Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Intermezzo
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Intermezzo di rime [Editio princeps, 1883]

VI Venere d’acqua dolce

II 60

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II 60

Tale prima io la scorsi. Era un’oscura

conca d’acque in un braccio solitario

de ’l fiume, ove traverso la frescura

filtrava il sole a tratti agile e vario;

di sotto a una spalliera di verdura

tenera qualche tronco centenario

di salcio da le radiche scontorte

pareva un gruppo di vipere morte.

Io disteso ne ’l fieno, poi che a l’esca

non un sol pesce accorse, udivo il lento

mareggiare de ’l fieno a l’aria fresca

e de li alberi il gran frascheggiamento.

Trasalii; ché tra l’erba gigantesca

parve d’un tratto mi recasse il vento

un sentore di carne: il corpo eretto

di Nara, seminudo, a mezzo il petto,

sorgea fuori de l’erba. Ella con mite

fruscìo tendea, strisciando, a la riviera:

le mazze sorde intorno le fiorite

spighe ergevano a lei. Come levriera

ella fiutava il vento, alta: ferite

da la provocatrice primavera

le sue nari vibravano; su ’l dorso

i suoi capelli ribellati a ’l morso

de ’l pettine cadevano. Un antico

di menade frammento era il suo busto

eretto, in quell’inconscio atto impudico.

Giunse a ’l limite: l’acqua ne l’angusto

cerchio stagnava, e fino a l’ombelico

la bagnò frescamente. A l’acre gusto

di quel fresco increspavasi la pelle

e dure si drizzavan le mammelle.

Io spiava tra l’erba. Ella, le braccia

protesa a un ramo, tutta sopra il saldo

fianco ondeggiò, levando alto la faccia

e la gola carnosa ove oro caldo

le si accendea. Poi, come serpe in caccia,

da ’l ramo si lanciò ne lo smeraldo

de l’acqua che in tempesta ampia si mosse

rifiorendo di schiume a le percosse.

Le nudità pieghevoli guizzanti,

ne ’l mister de la conca fluviale,

tra una greggia di foglie galleggianti

metteano un solco; e dietro il solco l’ale

il desiderio mio tratto a li incanti

de la carne battea rapido, quale

a ’l bosco richiamato da l’odore

de la preda selvaggia un avoltore.

Ma quando il corpo ella adagiò deterso

a fior de l’acqua e simili a scarlatte

bacche le cime de ’l suo sen riverso

galleggiarono, e il ventre suo di latte

palpitò di stanchezza, e de l’emerso

monte tra la pelurie fina attratte

scintillaron le gocce, e ne la grigia

iride scintillò la cupidigia

de ’l piacere, io che in quel riarso letto

d’erbe in silenzio mi torcea, ferito

da un intenso desìo, tale da ’l petto

per non più soffocar misi un bramito,

ché con rapido moto ella in sospetto

si volse. Poi, qual cerva che a l’invito

de l’amore fiutando erge la testa

se oda il maschio passar ne la foresta,

la giovine guatò, senza paura,

in attesa di pugna… Oh come, oh come

a l’agguato de ’l sol la sua figura

tutta ne la ricchezza de le chiome

si porse e in van pugnante a la congiura

dei virgulti e di me rese le dome

braccia!… — Cantavan alto biancheggiando

consapevoli i pioppi in linea, quando

a ’l ritorno vogai. Su la Pescara

lontanava de’ pioppi il colonnato,

e fra li intercolunnii, ne la chiara

serenità, moriva il sol tuffato

in caldi fumi. Una fragranza amara

di succhi col sentor de ’l fien falciato

da quell’ammasso vegetale, a ’l lento

naufragare de ’l sole, urgea ne ’l vento.


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