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III 61
E così tante volte io sovra il letto
de l’erbe amai quella superba e rude
Venere fluviale, ne ’l conspetto
de’ pioppi. Ed entro il cerchio de le ignude
braccia, a ’l profumo de l’ignudo petto
il mio vigore lentamente in crude
lascivie illanguidiva. Era una morte
oblïosa, un incanto ove la forte
adolescenza si perdeva; in quella
primavera de ’l fiume, in quel felice
risveglio de la patria. Una novella
prendea le cime, qual da una mammella
di femmina gigante, irrigatrice
di vite, il latte; ed una sonnolenza
quasi di parto ad ora ad or l’ardenza
addolciva de l’aria; e da ’l lavoro
ne ’l silenzio de l’aria, come un coro
naturale saliva; e de l’estate
l’alito già saliva; e a messidoro
i canti, ne le vigne soleggiate,
tra i solchi de ’l frumento, pe’ i lontani
culmini già salìano, i canti umani!
Noi portammo una viva ecloga in fiore
a traverso i tumulti. In ogni nervo
io sentiva fuggirsene il vigore;
ma tenuto a quel corpo io, come un servo
a ’l suo ferro, non grido altro d’amore
avea per Nara che il bramir de ’l cervo
in disìo. Quando muta ella tra i fusti
appariva de’ pioppi, su i robusti
fianchi ondeggiante, ne ’l novilunare
auspicio, e le sue chiome ardue di rame
si tingeano e la voglia entro le chiare
iridi ardeva in folgori di lame,
io mi sentiva i muscoli tremare
di febbre. Ella venìa, bella ed infame,
a sazïarsi. Ed io non la tenea
per conquista: ella a me, come una dea
a la gente mortale, il godimento
de le membra concesse. Alta, su ’l fieno,
senza pietà, me ne l’abbattimento
lasciava; con quel grande occhio sereno
riguardandomi, lungi a passo lento
perdevasi ne l’ombre. Ma il veleno
de le lussurie sue ne le mie carni
s’insinuava a rodermi li scarni
fianchi; ma de la sua pelle i tenaci
dàvanmi a ’l sangue; ma de’ lunghi baci
mi restava il sapor ne la saliva,
quando a provar carezze meglio audaci
con la sua lingua su la mia gengiva
ella scorreva e tra la molle bava
le labbra con i denti mi segnava.