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Il preludio annunzia l’alba sul tema del canto del gallo, sul breve inno di quattro note che già s’alzava verso la luce nuova nelle antiche notti vegliate sotto il nume della Cìpride. Al grido risponde il grido più lontano. Incessanti richiami, incessanti risposte. Sembra che dal grembo dell’isola citereia – ora coperta di monasteri, di chiese e di cappelle – la divinità sepolta sia per risorgere al canto eccitatore.
Ed ecco, per entro al tripudio mattutino palpita qualche lembo d’inno cristiano.
Il coro delle Clarisse sale dal chiostro silenzioso ove si svegliano anche i rosai che tinse il sangue di Adone.
Ed appare il chiostro del Monastero di Santa Chiara. Sopra le ogive ornate di musaici, sostenute dalle colonne binate, s’aprono le finestrette delle celle. Una fontana è nel mezzo. A ogni angolo è un cipresso. Il chiostro a matutino è in faccende come un grande alveare. Sant’Alète, santa Vagabonda, è ricoverata nel monastero francescano! La sera innanzi vi fu portata in gran pompa dal Re, dal Vescovo e da tutta la chiericìa.
Le clarisse si affacciano alle finestrette, vanno e vengono, scendono nel chiostro, risalgono, spìano, aspettano, anelano. È un gran pigolare, è un gran cicalare, tra le colonne e gli arbusti. A mattutino venir dee Sire Ughetto, per condurre la Beata a Nicosìa.
Ed ecco, la vergine Alète accompagnata dalla Madre Badessa viene lungo il portico. Ah, com’è bella! Le suore si accalcano intorno a lei, e la guatano e la toccano, e le baciano il lembo del vestimento. Ella si siede sul margine della fontana. Le monache le fanno corona. Osano parlarle, osano dimandare. Ella risponde in una maniera ambigua e lontana, con grazia infinita, con un sorriso candido come quel della più fresca fanciullezza. La sua bellezza è come un perpetuo miracolo. Una sorta di felicità ingenua si versa dalle sue ciglia. Tutte le clarisse s’illuminano di letizia. Sembra ch’esse ricevano una mirabile rugiada. Il chiostro sembra pieno d’un tubare di colombe giubilanti.
«Oh, resta con noi, Beata! Non te ne andare! Coprici della tua grazia, Alète!» Esse la pregano, le s’inginocchiano dinanzi, tendono verso lei le mani supplichevoli.
A un tratto, giungono strepiti e grida. E la suora portinaia, le converse, tutte le servigiali del convento accorrono sbigottite…
Fu forzata la porta sacra dalla masnada del signore di Sur! Uomini avvinazzati e femmine folli hanno fatto irruzione violando la clausura.
Ecco, ecco, appare il principe di Tiro seguìto dalle sue meretrici e dai suoi zaffi, reduce dal bagordo notturno.
«La Pisanella! La Pisanella! Dov’è la Pisanella?»
Egli viene a rapire la donna avventurosa che le compagne credettero riconoscere, laggiù, nel porto, quand’era legata dalle corde di sparto. Non sant’Alète. Non santa Vagabonda, ma la Catarina di Pisa, Catarina Gualandi, la famosa meretrice, presa dai corsali mentre faceva il passaggio d’oltremare per le Smirne!
Ella è là, fra il terrore delle clarisse, impavida, pronta al cimento. Le cortigiane la circondano, la svergognano; le ricordano i luoghi ove la videro, ove la incontrarono, le imprese d’amore, le fortune, gli amanti innumerevoli…
Or ecco che, mentre il signore di Sur l’afferra ai polsi per trarla seco, sopraggiunge Sire Ughetto inconsapevole. Da prima l’orrore del sacrilegio gli toglie ogni colore di vita e ogni soffio di voce. Ma, non desistendo il crapulone dall’oltraggio e dalla violenza, egli cieco di dolore e di furore pone mano allo stocco, gli s’avventa e lo trapassa. Il signore di Sur piomba a terra, nel suo sangue. Il sacrilegio è aggiunto al sacrilegio, nel luogo santo. Tutto è perdizione e morte. Le meretrici fuggono strillando, le suore spariscono per i portici, gli zaffi raccolgono l’ucciso e lo trasportano. Il chiostro rimane deserto e silenzioso. Soli, l’uno di fronte all’altra, rimangono Sire Ughetto e la Pisanella…