Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Laudi
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LIBRO PRIMO - MAIA

1 - Laus vitae

III.

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III.

 

O notte d'estate fra l'altre

memoranda per la bellezza

indicibile onde rifulse

nell'ombra la mia persona

mortale, quasi fosse in lei

espressa l'effigie divina

del Desiderio, sotto i muti

baleni che facean del cielo

estremo una fucina ardente!

Nessuno comprenderà mai

perché nel semplice atto umano

io mi sentissi così bello

per tutto l'esser mio: l'eguale

dei Giovini trasfigurati

nei miti eterni della grande

Ellade. Per un'ora fui

l'eguale dei trasfigurati

Giovini alle soglie dei boschi

e sul margine delle fonti:

nell'ombra calda e sotto i muti

lampi bello indicibilmente.

 

La luna era trascorsa;

dietro le opache cime

vanito era il suo breve incanto.

L'orrore medusèo

parve impietrare

la faccia sublime

della notte. Non canto,

non grido s'udiva. Rare

gemevan l'aure. Boote

guardava l'Orsa;

e lacrimava il coro

delle Pleiadi belle

ai ginocchi del Toro;

ed Orione in corsa

veniva armato d'oro

su le tristi sorelle;

ed Erigone pura,

in disparte e con elle,

versava anche il suo pianto.

Così viveva la gran notte,

qual la mirò dai monti Orfeo.

 

Viveva d'una vita

altissima taciturna

e sacra, come quando

l'apollinea prole

invocò: «M'odi, o iddia,

desiderabile, di negro

peplo vestita, cinta

di astri, inspiratrice degli inni,

madre dei sogni, urania

e terrestre, generatrice

di tutte le cose,

ricchissima, oblìo delle cure,

persuasiva, m'odi!».

Eran nel mio petto gli inni.

Ma intenti i miei occhi

erano all'orizzonte

ultimo che fervea come

se vi sfavillasse ignìto

e vivido su la vulcania

incude un cuor di titano

con un palpito immenso.

 

«O cuore titanico» dissi

«formidabile, palpitante

al confine del cielo,

te anche arde e torce

il desiderio onde anelo

come s'io morissi?

Per quale amante?

Per quale dominio?

Per quale morte?

Che vuoi? che vuoi?

Ovunque il tuo affanno

apre solchi d'arsura

che all'alba le rugiade

non addolciranno.

Ah che anch'io questa notte

saprei morir come gli eroi,

uccidere un re nel suo letto

o tra le spade,

sciogliere una cintura forte

come quella che alla Terra

cingono gli antichi mari

 

Immobile su la soglia

io guatava con occhi arsi,

sentendo in me parole alzarsi

confuse, come chi delira.

Dietro di me la casa umana,

spenta e di cure ingombra,

ove dormivano i servi,

gemeva a quando a quando vana

come una lira senza nervi.

E parve a un tratto, lontana

con la sua doglia

senza ritorno, lasciarmi

nella solitudine solo.

Il mio palpito stesso

e la rapidità dei lampi

si confusero allora;

furono una forza concorde

che lottò con la più alta ombra,

toccò Galassia e i campi,

agitò il sonno dell'Aurora,

svegliò tutte le corde.

 

E io dissi: «O mondo, sei mio!

Ti coglierò come un pomo,

ti spremerò alla mia sete,

alla mia sete perenne».

E d'essere un uomo

più non mi sovvenne,

poi che il mio cuor palpitava

su la terra e nel cielo

con un palpitogrande.

E io dissi: «O figlie d'Atlante,

Atlantidi, corona ardente

delle Pleiadi, o Taigete,

o Elettra, o Celeno,

Merope fosca, e tu, Maia

dall'affocata faccia,

Asterope, Alcyone,

scendete ai miei giardini!».

E così dicea vanamente

per tendere le braccia,

per volontà di chiamare,

per amor dei nomi divini.

Il silenzio era vivo

come un'anima sparsa

che ascolti e attenda

senza respiro.

Un'ala si mosse,

una foglia cadde,

un calice si schiuse,

traboccò una fonte,

una lingua lambì l'acqua,

un'orma calcò l'erba,

un balzo ruppe uno stelo,

un foco vano rigò l'aria,

un odor si diffuse

umido nella caldura.

Tutti i miei sensi

vigilavano, nell'attesa

della gioia oscura.

Una bellezza

indicibile io sentìa

spandersi per le mie membra,

come chi trasfigura.

 

«Che vuoi? che vuoi?»

Immobile stetti

come i simulacri esangui;

poiché ogni cosa

attraeva il mio gesto

ma il mondo parea vanire.

«Che vuoi? che vuoi?»

Dalle mie stesse vene

pareami essere attorta

l'anima come da mille angui

con torride e gelide spire,

«Che vuoi? che vuoi?»

E un lampo discoperse

la vite meravigliosa,

gravida di grandi

grappoli, frondosa

di fosche fronde,

con le radici immerse

nelle virtù profonde.

«Morire o gioire!

Gioire o morire

 

Ah, poter di côrre

dal ciel più lontano

un pugno d'astri

pareami fosse

nella mia mano

fatta onnipossente

dal cor che in me fervea!

E il grappolo più grande

colsi avidamente,

che pesava d'ambrosia

come la mammella

ineffabile d'una dea

data all'adolescente

per gioire e morir quivi.

Gli acini eran vivi

d'inesausto calore

alle mie dita di gelo.

Sentii ne' precordii l'odore

del pampino lacerato

come d'un velo

arcano che si fendesse.

 

O Vita, quel parvemi il primo

e l'ultimo tuo dono,

e che i miei giovini denti

mai polpa d'opimo

frutto avesser morso

né mai bevuto agreste

sorso le mie labbra sanguigne.

L'odore di tutte le vigne

sentii ne' precordii capaci

e di tutti i mosti il sapore,

ebbi le vendemmie spumanti

di tutti gli autunni feraci

nel cuore, e le feste i canti

l'urto dei piè danzanti il suono

dei flauti frigi, e Lesbo

rossa di faci pel natale

del vino e l'onda corale

e il passo del lidio coturno,

o Vita, quando la mia bocca

vergine di baci

diedi al tuo grappolo notturno.

 

Allora, come una statua

dalla voluttà della Notte

espressa, una forma

silenziosa

biancheggiò nell'ombra

terribile; e trasalii.

Una luce fatua

sorse come una colonna

tremante nell'ombra

soffocata; e trasalii.

Non dissi: «O donna,

chi sei tu?». Non chiesi:

«D'onde venuta,

di quali iddii

messaggera?». Ma la conobbi

subitamente, muta

ed eloquente.

Per sentieri profondi

tratta me l'avea sola

dall'armonia dei mondi

il Desiderio.

 

Non dissi: «Parla!».

Ma mi volsi a ghermire

il suo corpo discinto,

che fresco sentii quasi fosse

balzato da polle rupestri.

Né per baciarla

la bocca detersi

dal succo del grappolo molle;

ché il divino Istinto mi volle

dei due beni diversi

comporre una gioia infinita.

O Vita, o Vita!

O notte d'estate fra l'altre

memoranda, in cui la mia carne

compì l'umano atto fugace

sotto la specie dell'Eterno!

O notte in cui viver mi parve

figurato nel violento

mito che divennemi un segno

sacro per le vie della terra

ove tolsi tutti i miei beni!

 

 


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