II.
Io
nacqui ogni mattina.
Ogni
mio risveglio
fu
come un'improvvisa
nascita
nella luce:
attoniti
i miei occhi
miravano
la luce
e
il mondo. Chiedea l'ignaro:
«Perché
ti meravigli?».
Attonito
io rimirava
la
luce e il mondo. Quanti
furono
i miei giacigli!
Giacqui
su la bica flava
udendo
sotto il mio peso
stridere
l'aride ariste.
Giacqui
su i fragranti
fieni,
su le sabbie calde,
su
i carri, su i navigli,
nelle
logge di marmo,
sotto
le pergole, sotto
le
tende, sotto le querci.
Dove
giacqui, rinacqui.
Mi
persuase i sonni
il
canto della trebbia,
il
canto dei marinai,
il
canto delle sartie al vento,
l'odore
della pece,
l'odore
degli otri,
l'odore
dei rosai,
il
gemitìo del siero
giù
dai vimini sospesi
nella
cascina, la vece
delle
spole nei telai
notturna,
il ruggir cupo
dei
forni accesi,
il
favellar leggero
dell'acque
pei botri,
il
battere della maciulla
nell'aia.
E parvemi talora
su
quei familiari
suoni
farsi un alto silenzio
e
riudire il lontano
canto
della mia culla.
Mi
destò il Sole
raggiandomi
la faccia.
Vidi
per le trame
delle
mie palpebre il fulgore
del
mio sangue. Il mozzo
pendulo
dal cordame
gittò
a me supino
il
suo grido, il suo grido
annunziatore;
e
rise il lieve lido
come
un labbro su la bonaccia.
Le
secchie all'alba nel pozzo
traboccanti
d'acqua ghiaccia
con
lor croscio argentino
suscitaron
nel mio vigore
nudo
il brivido salubre
del
lavacro mattutino.
Le
allodole gloriose
in
alto in alto in alto
dalla
rocca dell'Azzurro
mi
chiamarono al grande assalto.
I
poledri violenti
su
la prateria molle,
irsuti
il pel selvaggio,
coperti
di rugiade
come
i bruchi villosi
in
fondo alle corolle,
m'annitrirono
su i vènti
che
parean recarmi il sentore
degli
ippòmani favolosi
forte
come un beveraggio.
Cantò:
«Ben venga maggio!»
dal
colle di ginestre
chiaro
la teoria
coronata
di canestre
votive,
e per le contrade
e
per l'anima mia
trionfò
Prosèrpina in veste
tosca
obliando Ade.
Quante
voci, quanti richiami,
quanti
inviti nell'aurore
belle!
Ma ebbi altri risvegli.
Ebbi
un letto vasto,
sacro
all'amor cieco
e
al perspicace
odio;
vasto sì che giacersi
potessero
con meco
e
con la mia donna
la
forza e la grazia,
la
crudeltà e la froda,
la
voluttà e la morte.
Tra
l'una e l'altra colonna
pendeva
una cortina
grave
che copria d'ombra
il
rito infecondo
e
la carne sazia,
quando
la concubina
seduta
su la proda
mi
guatava in silenzio
con
i suoi occhi instrutti
nella
cui notte ingombra
io
vedea passar gli antichi
mostri
e gli eterni lutti.
Io
t'abbandonai,
O
mia carne, t'abbandonai
come
un re imberbe abbandona
il
suo reame alla guerriera
che
s'avanza in armi
tremenda
e bella,
ond'ei
teme e spera.
Ella
s'avanza
vittoriosa,
tra
moltitudini in festa
che
di tutti i lor beni
fan
conviti al suo passare.
Attonito
trasale
il
re dolce, e la sua speranza
ride
al suo timore;
ché
non sapea di tanta
gioia
e di tanta fame
ricchi
i suoi schiavi,
non
sé tanto possente
né
di tanto feroci spini
pieno
il suo dolce cuore.
Io
ti saziai,
o
mia carne, ti saziai
come
l'alluvione
sazia
la terra
che
più non la riceve
ed
è sommersa.
Fiumi
perigliosi
precipitarono
ruggendo
sopra
di te perduta.
Fosti
talora
come
uva premuta
da
fiammei piedi;
talora
come neve
segnata
di vestigia
cruente,
d'impronte oscure;
talora
come inerte
gleba;
e parvemi ch'io sentissi
in
te serpere ignote
radici
e udissi lunge
stridere
su la cote
forse
una scure.
Furonvi
donne serene
con
chiari occhi, infinite
nel
lor silenzio
come
le contrade
piane
ove scorre un fiume;
furonvi
donne per lume
d'oro
emule dell'estate
e
dell'incendio,
simili
a biade
lussurianti
che
non toccò la falce
ma
che divora il fuoco
degli
astri sotto un cielo immite;
furonvi
donne sì lievi
che
una parola
le
fece schiave
come
una coppa riversa
tiene
prigione un'ape;
furonvi
altre con mani smorte
che
spensero ogni pensier forte
senza
romore;
altre
con mani esigue
e
pieghevoli, il cui gioco
lento
parea s'insinuasse
a
dividere le vene
quasi
fili di matasse
tinte
in oltremarino;
altre,
pallide e lasse,
devastate
dai baci,
riarse
d'amore sino
alle
midolle,
perdute
il cocente
viso
entro le chiome,
con
le nari come
inquiete
alette,
con
le labbra come
parole
dette,
con
le palpebre come
le
violette.
E
vi furono altre ancóra;
e
meravigliosamente
io
le conobbi.
Conobbi
il corpo ignudo
alla
voce, al riso,
al
passo, al profumo. Il suono
d'un
passo sconosciuto
mi
fece ansioso
quasi
melodìa che s'oda
giungere
nella remota
stanza
per chiuse porte
a
quando a quando, e il cuore anela.
Risa
belle, io già dissi il vostro
numero,
io vi lodai diverse
come
le sorgenti
della
terra, come le piogge
nelle
stagioni!
Io
dissi la vostra essenza
invisibile,
profumi,
le
vostre mute effusioni
che
pur vincono i torrenti
nella
rapina! Ma la voce
avrà
da me un canto
più
glorioso.
Furonvi
città soavi
su
colli ermi, concluse
nel
lor silenzio
come
chi adora;
furonvi
palagi
snelli
su logge aperte
ad
accoglier l'aria
come
chi respira,
sacri
alle Muse;
furonvi
orti irrigui,
paradisi
recinti
come
labirinti
con
una porta sola
e
mille ambagi,
ove
l'aura piega
ogni
stelo e s'invola
come
chi fa ghirlande
e
non le lega;
vi
furono bevande,
frutti,
musiche pe' nostri agi;
e
le melancolie.