Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
L'allegoria dell'autunno
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La Rosa di Cipro

ATTO TERZO E ULTIMO

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ATTO TERZO E ULTIMO

Appare la loggia attigua al giardino pensile nel palagio di Cerynia, a specchio del Mar cilicio. In fondo, di dai cancelli, un alto e folto roseto ondeggia al vento marino. Addossate ai cancelli, sette schiave arabe stanno in atto di falciatrici pronte all’opera, con in pugno le falci d’oro sottili come il primo quarto della luna. La Regina è seduta sul suo seggio, e presso lei è Psilludi il Cretese. Ella attende la Pisanella, la donna maliosa che ha reso demente il suo figlio.

Da un anno Sire Ughetto è chiuso con colei nella rocca chiamata Dio d’Amor sul monte di Santo Hilarione. Ogni tentativo di distoglierlo, di richiamarlo, di rendergli il senno, è fallito.

Ora la Regina ha mandato alla rocca il messaggio della perdonanza. «Andate; e ditele che venga, ch’io le rimetto la colpa, ch’io desidero vederla, compiacermi in lei, averla omai come figliuola diletta…»

La Pisanella ha consentito di visitare la Regina, deludendo la vigilanza di Sire Ughetto.

Ecco, la bellissima arriva. Ecco, ella sale per la scala di marmo. La Regina si leva, si fa a capo della scala, e la guarda salire, china verso lei, dicendole dolci parole. Con grazia infantile ella pone il piede su l’ultimo grado. È inconsapevole e fidente. Ha seco due schiave che portano un cofano. La Regina la prende per mano; e la conduce verso un cumulo di cuscini disposti su tappeti preziosi, perché ella si adagi. La guarda, la tocca, la blandisce; pare che non si sazii di rimirarla.

«È vero, Bella, che canti come nessun’altra mai? È vero che suoni? È vero che danzi? È vero che sai tanti bei giuochi, mia piccola rosa

La Pisanella ha recato nel cofano i suoi strumenti, le sue vesti, i suoi giuochi. Ella è pieghevole e carezzevole: vuol sedurre la Regina, vuol meravigliarla e incantarla.

Ella fa un giuoco grazioso.

La Regina è intenta e sorride.

Ella intona una canzonetta.

«Che dolce voce! Quanto mi piaci, piccola rosa

Ella danza.

E le sette falciatrici intanto sono entrate nel roseto, e tagliano le rose, e ne fanno fasci. Si vede il balenar dell’oro lunato contro gli steli.

Ed ella fa un gioco, ed ella canta, ed ella danza.

«Come sei bella, passione del figliuol mio! Quanto mi piaci!» le dice la Regina. «Benvenuta sii, piccola rosa. Benvenuta sii, bianca colomba. Ora non più ti partirai da me. Con me mangerai, con me beverai. Di doni ti colmerò e di carezze. Una gemma più grande di quella che sire Lachas il Nestorita comperò dal Catalano, oggi io te la darò, che tu ne orni il tuo petto…»

La danzatrice ha compita la sua danza. Ella è in piedi, anelante, credula, splendida di gioia.

E le sette falciatrici, tenendo fra le braccia i pesanti fasci delle rose recise, s’avanzano verso di lei, caute, in catena, come per incalzarla e serrarla. Ella si volge, e ride. E sùbito inventa un suo gioco, schivando la catena, passando tra l’uno e l’altro fascio, agile, presta.

Le falciatrici cercano d’impedirle il passo, di chiuderle la via. Ella più ride, si fa più agile e più presta: si piega, si tende, guizza, striscia, balza.

E quelle, senza far motto, sempre più la serrano, la spingono verso il cumulo dei cuscini, nell’angolo chiuso, tra il cancello e la parete. A un tratto, ella incontra lo sguardo della Regina e vi legge la volontà micidiale. Ella intravede per entro i fasci gli occhi delle schiave, e vi legge la morte. Il riso s’agghiaccia. Ella è perduta! Allora prega, supplica, piange, s’inginocchia. Non vuol morire! Non vuol morire! Minaccia, impreca, chiama Ughetto, invoca disperatamente il suo amore.

Non v’è scampo. È presa. Invano resiste. Cade su i cuscini riversa, si dibatte invano. Le falciatrici la soffocano sotto i fasci di rose mortali…

10 luglio 1912.



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