VII.
Non
templi non are non tombe
non
statue votive, non greggi
di
vittime, non teorie
solenni
lungh'esso il Pecile,
né
il coro dei bronzei fanciulli
sacrato
al Dio da Messana
né
l'opra di Càlami offerta
da
Agrigento, né il toro
degli
Eretrii, né la Vittoria
di
Naupatto ammirammo
giungendo
ai piedi del Cronio
pinifero;
ma una bellezza
virginea
come un canto
partènio,
diffusa
nella
placida sera,
c'indusse
una sùbita pace
nel
cuore, e il tumulto si tacque.
E
sol riudimmo vegnente
dai
gioghi d'Arcadia il messaggio
di
Pan che conduce
ne'
tempi il Ritorno eternale.
Arcadi
monti, alpe d'Acaia,
messenie
cime, o chiostra
della
valle sacra,
vivere
mi sembraste
voi
contenendo la voce
della
placida sera,
vivere
come i seni
delle
vergini intatte
che
cantano il canto partènio!
Un
melodioso respiro
parea
muovere i grandi
lineamenti
all'intorno
e,
come per una bocca
dischiusa,
il visibile suono
volgersi
al ciparissio golfo
in
figura di fiume
declive
e l'Alfeo violento
inebriato
d'amore
con
Aretusa giacersi
quivi
in sul medesimo letto
obliando
il corso rapace.
Eternità
del Canto!
Concava
tutta la valle
come
la testudine d'Erme,
d'innumerabili
corde
fatta
immensa, cantava
ancóra
il callinico inno
ai
Giovini vittoriosi.
La
lotta dell'invide stirpi
placavasi
nella bellezza.
Nell'armonia
numerosa
posava
la rapida forza.
L'orma
dei cursori
avea
la forma del plettro.
Il
disco lanciato
cangiavasi
in ala robusta.
Il
pentatlo e il pancrazio
erano
i fulcri dell'Ode,
come
il tripode solido regge
lo
spirto prenuncio dei fati.
«O
Ellade» io dissi «il tuo Coro
è
più delle stelle perenne!»
E,
poi che al Cronio la notte
gemmò
di stelle la fronte,
solo
discesi là dove
il
Clàdeo breve si mesce
all'Alfeo
tortuoso,
verso
le pietre infrante
che
mute dormivan sul suolo
augusto,
simili a torme
di
atleti dalle bianche
clamidi
nella vigilia
dei
Giuochi sotto il plenilunio
d'ecatombeone
giacenti.
Quasi
un baglior d'occhi insonni
parea
palpitar nelle moli
dissepolte;
e d'orrore
tremavami
l'anima in petto,
andando,
ché toccar temea
col
piede incauto la vita
eroica
meditante
al
conspetto degli astri
lo
sforzo per l'alba ventura.
Tra
le mozze colonne
del
tempio di Era m'apparve
la
tavola d'oro e d'avorio
opra
del sottile Colòte,
ove
gli Ellanodici
ponean
le corone d'ulivo
selvaggio.
Alle nari
mi
giunse l'odor delle calde
ceneri
sacrificali
che
faceano un tumulo ingente.
Vestito
di lino era il mio
silenzio.
Giammai nei perigli
l'anima
mia s'era armata
di
sì vigile ardire
come
in quell'ora di sogni
tra
quelle notturne ruine;
ma
quasi un marmoreo rigore
parea
m'occupasse la carne
mortale.
Guardai le mie mani
ignude
e di pallido marmo
le
conobbi al lume del cielo.
E
l'ambiguità della morte
e
della vita, fra i templi
abbattuti,
fra i dubii
aliti,
fra i sogni creati
e
distrutti, fra le parvenze
intermesse,
mi fece
immobile
innanzi alle accolte
ceneri
delle ecatombi
che
insanguinato aveano l'ara
di
Zeus nelle remore
olimpiadi
e nudrito
il
suo inesplebile fuoco.
«O
Zeus, Tiranno più grande,
sei
dunque caduto per sempre?
Te
sire di tutte le voci
terribili
il grido iterato
dalla
scitica rupe
sconvolse?
Lo scaltro ti vinse,
che
il muscolo e l'adipe ascosi
avea
nella pelle del toro
per
sottrarre l'ostia al Potente?
Gli
Efimeri onorano il càuto
Ribelle,
obliosi del tuo
Ordine
puro che solo
generò
l'Universo!
La
piaga che sanguina e pute
nell'egro
fegato, sotto
il
rostro del vùlture adunco,
ai
lamentevoli figli
del
Rimorso e della Paura
la
piaga la piaga stridente
ahi
più venerabile sembra
che
la solitaria tua fronte
onde
balzò l'unica nata
Pallade
Atena dagli occhi
chiari
vergine prode
artefice
meditabonda
patrona
dei vertici forti
nemica
del cieco tumulto
lucida
regolatrice
del
combattimento ordinato
che
reca al sicuro trionfo!
L'odor
della carne corrotta,
del
sudore anèlo,
della
febbre, dell'agonia,
della
putredine ha vinto
l'ambrosia
della tua chioma
su'
tuoi grandi pensieri
ondeggiante,
o Generatore
incorruttibile.
E i servi,
i
liberati servi
inclini
al sentier consueto
del
fango, che ne' lor cuori
ignavi
agognan pur sempre
il
servaggio, scagliano contro
a
te la saliva e l'ingiuria.
E
il lor fiato perverso
appesta
fin l'aer montano
intorno
alla scitica rupe
onde
il tuo Nemico furace
nauseato
vomisce
su
loro. E l'Oceano lava
la
graveolente lordura.
O
Zeus, padre del Giorno
sereno,
quanto più bello
del
vincolato ululante
Giapètide
parveti il monte
silenzioso,
di vaste
vertebre,
fresco di polle
invisibili,
aulente
d'inespugnabili
fiori!
Numerava
il piagato
con
rauca voce i tuoi molti
delitti;
e tu sorridevi,
nella
tua superbia, più puro
dell'aerea
rugiada
però
che ciascun tuo desìo
si
mirasse perfetto
nell'atto
e ciascuna tua stilla
di
sangue fosse un'eterna
volontà
protesa a un supremo
Ordine
e sol d'armonia
si
nudrisse la creatrice
tua
gioia, d'aurora in aurora.
Zeus,
se più bella ti parve
dell'Uom
vincolato la rupe
alta
silente nell'etra,
più
bella dell'Uom crocifisso
è
la croce, segno del Fuoco
primiero
ch'espressero gli Arii
dal
ramo duplice attrito.
Deposto
il cadavere molle
fu
di sul segno infamato;
ma
i cinerei servi
moltiplicarono
il tristo
simulacro
in tutte le vie
della
Terra ove i carri
falcìferi
della Potenza
profondato
aveano le rote
sonore
e le falci corusche
nel
carname dei vinti.
O
Zeus, o Zeus, t'invoco.
Risvégliati,
afferra il domani!
La
fiamma urania ti sia
vomere
a solcare la Notte.
Travaglia
travaglia la Notte,
o
Re folgorante! Sovverti
la
tenebra! Fendi il pallore!
Tu
solo mondare la Terra
dal
cumulato escremento
puoi,
come la noce dal mallo
se
per la tua grandezza
è
come la stilla di latte
espressa
dal fico immaturo
Galassia
che immensa biancheggia.
O
Zeus, Tiranno più grande,
tu
carico di delitti
e
d'oltraggi, ingombro di prede,
tu
solo sei l'alta Innocenza.
Risolleva
l'Olimpo
e
poi risorridi alla Terra.
E,
come a sua donna l'amato
offre
una cintura più bella,
rinnova
per lei l'orizzonte
cui
volgere io possa la prora
scolpita
cantando il mio canto!»
Così
pregai nel mio cuore
notturno,
fra i dischi
delle
colonne atterrate
che
un dì avean chiuso il portento
fidiaco.
«FIDIA FIGLIUOLO
DI
CARMIDE ATENIESE
MI
FECE.» E, come il tremante
artefice
innanzi al compiuto
simulacro,
attesi nel tuono
il
consentimento divino.
Ma
silenzioso fu il cenno
del
dio che vivea nel mio petto
e
nella olimpica notte.
E
della notte remota
sovvennemi,
del giovinetto
deliro
che s'ebbe i due doni
da
Libero e da Citerea,
il
tumido grappolo e il seno
femineo,
quando
laggiù
su l'incude celeste
sfavillava
il cuor del titano.
E
dissi: «O Zeus, tu anche
tu
anche mandami un segno
su
le vie della Terra.
Per
togliere tutti i miei beni,
per
cogliere tutti i miei pomi,
improbe
fatiche sopporto,
mostri
multiformi combatto
che
mi precludono i varchi,
ma
più terribili quelli,
ahi,
ch'entro me di repente
insorgono
dalle profonde
oscurità
dove torpe
il
fango delle geniture!».
E,
movendo i passi per l'Alti,
scorgere
parvemi l'ombra
dell'indovino
di Zeus,
il
responso udire improvviso
«Combattere
e vincere i mostri
non
ti varrà su la Terra
se
trasfigurarli non sai,
Aedo,
in fanciulli divini».
E
i campani d'un gregge
sonavan
tra i marmi abbattuti.
Subitamente
si tacque
in
me l'audace tumulto,
come
se la preghiera
accolta
mi fosse e compiuto
il
desiderio e mutato
già
l'orizzonte in cintura
più
bella e mondata la Terra
e
disvelata la faccia
di
Pan che conduce
nei
tempi il Ritorno eternale.
E
un fanciullo pastore
m'apparve,
il pastore del gregge:
simile
a riflesso di stella
in
tremule acque m'apparve
il
puerile sorriso.
Al
lume dei cieli
biancheggiar
vidi i suoi denti
puri
nel saluto venusto:
sentii
la rugiada cadere.
Volto
avea Boote l'obliquo
timon
del plaustro fra i Trioni.
Sì
lucida era la notte
che
gli arbori su le colline
leggere
di là dall'Alfeo
segnavano
l'ombre
visibili.
Tanto era dolce
il
lineamento dei gioghi
che
parea, come il fiume,
continuamente
fluire.
Giaceva
sul dorico tempio
il
gregge lanoso;
gli
umili velli ed i marmi
augusti
in tepore spirante
parean
convivere. Tutto
era
plenitudine e pace:
non
morte, non ruina:
armonia
di forme perfette,
concordia
del Coro infinito.
Necessità,
come l'urto
del
piè nella danza tu eri!
Su
l'erba colcato il pastore
poggiava
il florido capo
al
tronco d'un platano. E quivi
io
vigile stetti al suo fianco
in
silenzio. Ed èramo volti
ai
monti d'Arcadia, all'indizio
del
di nascituro. E il fanciullo
mordeva
mentastro odoroso,
scendendogli
il fiore del sonno
su'
cigli virginei. Caddegli
il
ramicello selvaggio
dalla
bocca aulente che al fiato
eguale
si schiuse. La valle
parve
tutta allora una cuna
divina
per quella innocenza.
Vidi
su i vertici l'Alba
avvolgere
al piè della Notte
il
lembo del suo primo velo.
D'amore
tremai come s'ella
ver
me si piegasse e dicesse:
«O
tu che m'attendi, io ti cerco!».