III.
O
notte d'estate fra l'altre
memoranda
per la bellezza
indicibile
onde rifulse
nell'ombra
la mia persona
mortale,
quasi fosse in lei
espressa
l'effigie divina
del
Desiderio, sotto i muti
baleni
che facean del cielo
estremo
una fucina ardente!
Nessuno
comprenderà mai
perché
nel semplice atto umano
io
mi sentissi così bello
per
tutto l'esser mio: l'eguale
dei
Giovini trasfigurati
nei
miti eterni della grande
Ellade.
Per un'ora fui
l'eguale
dei trasfigurati
Giovini
alle soglie dei boschi
e
sul margine delle fonti:
nell'ombra
calda e sotto i muti
lampi
bello indicibilmente.
La
luna era trascorsa;
dietro
le opache cime
vanito
era il suo breve incanto.
L'orrore
medusèo
parve
impietrare
la
faccia sublime
della
notte. Non canto,
non
grido s'udiva. Rare
gemevan
l'aure. Boote
guardava
l'Orsa;
e
lacrimava il coro
delle
Pleiadi belle
ai
ginocchi del Toro;
ed
Orione in corsa
veniva
armato d'oro
su
le tristi sorelle;
ed
Erigone pura,
in
disparte e con elle,
versava
anche il suo pianto.
Così
viveva la gran notte,
qual
la mirò dai monti Orfeo.
Viveva
d'una vita
altissima
taciturna
e
sacra, come quando
l'apollinea
prole
invocò:
«M'odi, o iddia,
desiderabile,
di negro
peplo
vestita, cinta
di
astri, inspiratrice degli inni,
madre
dei sogni, urania
e
terrestre, generatrice
di
tutte le cose,
ricchissima,
oblìo delle cure,
persuasiva,
m'odi!».
Eran
nel mio petto gli inni.
Ma
intenti i miei occhi
erano
all'orizzonte
ultimo
che fervea come
se
vi sfavillasse ignìto
e
vivido su la vulcania
incude
un cuor di titano
con
un palpito immenso.
«O
cuore titanico» dissi
«formidabile,
palpitante
al
confine del cielo,
te
anche arde e torce
il
desiderio onde anelo
come
s'io morissi?
Per
quale amante?
Per
quale dominio?
Per
quale morte?
Che
vuoi? che vuoi?
Ovunque
il tuo affanno
apre
solchi d'arsura
che
all'alba le rugiade
non
addolciranno.
Ah
che anch'io questa notte
saprei
morir come gli eroi,
uccidere
un re nel suo letto
o
tra le spade,
sciogliere
una cintura forte
come
quella che alla Terra
cingono
gli antichi mari!»
Immobile
su la soglia
io
guatava con occhi arsi,
sentendo
in me parole alzarsi
confuse,
come chi delira.
Dietro
di me la casa umana,
spenta
e di cure ingombra,
ove
dormivano i servi,
gemeva
a quando a quando vana
come
una lira senza nervi.
E
parve a un tratto, lontana
con
la sua doglia
senza
ritorno, lasciarmi
nella
solitudine solo.
Il
mio palpito stesso
e
la rapidità dei lampi
si
confusero allora;
furono
una forza concorde
che
lottò con la più alta ombra,
toccò
Galassia e i campi,
agitò
il sonno dell'Aurora,
svegliò
tutte le corde.
E
io dissi: «O mondo, sei mio!
Ti
coglierò come un pomo,
ti
spremerò alla mia sete,
alla
mia sete perenne».
E
d'essere un uomo
più
non mi sovvenne,
poi
che il mio cuor palpitava
su
la terra e nel cielo
con
un palpito sì grande.
E
io dissi: «O figlie d'Atlante,
Atlantidi,
corona ardente
delle
Pleiadi, o Taigete,
o
Elettra, o Celeno,
Merope
fosca, e tu, Maia
dall'affocata
faccia,
Asterope,
Alcyone,
scendete
ai miei giardini!».
E
così dicea vanamente
per
tendere le braccia,
per
volontà di chiamare,
per
amor dei nomi divini.
Il
silenzio era vivo
come
un'anima sparsa
che
ascolti e attenda
senza
respiro.
Un'ala
si mosse,
una
foglia cadde,
un
calice si schiuse,
traboccò
una fonte,
una
lingua lambì l'acqua,
un'orma
calcò l'erba,
un
balzo ruppe uno stelo,
un
foco vano rigò l'aria,
un
odor si diffuse
umido
nella caldura.
Tutti
i miei sensi
vigilavano,
nell'attesa
della
gioia oscura.
Una
bellezza
indicibile
io sentìa
spandersi
per le mie membra,
come
chi trasfigura.
«Che
vuoi? che vuoi?»
Immobile
stetti
come
i simulacri esangui;
poiché
ogni cosa
attraeva
il mio gesto
ma
il mondo parea vanire.
«Che
vuoi? che vuoi?»
Dalle
mie stesse vene
pareami
essere attorta
l'anima
come da mille angui
con
torride e gelide spire,
«Che
vuoi? che vuoi?»
E
un lampo discoperse
la
vite meravigliosa,
gravida
di grandi
grappoli,
frondosa
di
fosche fronde,
con
le radici immerse
nelle
virtù profonde.
«Morire
o gioire!
Gioire
o morire!»
Ah,
poter di côrre
dal
ciel più lontano
un
pugno d'astri
pareami
fosse
nella
mia mano
fatta
onnipossente
dal
cor che in me fervea!
E
il grappolo più grande
colsi
avidamente,
che
pesava d'ambrosia
come
la mammella
ineffabile
d'una dea
data
all'adolescente
per
gioire e morir quivi.
Gli
acini eran vivi
d'inesausto
calore
alle
mie dita di gelo.
Sentii
ne' precordii l'odore
del
pampino lacerato
come
d'un velo
arcano
che si fendesse.
O
Vita, quel parvemi il primo
e
l'ultimo tuo dono,
e
che i miei giovini denti
mai
polpa d'opimo
frutto
avesser morso
né
mai bevuto agreste
sorso
le mie labbra sanguigne.
L'odore
di tutte le vigne
sentii
ne' precordii capaci
e
di tutti i mosti il sapore,
ebbi
le vendemmie spumanti
di
tutti gli autunni feraci
nel
cuore, e le feste i canti
l'urto
dei piè danzanti il suono
dei
flauti frigi, e Lesbo
rossa
di faci pel natale
del
vino e l'onda corale
e
il passo del lidio coturno,
o
Vita, quando la mia bocca
vergine
di baci
diedi
al tuo grappolo notturno.
Allora,
come una statua
dalla
voluttà della Notte
espressa,
una forma
silenziosa
biancheggiò
nell'ombra
terribile;
e trasalii.
Una
luce fatua
sorse
come una colonna
tremante
nell'ombra
soffocata;
e trasalii.
Non
dissi: «O donna,
chi
sei tu?». Non chiesi:
«D'onde
venuta,
di
quali iddii
messaggera?».
Ma la conobbi
subitamente,
muta
ed
eloquente.
Per
sentieri profondi
tratta
me l'avea sola
dall'armonia
dei mondi
il
Desiderio.
Non
dissi: «Parla!».
Ma
mi volsi a ghermire
il
suo corpo discinto,
che
fresco sentii quasi fosse
balzato
da polle rupestri.
Né
per baciarla
la
bocca detersi
dal
succo del grappolo molle;
ché
il divino Istinto mi volle
dei
due beni diversi
comporre
una gioia infinita.
O
Vita, o Vita!
O
notte d'estate fra l'altre
memoranda,
in cui la mia carne
compì
l'umano atto fugace
sotto
la specie dell'Eterno!
O
notte in cui viver mi parve
figurato
nel violento
mito
che divennemi un segno
sacro
per le vie della terra
ove
tolsi tutti i miei beni!