Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
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LIBRO PRIMO - MAIA

1 - Laus vitae

VIII.

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VIII.

 

Alba apparita dal sacro

Cillene, il mio canto novello

salire a te non si ardisce;

ma tu risplendi per sempre

su le mie sorti guerriere

freschissima confortatrice!

Da te beve come da un fonte

l'arsura della battaglia.

Stendere tu suoli il tuo velo

su la mia febbre animosa.

Ti guardo allor che il periglio

è presente, ti guardo

allor che mi stringe il dolore,

ti guardo allor che m'accingo

a scuotere l'anima mia

come arbore troppo gravato

di frutti maturi,

e dico: «Il mio giorno incomincia»

con ineffabile gaudio

entro me udendo il respiro

lene del divino fanciullo.

 

Lui sotto il platano, ancóra

dormente, lasciai tra il suo gregge

nell'Alti. E come dal cavo

còrtice sgorga la copia

del miele e liquida cola

giù pel tronco insino alla ceppa:

la flava ricchezza adunata

dall'api sembra una gomma

pingue che gema dal cuore

dell'arbore, dono agli umani:

così la sua grazia facea

ricco il platano sterile

e quasi apparia stirpe d'oro

prodotta co' i rami e le frondi

naturalmente alla luce.

Tacito partìimi, nudato

i piedi, per mezzo la bianca

strage dei marmi, scendendo

a riva. E la veste di lino

erami grave. Mi scinsi.

Palpitai nell'aere chiaro.

 

Con qual grido in me riconobbi

l'antica natura dell'acqua

scagliandomi nella corrente

del mitico Alfeo!

Correva quel fiume in gran letto

ghiaioso ardente consparso

di platani di tamerici

d'oleandri selvaggi;

e le cicale col canto

e col susurro le frondi

accompagnavano il croscio

robusto del rapitore.

«Io Arethusa, io Arethusa

Agili guizzavan nel gelo

i muscoli all'impeto avverso

resistendo; ma d'improvviso

per tutta la carne un'azzurra

fluidità mi ricorse

e i muscoli furon su l'ossa

come i fili dell'acqua

turgidi contra le selci.

 

E non più lottar volle il corpo

a nuoto ma cedere tutto

alla rapina sonora,

ma essere quella rapina,

ma perdere il limite umano,

espandersi fino all'alpestre

origine, correre a valle

dal monte, ritorcersi in lunghi

meandri, polire le rupi,

l'erbe inclinare, i campi

rodere, scalzar le radici,

detergere il gregge, di schiume

fervere, tingersi di cielo,

splendere di raggi, gonfiarsi

di tributi limosi,

il limo deporre, chiarirsi

com'aere gelido, in ogni

goccia crescere impeto e brama,

contro il Mar che agguaglia afforzarsi

di rapidità, fiume eterno

persistere nell'amarezza.

 

«O Alfeo d'Aretusa, più vaste

correnti solcan le valli

terrestri, il Tànai estremo

dirime innumere stirpi,

termine d'imperi è il profondo

Istro, il settemplice Nilo

trasmuta le arene in immense

biade e specchia ardui sepolcri.

Ma sol tu sei regnatore

nel mito, bel re cristallino!

I più grandi beve per sempre

l'inevitabile ponto.

Morte informe in pèlaghi estingue

tanta forza irrigua. Tu solo,

rena d'amore immortale

palpitante nell'amarezza,

tu solo persisti e trascorri,

puro qual nascesti dal fonte,

al segno del tuo desiderio

lontano. O Alfeo d'Aretusa,

ch'io sia come te nel mio mare

 

Mi mossi allora, temprato

dal limpido gelo, mi mossi

ai dissepolti simulacri

che il triste ricovero chiude.

Pio pellegrino, le rose

del laurigero oleandro

e il fior violetto dell'agno-

casto io colsi tra le ruine.

Tutta la valle ardeva

di fiamma cerula, e il canto

delle cicale era come

il suono del foco celeste,

talor come il crèpito chiaro

degli arbusti arsi, dei fumanti

aròmati. La magra terra

fumava ed auliva d'incensi

come il sommo dell'ara.

La cenere delle ecatombi

svegliarsi pareva in faville.

Tintinno di tetracordi

era il vento etesio nei pini.

 

O Ippodàmia, nel rotto

fronte del Tempio giacente,

io vidi te sola

tra Pelope e i quattro cavalli,

orrendo virgineo silenzio

chiuso nella gravezza

del dorico peplo. Constretta

nelle pieghe rigide come

nelle ferree dita del Fato

eri, o figlia d'Enomào.

Ma il pensier tuo, sotto i folti

riccioli simili alle uve

della bimare Corinto

mèta alla corsa fatale,

immobile vivea

nel fiammeo soffio dei quattro

corsieri già pronti col carro.

E non ebbe il Cillene

non il Taigeto un abisso

terribile come il tuo grembo

intatto che Pelope amava.

 

Perché di sùbito amore

anch'io t'amai, genitrice

d'Atreo? Perché nella memoria

mi giganteggia il tuo peplo

simile alla scorza d'un mondo?

L'imagine in te ritrovai

della perigliosa Bellezza

che di sé m'accese e m'accende,

virginea nel rigore

del suo vestimento ordinato,

urna di tutti i mali,

profondità di dolore

e di colpa, remota

cagione di lutti infiniti,

funesto silenzio ove rugge

ebro di lussuria e di strage

l'umano mostro nudrito

d'inganni pel labirinto

dei tempi. L'aspetto sublime

dell'Ombra cui l'arte m'è fisa

in te raffiguro, Ippodàmia.

 

Tra l'eroe preparato

e la fremente quadriga

tu stai, piena il fianco regale

di fertilità spaventosa,

guatando la via dove spenti

caddero sotto le ruote

dei carri i tuoi chieditori.

E il tuo padre in segreto ha fame

di te; e il Tantalide è certo

di premerti, al tramonto

del sole, nudata e superba

sopra le sue pelli di belve.

E tu sei vergine ancóra;

la tua cintura ti cinge

di sopra il ventre velato,

come il cerchio tacito gira

a sommo del gorgo.

Ma Tieste e Atreo nascituri

e la cruenta progenie

e il peso carnal dei delitti

già t'affaticano il grembo.

 

E dalla tua bianchezza

immobile, o Statua sculta

pel fronte sereno del Tempio,

erompe il furor degli Atridi,

propagansi l'odio fraterno

e la libidine incesta

e l'ebrietà dell'eccidio

e i singulti e gli ululi e i lagni

che trae dalle fauci umane

la cieca percossa del Fato.

O Ippodàmia, e lungi

alla tempesta dei mali

nella dolce luce un divino

cigno canta il suo giovenile

inno verso la Morte.

«Recate i canestri! Versate

sul fuoco l'orzo lustrale!

Conducete vittima all'ara

me trionfatrice dell'alta

Ilio! Coronatemi il capo!

All'Ellade io do la mia vita

 

Chi dunque canta? La stirpe

di Pelope, Ifigenìa,

l'Atride cara ad Achille,

ebra di gloria, futura

luce dell'Ellade, innanzi

alla moltitudine in arme,

andando pel florido prato

verso il bosco sacro

d'Artèmide. «Per la mia patria

e per tutta l'Ellade io muoio!

Ma degli Argivi alcun non mi tocchi.

Tenderò la gola in silenzio

Ed Achille, preso il canestro,

tolta l'acqua, circa l'altare

corre invocando la dea

per le navi e per l'aste.

Rapisce la dea, sotto il ferro

del sacrificatore,

la vergine intatta. Prodigio!

Su l'altare palpita occisa

la grande cerva montana.

 

In alto, per l'incolpato Etra,

per la via de' vènti e degli astri,

la suora d'Apolline reca

nelle candide braccia

la nata del sangue d'Atreo,

o Ippodàmia, lei dormiente

adagia su i gradi del tempio

tàurico fatta più bella!

Tal, figlia d'Enomao, che stai

tra l'eroe preparato

e i quattro corsieri anelanti,

videro i miei occhi novelli

illuminarsi l'antico

mistero cui veste il tuo peplo.

Un'armonia inaudita

congiunse allora nel sogno

la rigidità del tuo marmo

alla flessibile forza

in me viva; e sorsero accordi

senza numero belli

tra i miei spini e i miti divini.

 

Ma la parola dell'uomo

è tarda in seguir dagli abissi

ai vertici l'avvolgimento

dell'anima alata.

Espressa in ardore di suoni

non ho la figura che nutro

della mia midolla più forte,

o Statua scura pel fronte

sereno del Tempio,

detto perché la tua fredda

pietra si muti ai miei occhi

nella sostanza infiammata

cui l'arte mia teme e travaglia.

Chi mai dunque sotto il velame

scoprirà l'imagine ascosa?

Forse colui che, esperto

e vigile, ode in un soffio

del vento rivivere i morti,

rigiugnersi le parentele

obliate, sotto l'incauta

prole ansare il sen della Terra.

 

 


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