagnia d’arcieri bulgari è presso la porta mediana, detta di Melusina a cagione dell’impresa che la sormonta. Un frate Minore, l’Elemosiniere del Re, incappucciato, sta presso la porta detta del Rilievo, che sul Giardino della Mirra, attendendo che gli avanzi del convito sieno distribuiti ai mendicanti accolti.

La Regina ha adunato i Vescovi per consiglio ché pensa esser venuto il tempo di dare donna a Sire Ughetto. Intanto qua e per la mensa scoppiano dispute e contese. Gioan Valar il Catalano, scaldato dal vino, impreca contro il bàilo dei Genovesi. Il principe di Tiro, lo sfrenato goditore, è già ebro; e si beffa del Vescovo di Pafo Pietro Frangipane gentiluomo romano, che narra l’istoria d’Astrolabio e dell’Anello.

Come il romore è sedato, la Regina intavola il discorso delle nozze. Sire Ughetto è come perduto in un sogno di tristezza, lontano dal convito, all’ombra della sua capellatura intonsa. Ed ecco, le spose novelle, le principesse nubili, son noverate: la figliuola del Re d’Armenia, la figliuola del Re di Cilicia, la figliuola del Doge di Venezia, la Paleologa figliuola del Despoto di Morea, la Infante di Maiorca, la figliuola del duca di Borbon Dama Maria… Per ognuna, ritratta è la bellezza, pesata la dote, considerate le parentele.

Ma Sire Ughetto balza impaziente (dietro di lui ondeggia lo stuolo dei Paggi d’Oltremare) e grida al Frate di san Francesco che gli dica qual donna ei debba tôrre.

«Madonna Povertade» risponde il Minorita.

Va pel mondo sconosciuta

et ognuno la rifiuta.

Tutti dicon: «Dio m’aiuta!»,

se la veggon pur passare…

Va con lei una Sorella,

che cenciosa ha la gonnella.

Va cercando per la terra

do’ potesse mai sostare…

«Ah, quella eleggo et amerò…» grida il piccolo Re pio, in una effusione mistica d’amore. Egli crede di averla veduta, crede d’avere già ascoltato il suo canto. Egli si ricorda dei suoi grandi occhi, del colore de’ suoi capelli, de’ suoi piedi nudi.

«Udite! Udite

S’ode, di dalla Porta del Rilievo, nel Giardino della Mirra una voce pura cantare misteriosamente. È Photine, la mendicante di Amathonta. Ella canta la leggenda della vergine Alète, pei latini santa Vagabonda.

Ad Alète si voterà Sire Ughetto. La Sorella della Povertà sarà la sua sposa promessa. Quando verrà? quando approderà in Cipro?

Va cercando per la terra

do’ potesse mai sostare…

Ora egli vuol celebrare con l’ultime mense il convito della Promessa. Comanda che sia aperta la porta ai mendicanti, all’umile fame che attende nel Giardino della Mirra. Grida agli scalchi e ai coppieri che sien recate le vivande e le inguistare. Allora gli schiavi sollevano i vasellami preziosi, recano nei canestri i pani e i frutti, mentre l’Elemosiniere apre la Porta del Rilievo. Non fanno strepito i cardini volgendosi. Una banda di sole entra silenziosamente nella camera d’oro, e lo splendore ripercosso avvolge i convitati. È strano silenzio. Non si fa alla soglia alcuna ressa, non si tende alcuna mano, non s’ode alcuna implorazione. Nell’attesa, stando alle merie sotto gli arboscelli dell’odore, i mendicanti si sono addormentati. Stanno immersi nel sonno, respirando verso il caldo giorno. Una sola creatura è desta, seduta sul margine della fontana; e sembra la lor custode. Com’è bella! I Paggi d’Oltremare si accalcano dietro il Re per guardarla. E gli schiavi s’arrestano carichi dei cibi delicati e degli ottimi vini. «Photine d’Amathonta! PhotineSire Ughetto chiama la mendicante. Ella s’appressa. Nella luce del sole non si vede se non la sua ombra azzurra su la soglia.

Il Re la interroga. Ella risponde in una maniera misteriosa e infantile. Il Re la prega che canti la canzone di Alète. Ella canta la leggenda della vergine errante che un giorno, come santo Mama approdò nell’arca pesante su la costa di Morpho, verrà sopra una fusta di corsari, legata con corde di sparto.

«Vieni! Entra!» le dice il Re.

Ella è ritrosa.

«Entra! Vieni a sederti alla mia mensa. Siediti nel luogo mio! Sii la regina del mio nuovo convito, Photine, Luminosa

Ella si niega. Non varca la soglia ov’è colcata la sua ombra azzurrina.

«Che posso io darti?» le chiede il giovinetto.

«Un pane

«Solo un pane

«E una rosa

Allora Sire Ughetto prende da un canestro d’argento un pane biondo, e l’offre alla mendicante. Non si vede, nella banda di sole, se non la destra mano che si tende per riceverlo.

Allora un de’ Paggi d’Oltremare prende di su la mensa una rosa; la quale passa di mano in mano per la catena dei compagni, come in una figura di danza, sinché l’ultimo la porge al Re. E il Re la dona alla mendicante. Non si vede, nella banda di sole, se non la sinistra mano che si tende per riceverla.

«Photine! Photine

Ella è disparita. E nell’aria è come un incantamento, che rende i convitati attoniti e fissi.



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