Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
L'allegoria dell'autunno
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I vini e il lurco

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I vini e il lurco

Mio caro Hans Barth,

il vostro lepidissimo e disertissimo libro, polito con la pomice lasciata da Catullo su la tavola d’una taverna veronese, mi sembra illustrare la sentenza di quel savio bevitore Avicenna che morì d’una malattia di stomaco: esser permesso il vino all’uomo di bello spirito e vietato al balordo. Una Musa goliardica dal viso di capra sima tinto di feccia, ogni volta che vi sedete a desco molle in seggiola o in panca per badialmente bere, si china di sul vostro òmero e intingendo il dito un po’ adunco nel vostro bicchiere disegna su la lastra di bardiglio un capriccio alla maniera del Callotta o scrive un emistichio giocoso confondendo il latino dei Clerici con quello di Orazio. «O! o! tota floreodice la vostra Musa capripane. «O! o! totus rubeorisponde il vostro naso prode. L’astemio, nato ebro, onora in voi il beone «ornato di tutte lettere» come il cardinal Bembo nell’iscrizione veneziana e come lo scolare Martin Lutero nella vecchia Isenach dei Langravii.

Due volte la tortora della rimembranza ha tubato di malinconia nel mio cuore, alla lettura gioconda. Con che grassa pennellata fiamminga voi dipingete la bettola degli Svizzeri sotto la Torre Borgia! Ben la conosco. Quando la mia vita non era ancóra quello specchio di probità e di continenza, ove oggi il mondo si rimira, io usavo condurre qualche giovine amica nel grottino borgiano per compirvi qualche dolce avvelenamento. Vi siete mai seduto nella saletta dalle pareti gialle, entro il vano della finestra ove un’amorosa tavolina è fra due sedili di pietra così che le ginocchia dell’affrontata coppia conviene si tocchino e s’intramettano pur anche? Per l’inferriata si scorge il gran cortile del Belvedere tra ombra e sole; si scorge il muro onde sporgono i balconi sostenuti dalle gagliarde mensole che orna la rosa a cinque foglie, di dove soleva assistere alle giostre il bibace Alessandro. Sul davanzale mazzi di carte da giuoco, pezzi di lavagna e di gesso per segnare i punti nelle partite, e anche il bossolo e i dadi da gittar su la pelle d’asino tesa nel tamburo del lanzo. Quante volte ingannevolmente li gittammo! Una vecchietta rubizza, il cui perpetuo sorriso irradiandosi per le rughe pareva avesse cento labbra, serviva quel pan biondo che porta nella crosta due fenditure come due belle ferite rammarginate dal forno, e nell’insalata di mesticanza erbe molto delicatissime, come direbbe Giovanvettorio Soderini, e gli aranci sugosi, e la tonda caciottella, quel candido tenero umido formaggio che sembra serbare la più fresca verginità del latte sotto la sua liscia buccia ed esser tuttavia quale Albio Tibullo lo consacrava in mondissima offerta alla dea Pale. Ma in voi l’ardor della sete deve aver distrutto la squisitezza della ghiottornia, caro mio dottore.

E chi per ghiottornia

si getta in beveria,

canta per voi Messer Brunetto. E forse ignorate che la fumosa cucina borgiana ebbe un’epoca d’incomparabile eccellenza quando Giovanni Tesoroneegualmente sommo nell’invenzione delle salse e delle vernici, le quali si pertengono a due arti del fuocorestaurava nelle stanze dei Borgia i pavimenti di maiolica, sotto il pontificato di Leone XIII. Come dava egli alle nuove mattonelle l’impronta del grande stile, così educava alla più alta disciplina l’umile cuoco dei lanzi, pronto egli sempre a soccorrere di sua mano maestra l’opera delle cotture come quella delle invetriature. Lo strombo della finestra fu allora, per lunga stagione, un nascondiglio di buongustai. Su la tovaglia una mattonella iridata come la gola del colombaccio dava gioia agli occhi tenendo luogo di fiori. Quivi, leggendo un giorno dopo le frutta gli epigrammi e le odi dell’ottimo umanista Gioacchino Pecci, imaginai quella mia prosa Ode Leonis che molto piacque al pontefice poeta. Il quale, volendogli taluno dimostrare la necessità di porre all’Indice i miei libri, con quella voce che incredibilmente gli si arrotondava nell’appuntato naso rispose doversi per l’onore delle umane lettere lasciare immune il «miglior fabbro del parlar materno». Lode papale di cui mi giova mitriarmi contro le ingiurie di quei litteratissimi sacrestani i quali dimenticano avere io, con La figlia di Iorio e con La Nave, creato la tragedia cattolica e celebrato nell’una e nell’altra catastrofe il Trionfo della Fede come un pio tragedo tragediante «con licenza dei Superiori». Eh, mio modesto Hans Barth, bisogna a quando a quando bruciare un granello d’incenso anche nella taverna. È officio salutevole, per l’anima e pel corpo.

Ma troppo, ahimè, quegli anni sono remoti. E la memoria, dopo aver traversato il cortile di San Damaso e sostato alquanto alla farmacia presso Fra Cirillo e Fra Diodato stillatori di soavissimi rosolii, fa un gran volo sino al ponte austriaco che disonora il Canalazzo, e cerca su la fondamenta, dietro l’Accademia, il giardino del Montin ombrato di pergole credendo di trovarvi alcuna delle honeste meretrici carpaccesche fuggita dal Museo Correr con cagnuole, paoni, pappagalli e melagrane. Ma non più il divino pittore lunatico Marius de Maria, che certo s’è giaciuto con la Luna come l’imperatore, disputa con Angelo Conti intorno all’arte di macinare e d’impastare le terre o pone in fuga gli avventori importuni con urli e gesti celliniani; né più il filosofo della Beata Riva si persuade che solo può penetrare il mistero dell’Universo, secondo il verbo del poeta di Chiraz, l’uomo il quale abbia tracannato molte coppe di vin pretto. Una sera egli giunse accompagnato da due uomini rossi. Uno era ben quello col cappuccio su gli occhi, che sta abbracciato alla colonna, nell’Adorazione dei Magi del secondo Bonifazio; e l’altro era quello, ancor più misterioso, che sta nell’Adorazione del Bramantino alla Galleria Layard in Ca’ Capello a San Polo. Poco dopo sopravvenne il terzo uomo rosso: quello che, avendo ricevuto una falsa moneta d’oro, va affannosamente cercando pel mondo il Re imaginario la cui effigie è coniata nel metallo, e non vuol morire se prima non lo trovi, non lo riconosca e non riesca infine a spendere il valsente. Fu un conciliabolo memorando, che forse un giorno vi racconterò; e fu l’ultimo.

Le vostre pagine mi son dunque un vero dono d’autunno, anche per questa malinconia, simili a un fascio di pampani scritti. Sotto a’ quali odo la nova pigna d’uva canticchiare come l’antica: «Ho fatto mala condotta, ahimè. Ho peccato d’impudicizia col Sole, e di lui sono gravida. Perloché il Re dell’Universo a castigarmi m’ha annerato il capo e curvato verso terra, e data m’ha alle vespe che tutto il giorno mi pungano. Prendi una coltella e segami la gola. Di poi mettimi in un canestro che un servo porti a un tino dove tu mi pesterai. Trecento colpi di calcagna mi darai tu in sul capo. E gitterai i miei ossi, la mia polpa, la mia pelle lacera, e verserai il mio sangue in una botte e ve lo custodirai per un’annata. Allora forse e tu e gli amici contenti sarete e satisfatti di me, quando mi beverete voi a onor del Principe tra cimbali e flauti

Ma scarso ragguaglio posso io darvi delle taverne pisane, se bene assai sovente qualche solenne sbornia corale strepitando lungo la marina turbi le mie caste veglie. Qui pedintorni non conosco se non qualche piccola vigna arenosa; e, come la ragia di pino è in abbondanza, imagino che n’esca un vinello resinato non dissimile a quello che i pastori bevono nel Peloponneso e i marinai nel golfo di Corinto. Del quale io, acquàtile, assaggiai con torta la bocca qualche sorso imaginando di sorbire il fondigliuolo dell’otro di Ulisse.

Se dunque volete imprendere una peregrinazione autunnale per le spiagge etrusche in cerca di buone taverne, conviene che traversando la Lunigiana – ove è un vin fumoso che colora e accalora la bestemmia dei carradori dannati a portare i marmi pel carico dei navicelli – facciate una lunga sosta sul litorale delle Cinque Terre a inzupparvi di quella vernaccia di Corniglia celebrata già dal Boccaccio e annoverata dal poeta tra le delizie offerte agli ospiti vegnenti nella feria d’agosto.

Fresche delizie avranno elli da scerre

bene accordate su la stoia monda:

l’uva sugosa delle Cinque Terre

e nera e bionda,

l’uva con i suoi pampani e i suoi tralci,

le pèsche e i fichi su la chiara stoia,

e le olive dolcissime di Calci

in salamoia.

Infra l’ombrìna e il dèntice la triglia

grassa di scoglio veggan rosseggiare,

e il vino di Vernazza e di Corniglia

nelle inguistare…

Penso che su lo scoglio di Vernazza ripeterete il secolare: Est est est.

Ma se vorrete pur sostare alla foce d’Arno, qui dove fra tanta acqua dolce e amara vive il vostro amico scandolezzatore e attende alla sua opera corruttrice che anche una volta è per offendere la veneranda virtù dei contemporanei, io vi prometto di sacrificare alla vostra sete un boccione d’olente vino d’Oliena serbato da moltissimi anni in memoria della più vasta sbornia di cui sia stato io testimone e complice.

Non conoscete il nepente d’Oliena neppure per fama? Ahi lasso! Io son certo che, se ne beveste un sorso, non vorreste mai più partirvi dall’ombra delle candide rupi, e scegliereste per vostro eremo una di quelle cellette scarpellate nel macigno che i Sardi chiamano Domos de Janas, per quivi spugnosamente vivere in estasi fra caratello e quarteruolo. Io non lo conosco se non all’odore; e l’odore, indicibile, bastò a inebriarmi.

Eravamo clerici vagantes per un selvatico maggio di Sardegna, io, Edoardo Scarfoglio e Cesare Pascarella, or è gran tempo, quando giungemmo nella patria del rimatore Raimondo Congiu piena di pastori e di tessitrici, ricca d’olio e di miele, ospitale tra i Sepolcri dei Giganti e le Case delle Fate. Sùbito i maggiorenti del popolo ci vennero incontro su la via come a ospiti ignoti; e ciascuno volle farci gli onori della sua soglia, a gara.

Ah, mio sitibondo Hans Barth, come le vostre nari sagaci avrebbero palpitato allorché il rosso nepente sgorgò dal vetro con quel gorgòglio che suol trarvi dal gorgozzule quei «certi amorevoli scrocchi» di cui parla il nostro Firenzuola! Avete nel cuore qualcuna di quelle Odi purpuree di Hafiz che cantano il vino e la rosa? Ci parve che l’anima stessa dell’Anacreonte persiano emanasse dalla tazza colma, col colore del fuoco e con l’odore d’un profondo roseto. Certo, chi beve di quel vino non ha bisogno d’inghirlandarsi.

Il poeta epico di Villa Gloria, che allora allora col Morto de Campagna e con la Serenata era entrato nell’arte giovanissimo maestro per la porta della perfezione, non ebbe cuore di respingere un dono di ospitalità così fatto. E io, ebro già dell’odore, lo pregavo di bere per me; e simile lo pregava il nostro compagno. Cosicché per ogni dimora egli ritualmente votava tre tazze. E di tre in tre compose nel suo cuore le terzine di molti mirabili sonetti, che non conosceremo giammai.

Ora accadde che nell’ultima casa, affacciata sopra un uliveto più bello e più santo di quelli che ombrano la via di Delfo, domandando l’ospite a ciascuno di noi notizie del nostro paese natale, io fossi da lui riconosciuto come il figlio del signore che un giorno nel lontano Abruzzo per singolari vicende l’aveva accolto secondo l’antico nostro costume liberale. Commosso dal ricordo sino alle lacrime se bene avesse un occhio solo, egli si profuse in carezze verso me e i compagni con tanto calore ch’io mi sentii perduto. Ma il Pasca votò anche una volta tre e tre coppe. E io m’ebbi in dono una pelle di cignale, un lungo fucile damaschinato d’argento e un caratello. Quando uscimmo per raggiungere la nostra vettura, il generosissimo sostituto era già trasfigurato in prisco Quirite e voleva lasciar su la via le vili brache polverose per vestire a guisa di toga illustre il cuoio irsuto. Gli persuademmo ch’egli fosse già togato. E allora meravigliosamente sragionando, come s’egli avesse consuetudine della lunga veste, faceva l’atto di raccogliere al petto le pieghe della destra parte e di comporre sul braccio sinistro quella specie di tracolla che dicevasi in Roma il seno della toga. E in quel seno imaginario, pieno d’una inesausta eloquenza, fu di certo concepita primamente la Storia romana. Esso poi e il Quirite si riempirono d’un letargo che durò due giorni. Ma in tutto (udite, o luterano ligio alle regole papali!) la sbornia d’Oliena fu quadriduana.

«Iam foetet» dice Marta a Gesù, come vien tolta la pietra di sopra a Lazaro giacente da quattro . Ma il Pasca dopo quattro auliva ancóra come il roseto di Hafiz. «Adhuc bene olet

Andate dunque da Monterosso di Mare a Oliena d’Oltremare, valicando il Tirreno sino al golfo di Orosei, magari in velivolo, o stirpe di Otto Lilienthal. Son certo che è la mèta sublime delle vostre peregrinazioni eloquenti; è l’estasi e il silenzio, in una Casa di fata o in un Sepolcro di gigante. E il ricordo di tutte le taverne laudate, dalla Verona della Luna alla Capri di Hermann Moll, sarà vanito. E, preludendo e interludendo su le canne della launedda paesana, voi canterete i versetti del salmo supremo, a imitazione di Minutchehr.

«A te consacro, vino insulare, il mio corpo e il mio spirito ultimamente.

«Il Sire Iddio ti dona a me, perché i piaceri del mio spirito e del mio corpo sieno inimitabili.

«Possa tu senza tregua fluire dal quarteruolo alla coppa e dalla coppa al gorgozzule.

«Possa io fino all’ultimo respiro rallegrarmi dell’odor tuo, e del tuo colore avere il mio naso per sempre vermiglio.

«E, come il mio spirito abbandoni il mio corpo, in copia di te sia lavata la mia spoglia, e di pampani avvolta, e colcata in terra a piè d’una vite grave di grappoli; ché miglior sede non v’ha per attendere il Giorno del Giudizio

Ad multos annos, ilare amico, finché non abbiate voi bevuto almen tanto di vin mero quanto d’acqua torba reca il Cedrino in piena di maggio per la terra ospite!

Valeas floreas rubeas, multibibe doctor. Ave.

Marina di Pisa, ottobre 1909.



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