VI.
Il
fiato degli uomini vili
fuggimmo,
l'odore e il clamore
degli
Efimeri imbelli
che
quivi apparivano come
la
lebbra sul sen di Afrodite,
la
stupidità su la fronte
di
Pallade, negli occhi
di
Febo la sanie cruenta.
O
vigne immense eguali,
pascoli
d'api, coi verdi
pampini
illanguiditi
dall'aridità
presso il mare
ceruleo
dove Zacinto
ignuda
natava in silenzio
come
la sirena delusa
che
virtù non ebbe d'attrarre
ai
carmi la nave d'Ulisse!
O
grappoli sparsi in su l'aie
quadrate
per cuocersi al sole,
densi
e violacei come
il
crine sul collo di Saffo!
Cipresso,
e parvemi allora
soltanto
conoscer la tua
meditabonda
bellezza,
commisto
al palmite ricco,
sul
fianco dei colli silenti,
su
le correnti dell'acque,
in
contro al zaffiro sublime
dei
monti creati alle soglie
dell'aria
dal flauto di Pan!
Oleandro,
e allora t'elessi
in
riva ai ruscelli fiorito
per
inghirlandar la mia Musa
che
ama danzare e lottare,
che
tratta l'incudine e il sistro,
che
onora la grazia e la forza,
che
loda il pastore e l'eroe;
t'elessi,
oleandro, ti colsi
per
redimir le mie tempie
di
rose e d'alloro in un ramo.
Non
mai parso m'eri sì bello!
E
un altro da me canto avrai.
Peregrinammo
da Patre
alla
città santa d'Olimpia,
al
tempio di Zeus Cronide
con
chiusa l'offerta nel cuore.
E
tacita era la via;
e
il Sole inclinavasi all'onda
occidua,
con riaccesa
divinità,
Elio nomato
per
noi, Elio d'Eurifaessa.
Ed
èramo senza parola,
tacenti,
ma d'una celeste
melodìa
pieni il petto
mortale.
E talora dai monti
aerei
venivan messaggi
per
l'aere; e noi rendevamo
l'orecchio,
attoniti, ai suoni
di
Pan. Disse un de' cari
compagni:
«Nel plenilunio
che
segue il solstizio d'estate
la
Festa ha principio». S'udiva
dietro
a noi fragore di carri.
E
d'improvviso tutta
la
valle echeggiò di fragore
come
d'un émpito d'acque
irrompenti
da cataratte
aperte
su l'Elide. E il grido
umano
e il nitrito anelante
squillavano
sopra il fragore.
«Per
vincere vincere vincere!»
E
ci volgemmo. E vedemmo
tra
nembi di splendida polve
una
moltitudine immensa
d'uomini,
di cavalli,
di
carri condotta da mille
Vittorie
che armavano il cielo
d'un
fremito aquìleo, nube
di
penne di pepli di chiome
impetuosa
volante
in
aura di giovinezza.
«Per
vincere vincere vincere!»
E
tutto il Peloponneso
tremò
come foglia di gelso.
Era
su la via santa
la
forza dell'Ellade, mossa
da
un ramo d'ulivo selvaggio!
Era
il fior della stirpe
quadruplice,
la concorde
e
discorde anima ellèna
protesa
verso il serto
leggiere
d'ulivo selvaggio!
Ionii
e Dorii, Eolii ed Achei,
il
sangue d'Atene di Sparta
di
Tebe d'Elice d'Ege;
le
genti insulari di Nasso
di
Sèrifo d'Andro, di tutte
le
Cicladi; e i potenti
di
terra lontana, i tiranni
sicelii,
i re di Cirene,
i
grandi oligarchi
delle
città di Tessaglia
e
quei di Metaponto di Velia
di
Sibari di Posidonia
ambivan
l'ulivo selvaggio!
E
gli alti carri dipinti
recavan
le offerte votive:
le
decime tolte al bottino,
le
arche di cedro e d'avorio,
le
tavole i tripodi i vasi
le
lampade d'oro e d'argento,
i
tori e i cavalli di bronzo,
i
rudi colossi di pietra
avvolti
in lini trapunti,
e
le spugne il nitro la cera
la
pece gli aròmati gli olii.
E
tutti, città, re, strateghi,
atleti,
sacravan le offerte
per
vincere o per aver vinto
nello
stadio o in pugna campale.
Gli
Eretrii i Sicionii i Messenii
grondavano
ancóra di sangue.
Le
prede raccolte a Platèa
eran
fuse in un simulacro.
La
strage l'onta il servaggio
facean
trionfali i metalli.
O
Temistocle insonne,
del
gran Laertiade alunno,
spada
battuta a freddo,
noi
ti vedemmo sul carro
che
Atene ti diede, ben saldo
come
su trireme rostrata;
e
in te l'acuto sorriso
era
qual tempra nel ferro.
E
te, Pericle, anche vedemmo,
o
artefice della saggezza,
te
nato d'occulta sirena
e
di colui che a Micale
fu
vincitore nel nome
d'Ebe
giovinetta ridente;
te
anche vedemmo, che avevi
nel
gesto nel passo nel verbo
nella
cesarie ornata
l'ordine
divino onde fulge
la
pura colonna
nei
Propilèi di Mnesìcle,
nel
Partenone d'Ictìno.
Ma
Alcibiade, lo snello
pantère
versicolore
che
Diòniso amico
èccita
col batter del piede,
l'auriga
che al carro dall'asse
d'oro
agitava i cavalli
più
rapidi, chiamammo
per
nome. Grandissime offerte
ei
seco recava, ricchezze
insigni,
per dare
per
dar grandemente. Io gli chiesi:
«E
alla Vita che tanto
ti
diede, or tu che darai?».
«Darò
la mia statua scolpita
dalle
mie mani.» «E qual gioia
ti
parve più fiera?» «La gioia
d'abbattere
il limite alzato.»
«Qual
fu il tuo buon dèmone?» «Il rischio,
il
rischio dagli occhi irretorti.»
«La
buona virtù?» «Il piè leggero,
Ospite,
il mio piè leggero!»
E
gli strateghi i navarchi
gli
arconti passavano in carri
dall'aureo
timone, e i cantori
i
sapienti gli alunni
di
Clio gli artefici esperti
di
tutte le forme, coloro
che
foggiavan la sorte
d'un
popolo vivo, coloro
che
animavan l'umida argilla
col
pollice nudo, coloro
che
trasfiguravan gli aspetti
dell'Essere
con l'eloquenza.
E
vedemmo Erodòto
dagli
occhi d'intento fanciullo,
che
seco recava al consesso
dell'Ellade
i rotoli gravi
di
gloria come i fiari
son
pregni di miele. Vedemmo
Ippia
e Gorgia, vedemmo
Demòstene
Isòcrate Lisia;
invocammo
Pindaro invano.
Ma
splendean come astri nell'etra,
come
le Pleiadi e l'Orsa,
nella
moltitudine immensa
quattordici
atleti. Il fulgore
dei
sette e sette epinicii
ardea
nell'eroico sangue.
Perpetuavasi
il ritmo
dell'olimpica
Ode
nei
polsi del pùgile. L'ala
della
triade sagliente
armava
i mallèoli certi
al
corritore del lungo
stadio.
Ecco il bello Efarmosto
d'Opunte,
Ergotèle d'Imera,
Psaumida
di Camarina.
Ecco
Agesia Siracusano
della
profetica gente
iamide,
di Sòstrate prole.
Ecco
Alcimedonte egineta,
d'Egina
dai grandi navigli,
della
blepsiade gente.
E
d'improvviso apparve
fiammeo
di porpora coa,
pari
a inestinguibile vampa,
nella
moltitudine solo,
più
solo dell'aquila a sommo
del
monte, il monarca degli Inni.
«Aquila,
aquila» io dissi
«onde
torni sì radiante?
M'odi!
Rispondi! Per gli astri,
pei
vulcani, pei lampi,
per
le meteore, per tutto
ciò
che arde, per la sete
del
Deserto e il sale del Mare,
odimi,
volgiti all'ansia
pedestre.
Ch'io senta il tuo sguardo
e
il tuo grido fendermi il petto!
Aquila,
onde vieni?» «Dal Sole.
Battei
l'ali su la cervice
del
suo corsiere più bianco
per
affrettar la sua corsa
all'ultimo
Vertice azzurro.»