Dal
golfo corintio,
dal
cuore dell'Ellade il vento
soffiò
contra l'Occhio di prua,
cangiò
gli oleastri
d'Itaca,
piegò i cipressi
di
Same, fe' simile il mare
all'irta
di fiocchi
egida
cui Pallade scuote.
Ed
era il meriggio,
l'ora
di Pan, l'ora grande.
Il
Sole era al colmo dei cieli
ignudo;
e tutto era chiaro
d'intorno,
presso e lontano;
e
l'anima mia come l'orbe
dell'incorruttibile
Etra
tutta
era di cristallo
e
d'oro sospesa in su l'acque.
E
il grido sonò: «Sciogli! Allarga!
Su
le scotte di randa! Borda
randa!
Su le drizze di fiocco!
Issa
fiocco!». E il legno garriva.
Il
legno gemeva cricchiava
rombava;
la verga bicorne
strideva
alla trozza:
la
forte ralinga batteva
l'aere
qual furia pennata
di
libertà sotto pugni
di
ghermitori tenaci;
sinché
contra l'albero a pioppo
ghindata
fu tra fondo
e
testiera, ordita la scotta
al
paranco. E l'àurica vela
fu
gonfia d'un alito immenso,
più
bella di tutte le cose
d'intorno
apparite,
più
di noi che l'aprimmo
libera,
più pura e innocente
del
cielo, una vergine forza,
un
desiderio pudìco,
un
arco acceso d'amore
pel
suo segno, un candido spirto
tra
il duplice Azzurro tutt'ala!
Egidarmata
Atena,
ben
tu ci volesti avverso
il
vento perché nell'approdo
alla
tua terra natale
io
memore fossi
che
sol nella lotta è la gioia.
Parea
che l'aspra
tua
verginità palpitasse
presente
nell'ombra
della
gran randa solare
e
che tu vigilassi
co'
tuoi occhi cesii l'alterna
opra
dei naviganti
e
tu le imprimessi in silenzio
la
tua misura divina.
Obliqua
la nave, inclinata
sul
fianco, in un solco di spume
fervide,
prueggiava
giugnendo
l'altura del vento
avverso
qual carro la cima
di
ripido monte. «Orza! Poggia!»
E
la verga biforca
passava
rombando fischiando
sopra
le nostre fronti
chine;
e tutta la ben costrutta
compagine
sotto lo sforzo
risonava
come una cetra.
percossa;
e l'opposto
bordo
attignea quasi l'acqua
come
avido labbro che sia
per
bevere il sale. Era l'opra
agevole
e lieve qual gioco.
Aperto
era il novo
cammino
alla rapida prua,
come
nel coro segue
l'epòdo
alla duplice strofe.
Itaca
Same Zacinto
s'inazzurravano
a poppa,
cangiate
in elisia corona;
Oxia
pareva un'ara
ancor
rosea della ecatombe,
l'Àraxo
un trofeo di Titani.
Oh
perìstrofe gioiosa
verso
la pampìnea Patre!
Ora
meridiana
d'inimitabile
vita!
Levità
della carne,
freschezza
dell'anima nova,
rinascimento
argentino!
Non
rugiada al solstizio
su
prato di salvie e di timi
fu
mai sì gemmante
come
l'anima mia che il Sole
beveva
inesausta. «O dio Sole,
tu
la bevi ed ella rinasce,
tu
l'ardi ed ella s'irrora.
Antico
tu sei, ella è sempre
recente.
Tu due e due volte
trasmuti
la faccia del mondo,
ma
la stagione che in lei
cresce
è diversa: non estate
non
primavera, ma una
felicità
più novella.»
L'aroma
dei canti
futuri
parea nel respiro
alitarmi.
E io dissi:
«O
Ineffabile, o Ignoto,
il
nome per te troveranno
i
miei canti futuri,
il
nome e la lode per sempre!».
E
la nave era parte
di
me, la vela erami ala
su
l'òmero, la prua
era
la cima del cuore
sagliente,
il lungo proteso
bompresso
era il segno
della
fecondante potenza.
E
come a un amplesso d'amore
io
tendeva al lito ricurvo,
portato
dal cielo e dal mare.
O
Ellade, e io credetti
che
dal tuo grembo di marmo
avuto
avrei finalmente
il
figlio che invoco immortale!
Torrido
soffio affocante
qual
fiato di mille fornaci
su
l'acqua del porto oleosa
e
corrotta; lezzo di tetre
cloache,
di putridi frutti,
di
torbidi fumi, di fecce,
di
sevi, di spezie, di vini,
d'acri
fermenti, d'umani
sudori;
terribili pietre
consunte
dal traffico immondo,
riarse
da Sirio, insozzate
dall'escremento
dell'ebre
ciurme,
dei cavalli, dei buoi
stupiti
ancor barcollanti
in
lungo rullìo di tempesta;
tristi
anelli di nero ferro,
ormeggi
più tristi
che
vincoli di prigionieri;
man
tese di mendicanti,
riso
ambiguo di prossenèti,
e
frode e fame in agguato:
tale
m'apparve all'approdo
l'antica
città degli Achei
artefice
di diademi
e
di vestimenta soavi.
Per
le vie bianche, sotto
nembi
di polve una bara
misera
fra roche preghiere
recava
il cadavere esangue
dal
vólto scoperto
simile
al giallore del croco.
Alzato
il teologo macro
su
la piazza pulverulenta
a
lenoni e vinai disvelava
con
stridula voce il mistero
del
dio senza muscoli. E i preti
scaltri,
nelle tuniche sparse
d'untume
nauseabondi,
al
loquace inesperto
sorridean
d'un perfido riso
pettinando
con l'unghie
ricurve
le luride barbe.
Diana
Lafria, scomparso
era
il tuo tempio agile a specchio
del
golfo. Correa per ladre
mani
pecunia dolosa,
più
vile del cencio e del timo.
Oh
effigie di gloria
nel
chiaro metallo battuto,
quadriga
trionfale,
deità
astata, spica
opima,
prora invitta,
terrestre
e marina potenza
nel
fermo rilievo inconsunto,
propagata
bellezza
di
acropoli vittoriose!
Non
gli Apolloniasti
su
le triere dipinte,
né
i mercatanti di Tiro
nel
segno d'Eràcle, né i Coi,
né
i Rodii, né gli Ateniesi
di
belle parole eran quivi;
ma
frode e fame in agguato.
E
nella notte illune,
quando
s'accesero i fari
e
il libico soffio si spense
e
i siderei fochi
incoronarono
i monti
e
s'udi lontana la voce
del
mare di là dai macigni
dei
moli, noi tristi ridendo
e
cantando seguimmo
il
prossenèta per cupi
angiporti
graveolenti
in
cerca di meretrici.
E
disse un de' cari compagni,
mentre
un gabbier fulvo e nerbuto
receva
il suo vin resinato
alla
soglia del lupanare
tra
afa d'amaro sudore:
«La
résina geme dai pini
dell'Ida,
ove Paris pascendo
i
buoi sogna Elena di Sparta
che
ancóra ei non vide, promessa!».
I
marinai dal collo
ignudo,
gli stradiotti
bracati,
i battellieri
dal
braccio di bronzo e dal dorso
incurvo,
le flosce bagasce
dalle
guance rosse di fuco
vile,
i bardassoni più molli
delle
femmine esperti
in
muovere l'anca, la schiuma
del
porto, la melma del trivio,
i
nativi e i metèci
e
gli stranieri approdati
da
un'ora, accesi di foia,
tumultuavano
al lume
fumido
delle lucerne
grasse,
tracannavano il vino
malvagio
e la mastica arzente,
mercavano
copula e lue
per
mezza dramma. E gli sguardi
come
i getti della saliva
lucean
sul carnaio in fermento.
Quivi,
al dir del buon prossenèta,
giunta
era una donna di Pirgo
formosa,
nel fiore degli anni.
Ma
non degnava ella beare
di
sua forma l'ebra ciurmaglia
nella
fumosa taverna
aspra
d'urli rauchi e di pugni
percossi.
In penetrale
remoto,
su candido letto,
ella
attendea lo straniero
opulento,
il navarca
magnanimo,
o l'alto signore
dei
latifondi patrensi.
Salimmo
allora la scala
di
putrido legno, varcammo
la
soglia segreta; e la donna
di
Pirgo ci apparve nell'ombra
del
letto, piccola e pingue,
simile
a gravida capra
dalle
molte mammelle
olente
dell'irco suo sposo.
Niuno
di noi appressarsi
ardiva
alla femmina elèa.
Ma
uno dei cari compagni
le
parlò con attico accento:
«O
femmina elèa,
non
nel Minyeio d'Omero,
nell'ingiocondo
Anigro
che
scorre tra il Minthe e il Lapitha,
bagnasti
il fior di tue membra?».
Ridemmo
in giovine coro.
Ella
gustar l'attico sale
non
seppe, e scagliò contra noi
l'ingiuria
e i sandali. Allora
ci
ritraemmo, con nari
occluse
giù per la scala
di
putrido legno. Repente
brancolò
nell'acre
tenebra
ver noi una mano
ignota.
Qual voce d'antico
sepolcro
imprecava per fame
novella?
Ristemmo, perplessi.
Al
breve bagliore
scorsero
i nostri occhi mortali
l'eterna
tartarea faccia
d'Atropo
che taglia lo stame,
dell'inevitabile
Mira?
Sparvero
l'inganno dell'ora
presente,
l'angustia del luogo,
il
turpe clamore degli ebri;
e
tutti i secoli muti
che
avean travagliato quel vólto,
incanutito
quel crine,
sfatto
quella bocca vorace,
smunto
quel seno infecondo,
curvato
quel dorso di belva,
scarnito
quell'avida branca,
sepolto
nell'orbita cava
quell'occhio
ancor semivivo
senza
cigli ingombro di sanie
e
lacrimoso di sangue,
i
millennii d'onta e di lutto
oppressero
il cuor mio vivente.
E
l'anima mia nel mio cuore
tremò
d'infinita tristezza,
come
innanzi all'aspetto senile
d'una
già cognita gente,
di
sùbito apparsomi in fondo
al
funebre specchio dei tempi.
Ma
risero i cari compagni.
E
nell'artiglio proteso
dalla
famelica lèna
io
posi ridendo una dramma.
Mormorò
ella parole
buie
tra le vacue gengive
con
la sua voce di tomba.
La
grande sua bianca criniera
si
dileguò nella notte.
E
noi scendemmo la scala
di
putrido legno. Cedette
un
de' gradi all'urto del piede,
s'infranse
con gemito. Oh dolce,
dalla
soglia del lupanare,
mirar
le vergini stelle!
E
disse un de' cari compagni
tornando
alla nave ancorata:
«Aedo,
tu désti la dramma
a
Elena figlia del Cigno,
che
fatta è serva millenne
d'una
meretrice di Pirgo».
Vidi
il pastor frigio su l'Ida
pascere
col flauto l'armento
all'ombra
dei pini chiomosi,
innanzi
che in talamo eburno
ei
s'avesse Elena di Sparta.
E
disse il compagno: «L'estremo
Eroe
cui ella soggiacque
nomavasi,
come l'idèo
rapitor
suo primo, Alessandro.
Su
quella zona terrestre
che
si protende arenosa
tra
il Mediterraneo Mare
e
il Mareotide Lago,
il
giovine Eroe la premette;
e
fu la lor prole Alessandria».
Alessandria!
Alessandria!
La
forza la gioia la gloria
del
trionfatore d'imperi
e
il van balbettìo faticoso
del
calvo grammatico! Io dissi
meco:
«Se ancóra l'impronta
dei
lombi divini rimane
laggiù
nella sabbia palustre,
io
andrò andrò adorante».
Parlava
la voce del sogno.
«Votò
l'Eroe la sua vasta
coppa.
Meditò taciturno.
Votare
la coppa ei soleva
dopo
sovrumane fatiche.
Da
lui stanco il vino traeva
una
onniveggente potenza.
Ei
vide le Forze immortali
salir
dalla terra e dal ponto.
Tra
il Mediterraneo e il Lago
segnò
taciturno le sorti
della
Città nascitura.
I
Continenti oscurati
eran
sotto l'ombra degli alti
pensieri.
Ei vedea la ricchezza
dei
regni versarsi infinita
su
l'Arcipelago azzurro,
dalla
Città nascitura
come
da corno inesausto.
E
vennegli Elena per l'acque
dai
lidi argivi incurvati
secondo
la forma del labbro
ledèo;
sorridendo gli venne
Elena
di Sparta che Achille
bramò;
venne a lui col nepente
la
bianca Tindaride; venne
recando
nel cinto il profumo
dell'Ellade
caro al signore
dell'Asia.
E il Macedone scosse
la
figlia di Zeus nudata
su
le fondamenta fatali.
E
fu quegli l'estremo
Eroe
cui ella soggiacque.
Poi
fu polluta per notti
e
notti, tra il sangue e l'incendio,
dai
centurioni di Roma,
premuta
fu sotto le squamme
delle
loriche pesanti.
Punsero
l'ispide barbe
la
sua mammella rotonda
che
dava la forma alle coppe
d'avorio
pei conviti
dei
re. Nel suo ventre convulso
ruggire
s'udì la lussuria
come
rombo in conca marina.
Da
sola ella fu la suburra
aperta
all'esercito in foia.
Fu
manomessa dai servi,
dai
ladroni, dagli omicidi,
dai
profanatori di tombe,
dai
mercenarii fuggiaschi.
Calpesta
in polvere e in fango,
lambì
con la lingua lasciva
le
calcagna dei violenti.
Soffiò
dovunque il suo fiato
come
insanabile peste.
Accrebbe
i nomi del vizio.
Fece
innumerevoli i nomi
e
i modi, maestra di spintrie
pei
Cesari enfii di murene
e
roscidi di purulenza.
Vecchia
d'indicibil vecchiezza,
tentò
se le mille sue rughe
servir
potessero a qualche
più
mostruosa lascivia;
ma,
come in solchi di sabbia
sol
cresce la crambe marina,
crebbevi
sol la vergogna.
E
fu di postriboli cencio,
nettò
dai vòmiti i letti,
gittò
nel rigagno del vico
le
rosse urine e lo sterco,
spezzò
il suo ultimo dente
per
rodere gli ossi ed i tozzi
contesi
alla cagna scabbiosa.
Or
tu la vedesti alla porta
di
quella femmina elèa,
crinita
di grande canizie.
Fu
sua sapienza la frode,
sudore
di opere infami
ne'
secoli fu suo lavacro;
e
tuttavia biancheggiare
or
noi la vedemmo nell'ombra!
Come
neve su volutabro
sta
su lei la grande canizie:
attonito
l'occhio la mira.
Ahi
fior di bianchezza sublime
che
alle Scee mirarono i Vegli!
Aedo,
tu désti la dramma
a
Elena figlia del Cigno.»
Così,
questo sogno sognando
nell'amarissimo
cuore,
tornammo
alla nave ancorata.
E
poi ci colcammo sul ponte,
il
sonno invocammo dall'Orse.
Tal
fu la notte di Patre.