Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
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LIBRO PRIMO - MAIA

1 - Laus vitae

VI.

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VI.

 

Il fiato degli uomini vili

fuggimmo, l'odore e il clamore

degli Efimeri imbelli

che quivi apparivano come

la lebbra sul sen di Afrodite,

la stupidità su la fronte

di Pallade, negli occhi

di Febo la sanie cruenta.

O vigne immense eguali,

pascoli d'api, coi verdi

pampini illanguiditi

dall'aridità presso il mare

ceruleo dove Zacinto

ignuda natava in silenzio

come la sirena delusa

che virtù non ebbe d'attrarre

ai carmi la nave d'Ulisse!

O grappoli sparsi in su l'aie

quadrate per cuocersi al sole,

densi e violacei come

il crine sul collo di Saffo!

 

Cipresso, e parvemi allora

soltanto conoscer la tua

meditabonda bellezza,

commisto al palmite ricco,

sul fianco dei colli silenti,

su le correnti dell'acque,

in contro al zaffiro sublime

dei monti creati alle soglie

dell'aria dal flauto di Pan!

Oleandro, e allora t'elessi

in riva ai ruscelli fiorito

per inghirlandar la mia Musa

che ama danzare e lottare,

che tratta l'incudine e il sistro,

che onora la grazia e la forza,

che loda il pastore e l'eroe;

t'elessi, oleandro, ti colsi

per redimir le mie tempie

di rose e d'alloro in un ramo.

Non mai parso m'eri sì bello!

E un altro da me canto avrai.

 

Peregrinammo da Patre

alla città santa d'Olimpia,

al tempio di Zeus Cronide

con chiusa l'offerta nel cuore.

E tacita era la via;

e il Sole inclinavasi all'onda

occidua, con riaccesa

divinità, Elio nomato

per noi, Elio d'Eurifaessa.

Ed èramo senza parola,

tacenti, ma d'una celeste

melodìa pieni il petto

mortale. E talora dai monti

aerei venivan messaggi

per l'aere; e noi rendevamo

l'orecchio, attoniti, ai suoni

di Pan. Disse un de' cari

compagni: «Nel plenilunio

che segue il solstizio d'estate

la Festa ha principio». S'udiva

dietro a noi fragore di carri.

 

E d'improvviso tutta

la valle echeggiò di fragore

come d'un émpito d'acque

irrompenti da cataratte

aperte su l'Elide. E il grido

umano e il nitrito anelante

squillavano sopra il fragore.

«Per vincere vincere vincere

E ci volgemmo. E vedemmo

tra nembi di splendida polve

una moltitudine immensa

d'uomini, di cavalli,

di carri condotta da mille

Vittorie che armavano il cielo

d'un fremito aquìleo, nube

di penne di pepli di chiome

impetuosa volante

in aura di giovinezza.

«Per vincere vincere vincere

E tutto il Peloponneso

tremò come foglia di gelso.

 

Era su la via santa

la forza dell'Ellade, mossa

da un ramo d'ulivo selvaggio!

Era il fior della stirpe

quadruplice, la concorde

e discorde anima ellèna

protesa verso il serto

leggiere d'ulivo selvaggio!

Ionii e Dorii, Eolii ed Achei,

il sangue d'Atene di Sparta

di Tebe d'Elice d'Ege;

le genti insulari di Nasso

di Sèrifo d'Andro, di tutte

le Cicladi; e i potenti

di terra lontana, i tiranni

sicelii, i re di Cirene,

i grandi oligarchi

delle città di Tessaglia

e quei di Metaponto di Velia

di Sibari di Posidonia

ambivan l'ulivo selvaggio!

 

E gli alti carri dipinti

recavan le offerte votive:

le decime tolte al bottino,

le arche di cedro e d'avorio,

le tavole i tripodi i vasi

le lampade d'oro e d'argento,

i tori e i cavalli di bronzo,

i rudi colossi di pietra

avvolti in lini trapunti,

e le spugne il nitro la cera

la pece gli aròmati gli olii.

E tutti, città, re, strateghi,

atleti, sacravan le offerte

per vincere o per aver vinto

nello stadio o in pugna campale.

Gli Eretrii i Sicionii i Messenii

grondavano ancóra di sangue.

Le prede raccolte a Platèa

eran fuse in un simulacro.

La strage l'onta il servaggio

facean trionfali i metalli.

 

O Temistocle insonne,

del gran Laertiade alunno,

spada battuta a freddo,

noi ti vedemmo sul carro

che Atene ti diede, ben saldo

come su trireme rostrata;

e in te l'acuto sorriso

era qual tempra nel ferro.

E te, Pericle, anche vedemmo,

o artefice della saggezza,

te nato d'occulta sirena

e di colui che a Micale

fu vincitore nel nome

d'Ebe giovinetta ridente;

te anche vedemmo, che avevi

nel gesto nel passo nel verbo

nella cesarie ornata

l'ordine divino onde fulge

la pura colonna

nei Propilèi di Mnesìcle,

nel Partenone d'Ictìno.

 

Ma Alcibiade, lo snello

pantère versicolore

che Diòniso amico

èccita col batter del piede,

l'auriga che al carro dall'asse

d'oro agitava i cavalli

più rapidi, chiamammo

per nome. Grandissime offerte

ei seco recava, ricchezze

insigni, per dare

per dar grandemente. Io gli chiesi:

«E alla Vita che tanto

ti diede, or tu che darai?».

«Darò la mia statua scolpita

dalle mie mani.» «E qual gioia

ti parve più fiera?» «La gioia

d'abbattere il limite alzato

«Qual fu il tuo buon dèmone?» «Il rischio,

il rischio dagli occhi irretorti

«La buona virtù?» «Il piè leggero,

Ospite, il mio piè leggero

 

E gli strateghi i navarchi

gli arconti passavano in carri

dall'aureo timone, e i cantori

i sapienti gli alunni

di Clio gli artefici esperti

di tutte le forme, coloro

che foggiavan la sorte

d'un popolo vivo, coloro

che animavan l'umida argilla

col pollice nudo, coloro

che trasfiguravan gli aspetti

dell'Essere con l'eloquenza.

E vedemmo Erodòto

dagli occhi d'intento fanciullo,

che seco recava al consesso

dell'Ellade i rotoli gravi

di gloria come i fiari

son pregni di miele. Vedemmo

Ippia e Gorgia, vedemmo

Demòstene Isòcrate Lisia;

invocammo Pindaro invano.

 

Ma splendean come astri nell'etra,

come le Pleiadi e l'Orsa,

nella moltitudine immensa

quattordici atleti. Il fulgore

dei sette e sette epinicii

ardea nell'eroico sangue.

Perpetuavasi il ritmo

dell'olimpica Ode

nei polsi del pùgile. L'ala

della triade sagliente

armava i mallèoli certi

al corritore del lungo

stadio. Ecco il bello Efarmosto

d'Opunte, Ergotèle d'Imera,

Psaumida di Camarina.

Ecco Agesia Siracusano

della profetica gente

iamide, di Sòstrate prole.

Ecco Alcimedonte egineta,

d'Egina dai grandi navigli,

della blepsiade gente.

 

E d'improvviso apparve

fiammeo di porpora coa,

pari a inestinguibile vampa,

nella moltitudine solo,

più solo dell'aquila a sommo

del monte, il monarca degli Inni.

«Aquila, aquila» io dissi

«onde torniradiante?

M'odi! Rispondi! Per gli astri,

pei vulcani, pei lampi,

per le meteore, per tutto

ciò che arde, per la sete

del Deserto e il sale del Mare,

odimi, volgiti all'ansia

pedestre. Ch'io senta il tuo sguardo

e il tuo grido fendermi il petto!

Aquila, onde vieni?» «Dal Sole.

Battei l'ali su la cervice

del suo corsiere più bianco

per affrettar la sua corsa

all'ultimo Vertice azzurro

 

 


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