Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
L'isotteo
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IX. Ballata e sestina della lontananza

Sestina 25.

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Sestina 25.

Quando più ne’ profondi orti le rose

aulivano per l’aria de la sera

e mesceasi a quel lor tepido fiato

sapor di miele da’ pomari d’oro,

venne Isaotta un tempo a le mie braccia,

candida e mite quale a maggio luna.

Non sì dolce chinò li occhi la Luna

su ’l suo vago sopito in tra le rose

Endimion, tendendo ambe le braccia,

(splendeva il Latmo a la vermiglia sera,

cui bagnano i ruscelli in vene d’oro:

sol de’ veltri s’udia l’ansante fiato)

com’ella sovra me. Caldo il suo fiato

io sentia su ’l mio volto, ed a la Luna

vedea brillare la cesarie d’oro

cui cingevano i miei sogni e le rose.

Fulgida aurora a me parve la sera,

ne ’l cerchio de le sue morbide braccia.

Dolce cosa languir tra le sue braccia!

Dolce, languendo, bevere il suo fiato!

Voci correan d’amor per l’alta sera;

e bramire s’udian cervi a la Luna

da’ chiusi, e Agosto a l’ombra de le rose

cantar soletto in su la tibia d’oro,

e a quando a quando, come in vaso d’oro

pioggia di perle, da le verdi braccia

de li alberi che misti eran di rose

le odorifere gemme ad ogni fiato

d’aura cader su’ fonti ove la Luna

piovea gli incanti de l’estiva sera.

O donna ch’anzi vespro a me fai sera,

cui Laura è suora ne le rime d’oro,

deh foss’io, come il vago de la Luna,

addormentato, e alfin tra le tue braccia

mi risvegliassi e bevere il tuo fiato

potessi ancóra, in letto alto di rose!

Tu la Bella vedrai diman da sera

e a lei ricingerai le chiome d’oro,

canzon, nata di notte senza Luna.




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