Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Laudi
Lettura del testo

LIBRO PRIMO - MAIA

1 - Laus vitae

VII.

«»

Link alle concordanze:  Normali In evidenza

I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio

VII.

 

Non templi non are non tombe

non statue votive, non greggi

di vittime, non teorie

solenni lungh'esso il Pecile,

né il coro dei bronzei fanciulli

sacrato al Dio da Messana

né l'opra di Càlami offerta

da Agrigento, né il toro

degli Eretrii, né la Vittoria

di Naupatto ammirammo

giungendo ai piedi del Cronio

pinifero; ma una bellezza

virginea come un canto

partènio, diffusa

nella placida sera,

c'indusse una sùbita pace

nel cuore, e il tumulto si tacque.

E sol riudimmo vegnente

dai gioghi d'Arcadia il messaggio

di Pan che conduce

ne' tempi il Ritorno eternale.

 

Arcadi monti, alpe d'Acaia,

messenie cime, o chiostra

della valle sacra,

vivere mi sembraste

voi contenendo la voce

della placida sera,

vivere come i seni

delle vergini intatte

che cantano il canto partènio!

Un melodioso respiro

parea muovere i grandi

lineamenti all'intorno

e, come per una bocca

dischiusa, il visibile suono

volgersi al ciparissio golfo

in figura di fiume

declive e l'Alfeo violento

inebriato d'amore

con Aretusa giacersi

quivi in sul medesimo letto

obliando il corso rapace.

 

Eternità del Canto!

Concava tutta la valle

come la testudine d'Erme,

d'innumerabili corde

fatta immensa, cantava

ancóra il callinico inno

ai Giovini vittoriosi.

La lotta dell'invide stirpi

placavasi nella bellezza.

Nell'armonia numerosa

posava la rapida forza.

L'orma dei cursori

avea la forma del plettro.

Il disco lanciato

cangiavasi in ala robusta.

Il pentatlo e il pancrazio

erano i fulcri dell'Ode,

come il tripode solido regge

lo spirto prenuncio dei fati.

«O Ellade» io dissi «il tuo Coro

è più delle stelle perenne

 

E, poi che al Cronio la notte

gemmò di stelle la fronte,

solo discesi dove

il Clàdeo breve si mesce

all'Alfeo tortuoso,

verso le pietre infrante

che mute dormivan sul suolo

augusto, simili a torme

di atleti dalle bianche

clamidi nella vigilia

dei Giuochi sotto il plenilunio

d'ecatombeone giacenti.

Quasi un baglior d'occhi insonni

parea palpitar nelle moli

dissepolte; e d'orrore

tremavami l'anima in petto,

andando, ché toccar temea

col piede incauto la vita

eroica meditante

al conspetto degli astri

lo sforzo per l'alba ventura.

 

Tra le mozze colonne

del tempio di Era m'apparve

la tavola d'oro e d'avorio

opra del sottile Colòte,

ove gli Ellanodici

ponean le corone d'ulivo

selvaggio. Alle nari

mi giunse l'odor delle calde

ceneri sacrificali

che faceano un tumulo ingente.

Vestito di lino era il mio

silenzio. Giammai nei perigli

l'anima mia s'era armata

di sì vigile ardire

come in quell'ora di sogni

tra quelle notturne ruine;

ma quasi un marmoreo rigore

parea m'occupasse la carne

mortale. Guardai le mie mani

ignude e di pallido marmo

le conobbi al lume del cielo.

 

E l'ambiguità della morte

e della vita, fra i templi

abbattuti, fra i dubii

aliti, fra i sogni creati

e distrutti, fra le parvenze

intermesse, mi fece

immobile innanzi alle accolte

ceneri delle ecatombi

che insanguinato aveano l'ara

di Zeus nelle remore

olimpiadi e nudrito

il suo inesplebile fuoco.

«O Zeus, Tiranno più grande,

sei dunque caduto per sempre?

Te sire di tutte le voci

terribili il grido iterato

dalla scitica rupe

sconvolse? Lo scaltro ti vinse,

che il muscolo e l'adipe ascosi

avea nella pelle del toro

per sottrarre l'ostia al Potente?

 

Gli Efimeri onorano il càuto

Ribelle, obliosi del tuo

Ordine puro che solo

generò l'Universo!

La piaga che sanguina e pute

nell'egro fegato, sotto

il rostro del vùlture adunco,

ai lamentevoli figli

del Rimorso e della Paura

la piaga la piaga stridente

ahi più venerabile sembra

che la solitaria tua fronte

onde balzò l'unica nata

Pallade Atena dagli occhi

chiari vergine prode

artefice meditabonda

patrona dei vertici forti

nemica del cieco tumulto

lucida regolatrice

del combattimento ordinato

che reca al sicuro trionfo!

 

L'odor della carne corrotta,

del sudore anèlo,

della febbre, dell'agonia,

della putredine ha vinto

l'ambrosia della tua chioma

su' tuoi grandi pensieri

ondeggiante, o Generatore

incorruttibile. E i servi,

i liberati servi

inclini al sentier consueto

del fango, che ne' lor cuori

ignavi agognan pur sempre

il servaggio, scagliano contro

a te la saliva e l'ingiuria.

E il lor fiato perverso

appesta fin l'aer montano

intorno alla scitica rupe

onde il tuo Nemico furace

nauseato vomisce

su loro. E l'Oceano lava

la graveolente lordura.

 

O Zeus, padre del Giorno

sereno, quanto più bello

del vincolato ululante

Giapètide parveti il monte

silenzioso, di vaste

vertebre, fresco di polle

invisibili, aulente

d'inespugnabili fiori!

Numerava il piagato

con rauca voce i tuoi molti

delitti; e tu sorridevi,

nella tua superbia, più puro

dell'aerea rugiada

però che ciascun tuo desìo

si mirasse perfetto

nell'atto e ciascuna tua stilla

di sangue fosse un'eterna

volontà protesa a un supremo

Ordine e sol d'armonia

si nudrisse la creatrice

tua gioia, d'aurora in aurora.

 

Zeus, se più bella ti parve

dell'Uom vincolato la rupe

alta silente nell'etra,

più bella dell'Uom crocifisso

è la croce, segno del Fuoco

primiero ch'espressero gli Arii

dal ramo duplice attrito.

Deposto il cadavere molle

fu di sul segno infamato;

ma i cinerei servi

moltiplicarono il tristo

simulacro in tutte le vie

della Terra ove i carri

falcìferi della Potenza

profondato aveano le rote

sonore e le falci corusche

nel carname dei vinti.

O Zeus, o Zeus, t'invoco.

Risvégliati, afferra il domani!

La fiamma urania ti sia

vomere a solcare la Notte.

 

Travaglia travaglia la Notte,

o Re folgorante! Sovverti

la tenebra! Fendi il pallore!

Tu solo mondare la Terra

dal cumulato escremento

puoi, come la noce dal mallo

se per la tua grandezza

è come la stilla di latte

espressa dal fico immaturo

Galassia che immensa biancheggia.

O Zeus, Tiranno più grande,

tu carico di delitti

e d'oltraggi, ingombro di prede,

tu solo sei l'alta Innocenza.

Risolleva l'Olimpo

e poi risorridi alla Terra.

E, come a sua donna l'amato

offre una cintura più bella,

rinnova per lei l'orizzonte

cui volgere io possa la prora

scolpita cantando il mio canto

 

Così pregai nel mio cuore

notturno, fra i dischi

delle colonne atterrate

che un avean chiuso il portento

fidiaco. «FIDIA FIGLIUOLO

DI CARMIDE ATENIESE

MI FECE.» E, come il tremante

artefice innanzi al compiuto

simulacro, attesi nel tuono

il consentimento divino.

Ma silenzioso fu il cenno

del dio che vivea nel mio petto

e nella olimpica notte.

E della notte remota

sovvennemi, del giovinetto

deliro che s'ebbe i due doni

da Libero e da Citerea,

il tumido grappolo e il seno

femineo, quando

laggiù su l'incude celeste

sfavillava il cuor del titano.

 

E dissi: «O Zeus, tu anche

tu anche mandami un segno

su le vie della Terra.

Per togliere tutti i miei beni,

per cogliere tutti i miei pomi,

improbe fatiche sopporto,

mostri multiformi combatto

che mi precludono i varchi,

ma più terribili quelli,

ahi, ch'entro me di repente

insorgono dalle profonde

oscurità dove torpe

il fango delle geniture!».

E, movendo i passi per l'Alti,

scorgere parvemi l'ombra

dell'indovino di Zeus,

il responso udire improvviso

«Combattere e vincere i mostri

non ti varrà su la Terra

se trasfigurarli non sai,

Aedo, in fanciulli divini».

 

E i campani d'un gregge

sonavan tra i marmi abbattuti.

Subitamente si tacque

in me l'audace tumulto,

come se la preghiera

accolta mi fosse e compiuto

il desiderio e mutato

già l'orizzonte in cintura

più bella e mondata la Terra

e disvelata la faccia

di Pan che conduce

nei tempi il Ritorno eternale.

E un fanciullo pastore

m'apparve, il pastore del gregge:

simile a riflesso di stella

in tremule acque m'apparve

il puerile sorriso.

Al lume dei cieli

biancheggiar vidi i suoi denti

puri nel saluto venusto:

sentii la rugiada cadere.

 

Volto avea Boote l'obliquo

timon del plaustro fra i Trioni.

lucida era la notte

che gli arbori su le colline

leggere di dall'Alfeo

segnavano l'ombre

visibili. Tanto era dolce

il lineamento dei gioghi

che parea, come il fiume,

continuamente fluire.

Giaceva sul dorico tempio

il gregge lanoso;

gli umili velli ed i marmi

augusti in tepore spirante

parean convivere. Tutto

era plenitudine e pace:

non morte, non ruina:

armonia di forme perfette,

concordia del Coro infinito.

Necessità, come l'urto

del piè nella danza tu eri!

 

Su l'erba colcato il pastore

poggiava il florido capo

al tronco d'un platano. E quivi

io vigile stetti al suo fianco

in silenzio. Ed èramo volti

ai monti d'Arcadia, all'indizio

del di nascituro. E il fanciullo

mordeva mentastro odoroso,

scendendogli il fiore del sonno

su' cigli virginei. Caddegli

il ramicello selvaggio

dalla bocca aulente che al fiato

eguale si schiuse. La valle

parve tutta allora una cuna

divina per quella innocenza.

Vidi su i vertici l'Alba

avvolgere al piè della Notte

il lembo del suo primo velo.

D'amore tremai come s'ella

ver me si piegasse e dicesse:

«O tu che m'attendi, io ti cerco!».

 

 


«»

IntraText® (VA2) Copyright 1996-2013 EuloTech SRL