Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
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LIBRO PRIMO - MAIA

1 - Laus vitae

V.

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V.

 

Dal golfo corintio,

dal cuore dell'Ellade il vento

soffiò contra l'Occhio di prua,

cangiò gli oleastri

d'Itaca, piegò i cipressi

di Same, fe' simile il mare

all'irta di fiocchi

egida cui Pallade scuote.

Ed era il meriggio,

l'ora di Pan, l'ora grande.

Il Sole era al colmo dei cieli

ignudo; e tutto era chiaro

d'intorno, presso e lontano;

e l'anima mia come l'orbe

dell'incorruttibile Etra

tutta era di cristallo

e d'oro sospesa in su l'acque.

E il grido sonò: «Sciogli! Allarga!

Su le scotte di randa! Borda

randa! Su le drizze di fiocco!

Issa fiocco!». E il legno garriva.

 

Il legno gemeva cricchiava

rombava; la verga bicorne

strideva alla trozza:

la forte ralinga batteva

l'aere qual furia pennata

di libertà sotto pugni

di ghermitori tenaci;

sinché contra l'albero a pioppo

ghindata fu tra fondo

e testiera, ordita la scotta

al paranco. E l'àurica vela

fu gonfia d'un alito immenso,

più bella di tutte le cose

d'intorno apparite,

più di noi che l'aprimmo

libera, più pura e innocente

del cielo, una vergine forza,

un desiderio pudìco,

un arco acceso d'amore

pel suo segno, un candido spirto

tra il duplice Azzurro tutt'ala!

 

Egidarmata Atena,

ben tu ci volesti avverso

il vento perché nell'approdo

alla tua terra natale

io memore fossi

che sol nella lotta è la gioia.

Parea che l'aspra

tua verginità palpitasse

presente nell'ombra

della gran randa solare

e che tu vigilassi

co' tuoi occhi cesii l'alterna

opra dei naviganti

e tu le imprimessi in silenzio

la tua misura divina.

Obliqua la nave, inclinata

sul fianco, in un solco di spume

fervide, prueggiava

giugnendo l'altura del vento

avverso qual carro la cima

di ripido monte. «Orza! Poggia

 

E la verga biforca

passava rombando fischiando

sopra le nostre fronti

chine; e tutta la ben costrutta

compagine sotto lo sforzo

risonava come una cetra.

percossa; e l'opposto

bordo attignea quasi l'acqua

come avido labbro che sia

per bevere il sale. Era l'opra

agevole e lieve qual gioco.

Aperto era il novo

cammino alla rapida prua,

come nel coro segue

l'epòdo alla duplice strofe.

Itaca Same Zacinto

s'inazzurravano a poppa,

cangiate in elisia corona;

Oxia pareva un'ara

ancor rosea della ecatombe,

l'Àraxo un trofeo di Titani.

 

Oh perìstrofe gioiosa

verso la pampìnea Patre!

Ora meridiana

d'inimitabile vita!

Levità della carne,

freschezza dell'anima nova,

rinascimento argentino!

Non rugiada al solstizio

su prato di salvie e di timi

fu mai sì gemmante

come l'anima mia che il Sole

beveva inesausta. «O dio Sole,

tu la bevi ed ella rinasce,

tu l'ardi ed ella s'irrora.

Antico tu sei, ella è sempre

recente. Tu due e due volte

trasmuti la faccia del mondo,

ma la stagione che in lei

cresce è diversa: non estate

non primavera, ma una

felicità più novella

 

L'aroma dei canti

futuri parea nel respiro

alitarmi. E io dissi:

«O Ineffabile, o Ignoto,

il nome per te troveranno

i miei canti futuri,

il nome e la lode per sempre!».

E la nave era parte

di me, la vela erami ala

su l'òmero, la prua

era la cima del cuore

sagliente, il lungo proteso

bompresso era il segno

della fecondante potenza.

E come a un amplesso d'amore

io tendeva al lito ricurvo,

portato dal cielo e dal mare.

O Ellade, e io credetti

che dal tuo grembo di marmo

avuto avrei finalmente

il figlio che invoco immortale!

 

Torrido soffio affocante

qual fiato di mille fornaci

su l'acqua del porto oleosa

e corrotta; lezzo di tetre

cloache, di putridi frutti,

di torbidi fumi, di fecce,

di sevi, di spezie, di vini,

d'acri fermenti, d'umani

sudori; terribili pietre

consunte dal traffico immondo,

riarse da Sirio, insozzate

dall'escremento dell'ebre

ciurme, dei cavalli, dei buoi

stupiti ancor barcollanti

in lungo rullìo di tempesta;

tristi anelli di nero ferro,

ormeggi più tristi

che vincoli di prigionieri;

man tese di mendicanti,

riso ambiguo di prossenèti,

e frode e fame in agguato:

 

tale m'apparve all'approdo

l'antica città degli Achei

artefice di diademi

e di vestimenta soavi.

Per le vie bianche, sotto

nembi di polve una bara

misera fra roche preghiere

recava il cadavere esangue

dal vólto scoperto

simile al giallore del croco.

Alzato il teologo macro

su la piazza pulverulenta

a lenoni e vinai disvelava

con stridula voce il mistero

del dio senza muscoli. E i preti

scaltri, nelle tuniche sparse

d'untume nauseabondi,

al loquace inesperto

sorridean d'un perfido riso

pettinando con l'unghie

ricurve le luride barbe.

 

Diana Lafria, scomparso

era il tuo tempio agile a specchio

del golfo. Correa per ladre

mani pecunia dolosa,

più vile del cencio e del timo.

Oh effigie di gloria

nel chiaro metallo battuto,

quadriga trionfale,

deità astata, spica

opima, prora invitta,

terrestre e marina potenza

nel fermo rilievo inconsunto,

propagata bellezza

di acropoli vittoriose!

Non gli Apolloniasti

su le triere dipinte,

né i mercatanti di Tiro

nel segno d'Eràcle, né i Coi,

né i Rodii, né gli Ateniesi

di belle parole eran quivi;

ma frode e fame in agguato.

 

E nella notte illune,

quando s'accesero i fari

e il libico soffio si spense

e i siderei fochi

incoronarono i monti

e s'udi lontana la voce

del mare di dai macigni

dei moli, noi tristi ridendo

e cantando seguimmo

il prossenèta per cupi

angiporti graveolenti

in cerca di meretrici.

E disse un de' cari compagni,

mentre un gabbier fulvo e nerbuto

receva il suo vin resinato

alla soglia del lupanare

tra afa d'amaro sudore:

«La résina geme dai pini

dell'Ida, ove Paris pascendo

i buoi sogna Elena di Sparta

che ancóra ei non vide, promessa!».

 

I marinai dal collo

ignudo, gli stradiotti

bracati, i battellieri

dal braccio di bronzo e dal dorso

incurvo, le flosce bagasce

dalle guance rosse di fuco

vile, i bardassoni più molli

delle femmine esperti

in muovere l'anca, la schiuma

del porto, la melma del trivio,

i nativi e i metèci

e gli stranieri approdati

da un'ora, accesi di foia,

tumultuavano al lume

fumido delle lucerne

grasse, tracannavano il vino

malvagio e la mastica arzente,

mercavano copula e lue

per mezza dramma. E gli sguardi

come i getti della saliva

lucean sul carnaio in fermento.

 

Quivi, al dir del buon prossenèta,

giunta era una donna di Pirgo

formosa, nel fiore degli anni.

Ma non degnava ella beare

di sua forma l'ebra ciurmaglia

nella fumosa taverna

aspra d'urli rauchi e di pugni

percossi. In penetrale

remoto, su candido letto,

ella attendea lo straniero

opulento, il navarca

magnanimo, o l'alto signore

dei latifondi patrensi.

Salimmo allora la scala

di putrido legno, varcammo

la soglia segreta; e la donna

di Pirgo ci apparve nell'ombra

del letto, piccola e pingue,

simile a gravida capra

dalle molte mammelle

olente dell'irco suo sposo.

 

Niuno di noi appressarsi

ardiva alla femmina elèa.

Ma uno dei cari compagni

le parlò con attico accento:

«O femmina elèa,

non nel Minyeio d'Omero,

nell'ingiocondo Anigro

che scorre tra il Minthe e il Lapitha,

bagnasti il fior di tue membra?».

Ridemmo in giovine coro.

Ella gustar l'attico sale

non seppe, e scagliò contra noi

l'ingiuria e i sandali. Allora

ci ritraemmo, con nari

occluse giù per la scala

di putrido legno. Repente

brancolò nell'acre

tenebra ver noi una mano

ignota. Qual voce d'antico

sepolcro imprecava per fame

novella? Ristemmo, perplessi.

 

Al breve bagliore

scorsero i nostri occhi mortali

l'eterna tartarea faccia

d'Atropo che taglia lo stame,

dell'inevitabile Mira?

Sparvero l'inganno dell'ora

presente, l'angustia del luogo,

il turpe clamore degli ebri;

e tutti i secoli muti

che avean travagliato quel vólto,

incanutito quel crine,

sfatto quella bocca vorace,

smunto quel seno infecondo,

curvato quel dorso di belva,

scarnito quell'avida branca,

sepolto nell'orbita cava

quell'occhio ancor semivivo

senza cigli ingombro di sanie

e lacrimoso di sangue,

i millennii d'onta e di lutto

oppressero il cuor mio vivente.

 

E l'anima mia nel mio cuore

tremò d'infinita tristezza,

come innanzi all'aspetto senile

d'una già cognita gente,

di sùbito apparsomi in fondo

al funebre specchio dei tempi.

Ma risero i cari compagni.

E nell'artiglio proteso

dalla famelica lèna

io posi ridendo una dramma.

Mormorò ella parole

buie tra le vacue gengive

con la sua voce di tomba.

La grande sua bianca criniera

si dileguò nella notte.

E noi scendemmo la scala

di putrido legno. Cedette

un de' gradi all'urto del piede,

s'infranse con gemito. Oh dolce,

dalla soglia del lupanare,

mirar le vergini stelle!

 

E disse un de' cari compagni

tornando alla nave ancorata:

«Aedo, tu désti la dramma

a Elena figlia del Cigno,

che fatta è serva millenne

d'una meretrice di Pirgo».

Vidi il pastor frigio su l'Ida

pascere col flauto l'armento

all'ombra dei pini chiomosi,

innanzi che in talamo eburno

ei s'avesse Elena di Sparta.

E disse il compagno: «L'estremo

Eroe cui ella soggiacque

nomavasi, come l'idèo

rapitor suo primo, Alessandro.

Su quella zona terrestre

che si protende arenosa

tra il Mediterraneo Mare

e il Mareotide Lago,

il giovine Eroe la premette;

e fu la lor prole Alessandria».

 

Alessandria! Alessandria!

La forza la gioia la gloria

del trionfatore d'imperi

e il van balbettìo faticoso

del calvo grammatico! Io dissi

meco: «Se ancóra l'impronta

dei lombi divini rimane

laggiù nella sabbia palustre,

io andrò andrò adorante».

Parlava la voce del sogno.

«Votò l'Eroe la sua vasta

coppa. Meditò taciturno.

Votare la coppa ei soleva

dopo sovrumane fatiche.

Da lui stanco il vino traeva

una onniveggente potenza.

Ei vide le Forze immortali

salir dalla terra e dal ponto.

Tra il Mediterraneo e il Lago

segnò taciturno le sorti

della Città nascitura.

 

I Continenti oscurati

eran sotto l'ombra degli alti

pensieri. Ei vedea la ricchezza

dei regni versarsi infinita

su l'Arcipelago azzurro,

dalla Città nascitura

come da corno inesausto.

E vennegli Elena per l'acque

dai lidi argivi incurvati

secondo la forma del labbro

ledèo; sorridendo gli venne

Elena di Sparta che Achille

bramò; venne a lui col nepente

la bianca Tindaride; venne

recando nel cinto il profumo

dell'Ellade caro al signore

dell'Asia. E il Macedone scosse

la figlia di Zeus nudata

su le fondamenta fatali.

E fu quegli l'estremo

Eroe cui ella soggiacque.

 

Poi fu polluta per notti

e notti, tra il sangue e l'incendio,

dai centurioni di Roma,

premuta fu sotto le squamme

delle loriche pesanti.

Punsero l'ispide barbe

la sua mammella rotonda

che dava la forma alle coppe

d'avorio pei conviti

dei re. Nel suo ventre convulso

ruggire s'udì la lussuria

come rombo in conca marina.

Da sola ella fu la suburra

aperta all'esercito in foia.

Fu manomessa dai servi,

dai ladroni, dagli omicidi,

dai profanatori di tombe,

dai mercenarii fuggiaschi.

Calpesta in polvere e in fango,

lambì con la lingua lasciva

le calcagna dei violenti.

 

Soffiò dovunque il suo fiato

come insanabile peste.

Accrebbe i nomi del vizio.

Fece innumerevoli i nomi

e i modi, maestra di spintrie

pei Cesari enfii di murene

e roscidi di purulenza.

Vecchia d'indicibil vecchiezza,

tentò se le mille sue rughe

servir potessero a qualche

più mostruosa lascivia;

ma, come in solchi di sabbia

sol cresce la crambe marina,

crebbevi sol la vergogna.

E fu di postriboli cencio,

nettò dai vòmiti i letti,

gittò nel rigagno del vico

le rosse urine e lo sterco,

spezzò il suo ultimo dente

per rodere gli ossi ed i tozzi

contesi alla cagna scabbiosa.

 

Or tu la vedesti alla porta

di quella femmina elèa,

crinita di grande canizie.

Fu sua sapienza la frode,

sudore di opere infami

ne' secoli fu suo lavacro;

e tuttavia biancheggiare

or noi la vedemmo nell'ombra!

Come neve su volutabro

sta su lei la grande canizie:

attonito l'occhio la mira.

Ahi fior di bianchezza sublime

che alle Scee mirarono i Vegli!

Aedo, tu désti la dramma

a Elena figlia del Cigno

Così, questo sogno sognando

nell'amarissimo cuore,

tornammo alla nave ancorata.

E poi ci colcammo sul ponte,

il sonno invocammo dall'Orse.

Tal fu la notte di Patre.

 

 


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