Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
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LIBRO PRIMO - MAIA

1 - Laus vitae

II.

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II.

 

Io nacqui ogni mattina.

Ogni mio risveglio

fu come un'improvvisa

nascita nella luce:

attoniti i miei occhi

miravano la luce

e il mondo. Chiedea l'ignaro:

«Perché ti meravigli?».

Attonito io rimirava

la luce e il mondo. Quanti

furono i miei giacigli!

Giacqui su la bica flava

udendo sotto il mio peso

stridere l'aride ariste.

Giacqui su i fragranti

fieni, su le sabbie calde,

su i carri, su i navigli,

nelle logge di marmo,

sotto le pergole, sotto

le tende, sotto le querci.

Dove giacqui, rinacqui.

 

Mi persuase i sonni

il canto della trebbia,

il canto dei marinai,

il canto delle sartie al vento,

l'odore della pece,

l'odore degli otri,

l'odore dei rosai,

il gemitìo del siero

giù dai vimini sospesi

nella cascina, la vece

delle spole nei telai

notturna, il ruggir cupo

dei forni accesi,

il favellar leggero

dell'acque pei botri,

il battere della maciulla

nell'aia. E parvemi talora

su quei familiari

suoni farsi un alto silenzio

e riudire il lontano

canto della mia culla.

 

Mi destò il Sole

raggiandomi la faccia.

Vidi per le trame

delle mie palpebre il fulgore

del mio sangue. Il mozzo

pendulo dal cordame

gittò a me supino

il suo grido, il suo grido

annunziatore;

e rise il lieve lido

come un labbro su la bonaccia.

Le secchie all'alba nel pozzo

traboccanti d'acqua ghiaccia

con lor croscio argentino

suscitaron nel mio vigore

nudo il brivido salubre

del lavacro mattutino.

Le allodole gloriose

in alto in alto in alto

dalla rocca dell'Azzurro

mi chiamarono al grande assalto.

 

I poledri violenti

su la prateria molle,

irsuti il pel selvaggio,

coperti di rugiade

come i bruchi villosi

in fondo alle corolle,

m'annitrirono su i vènti

che parean recarmi il sentore

degli ippòmani favolosi

forte come un beveraggio.

Cantò: «Ben venga maggio

dal colle di ginestre

chiaro la teoria

coronata di canestre

votive, e per le contrade

e per l'anima mia

trionfò Prosèrpina in veste

tosca obliando Ade.

Quante voci, quanti richiami,

quanti inviti nell'aurore

belle! Ma ebbi altri risvegli.

 

Ebbi un letto vasto,

sacro all'amor cieco

e al perspicace

odio; vasto sì che giacersi

potessero con meco

e con la mia donna

la forza e la grazia,

la crudeltà e la froda,

la voluttà e la morte.

Tra l'una e l'altra colonna

pendeva una cortina

grave che copria d'ombra

il rito infecondo

e la carne sazia,

quando la concubina

seduta su la proda

mi guatava in silenzio

con i suoi occhi instrutti

nella cui notte ingombra

io vedea passar gli antichi

mostri e gli eterni lutti.

 

 

Io t'abbandonai,

O mia carne, t'abbandonai

come un re imberbe abbandona

il suo reame alla guerriera

che s'avanza in armi

tremenda e bella,

ond'ei teme e spera.

Ella s'avanza

vittoriosa,

tra moltitudini in festa

che di tutti i lor beni

fan conviti al suo passare.

Attonito trasale

il re dolce, e la sua speranza

ride al suo timore;

ché non sapea di tanta

gioia e di tanta fame

ricchi i suoi schiavi,

non sé tanto possente

né di tanto feroci spini

pieno il suo dolce cuore.

 

Io ti saziai,

o mia carne, ti saziai

come l'alluvione

sazia la terra

che più non la riceve

ed è sommersa.

Fiumi perigliosi

precipitarono ruggendo

sopra di te perduta.

Fosti talora

come uva premuta

da fiammei piedi;

talora come neve

segnata di vestigia

cruente, d'impronte oscure;

talora come inerte

gleba; e parvemi ch'io sentissi

in te serpere ignote

radici e udissi lunge

stridere su la cote

forse una scure.

 

Furonvi donne serene

con chiari occhi, infinite

nel lor silenzio

come le contrade

piane ove scorre un fiume;

furonvi donne per lume

d'oro emule dell'estate

e dell'incendio,

simili a biade

lussurianti

che non toccò la falce

ma che divora il fuoco

degli astri sotto un cielo immite;

furonvi donnelievi

che una parola

le fece schiave

come una coppa riversa

tiene prigione un'ape;

furonvi altre con mani smorte

che spensero ogni pensier forte

senza romore;

 

altre con mani esigue

e pieghevoli, il cui gioco

lento parea s'insinuasse

a dividere le vene

quasi fili di matasse

tinte in oltremarino;

altre, pallide e lasse,

devastate dai baci,

riarse d'amore sino

alle midolle,

perdute il cocente

viso entro le chiome,

con le nari come

inquiete alette,

con le labbra come

parole dette,

con le palpebre come

le violette.

E vi furono altre ancóra;

e meravigliosamente

io le conobbi.

 

Conobbi il corpo ignudo

alla voce, al riso,

al passo, al profumo. Il suono

d'un passo sconosciuto

mi fece ansioso

quasi melodìa che s'oda

giungere nella remota

stanza per chiuse porte

a quando a quando, e il cuore anela.

Risa belle, io già dissi il vostro

numero, io vi lodai diverse

come le sorgenti

della terra, come le piogge

nelle stagioni!

Io dissi la vostra essenza

invisibile, profumi,

le vostre mute effusioni

che pur vincono i torrenti

nella rapina! Ma la voce

avrà da me un canto

più glorioso.

 

Furonvi città soavi

su colli ermi, concluse

nel lor silenzio

come chi adora;

furonvi palagi

snelli su logge aperte

ad accoglier l'aria

come chi respira,

sacri alle Muse;

furonvi orti irrigui,

paradisi recinti

come labirinti

con una porta sola

e mille ambagi,

ove l'aura piega

ogni stelo e s'invola

come chi fa ghirlande

e non le lega;

vi furono bevande,

frutti, musiche pe' nostri agi;

e le melancolie.

 

 


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