VIII.
Alba
apparita dal sacro
Cillene,
il mio canto novello
salire
a te non si ardisce;
ma
tu risplendi per sempre
su
le mie sorti guerriere
freschissima
confortatrice!
Da
te beve come da un fonte
l'arsura
della battaglia.
Stendere
tu suoli il tuo velo
su
la mia febbre animosa.
Ti
guardo allor che il periglio
è
presente, ti guardo
allor
che mi stringe il dolore,
ti
guardo allor che m'accingo
a
scuotere l'anima mia
come
arbore troppo gravato
di
frutti maturi,
e
dico: «Il mio giorno incomincia»
con
ineffabile gaudio
entro
me udendo il respiro
lene
del divino fanciullo.
Lui
sotto il platano, ancóra
dormente,
lasciai tra il suo gregge
nell'Alti.
E come dal cavo
còrtice
sgorga la copia
del
miele e liquida cola
giù
pel tronco insino alla ceppa:
la
flava ricchezza adunata
dall'api
sembra una gomma
pingue
che gema dal cuore
dell'arbore,
dono agli umani:
così
la sua grazia facea
ricco
il platano sterile
e
quasi apparia stirpe d'oro
prodotta
co' i rami e le frondi
naturalmente
alla luce.
Tacito
partìimi, nudato
i
piedi, per mezzo la bianca
strage
dei marmi, scendendo
a
riva. E la veste di lino
erami
grave. Mi scinsi.
Palpitai
nell'aere chiaro.
Con
qual grido in me riconobbi
l'antica
natura dell'acqua
scagliandomi
nella corrente
del
mitico Alfeo!
Correva
quel fiume in gran letto
ghiaioso
ardente consparso
di
platani di tamerici
d'oleandri
selvaggi;
e
le cicale col canto
e
col susurro le frondi
accompagnavano
il croscio
robusto
del rapitore.
«Io
Arethusa, io Arethusa!»
Agili
guizzavan nel gelo
i
muscoli all'impeto avverso
resistendo;
ma d'improvviso
per
tutta la carne un'azzurra
fluidità
mi ricorse
e
i muscoli furon su l'ossa
come
i fili dell'acqua
turgidi
contra le selci.
E
non più lottar volle il corpo
a
nuoto ma cedere tutto
alla
rapina sonora,
ma
essere quella rapina,
ma
perdere il limite umano,
espandersi
fino all'alpestre
origine,
correre a valle
dal
monte, ritorcersi in lunghi
meandri,
polire le rupi,
l'erbe
inclinare, i campi
rodere,
scalzar le radici,
detergere
il gregge, di schiume
fervere,
tingersi di cielo,
splendere
di raggi, gonfiarsi
di
tributi limosi,
il
limo deporre, chiarirsi
com'aere
gelido, in ogni
goccia
crescere impeto e brama,
contro
il Mar che agguaglia afforzarsi
di
rapidità, fiume eterno
persistere
nell'amarezza.
«O
Alfeo d'Aretusa, più vaste
correnti
solcan le valli
terrestri,
il Tànai estremo
dirime
innumere stirpi,
termine
d'imperi è il profondo
Istro,
il settemplice Nilo
trasmuta
le arene in immense
biade
e specchia ardui sepolcri.
Ma
sol tu sei regnatore
nel
mito, bel re cristallino!
I
più grandi beve per sempre
l'inevitabile
ponto.
Morte
informe in pèlaghi estingue
tanta
forza irrigua. Tu solo,
rena
d'amore immortale
palpitante
nell'amarezza,
tu
solo persisti e trascorri,
puro
qual nascesti dal fonte,
al
segno del tuo desiderio
lontano.
O Alfeo d'Aretusa,
ch'io
sia come te nel mio mare!»
Mi
mossi allora, temprato
dal
limpido gelo, mi mossi
ai
dissepolti simulacri
che
il triste ricovero chiude.
Pio
pellegrino, le rose
del
laurigero oleandro
e
il fior violetto dell'agno-
casto
io colsi tra le ruine.
Tutta
la valle ardeva
di
fiamma cerula, e il canto
delle
cicale era come
il
suono del foco celeste,
talor
come il crèpito chiaro
degli
arbusti arsi, dei fumanti
aròmati.
La magra terra
fumava
ed auliva d'incensi
come
il sommo dell'ara.
La
cenere delle ecatombi
svegliarsi
pareva in faville.
Tintinno
di tetracordi
era
il vento etesio nei pini.
O
Ippodàmia, nel rotto
fronte
del Tempio giacente,
io
vidi te sola
tra
Pelope e i quattro cavalli,
orrendo
virgineo silenzio
chiuso
nella gravezza
del
dorico peplo. Constretta
nelle
pieghe rigide come
nelle
ferree dita del Fato
eri,
o figlia d'Enomào.
Ma
il pensier tuo, sotto i folti
riccioli
simili alle uve
della
bimare Corinto
mèta
alla corsa fatale,
immobile
vivea
nel
fiammeo soffio dei quattro
corsieri
già pronti col carro.
E
non ebbe il Cillene
non
il Taigeto un abisso
terribile
come il tuo grembo
intatto
che Pelope amava.
Perché
di sùbito amore
anch'io
t'amai, genitrice
d'Atreo?
Perché nella memoria
mi
giganteggia il tuo peplo
simile
alla scorza d'un mondo?
L'imagine
in te ritrovai
della
perigliosa Bellezza
che
di sé m'accese e m'accende,
virginea
nel rigore
del
suo vestimento ordinato,
urna
di tutti i mali,
profondità
di dolore
e
di colpa, remota
cagione
di lutti infiniti,
funesto
silenzio ove rugge
ebro
di lussuria e di strage
l'umano
mostro nudrito
d'inganni
pel labirinto
dei
tempi. L'aspetto sublime
dell'Ombra
cui l'arte m'è fisa
in
te raffiguro, Ippodàmia.
Tra
l'eroe preparato
e
la fremente quadriga
tu
stai, piena il fianco regale
di
fertilità spaventosa,
guatando
la via dove spenti
caddero
sotto le ruote
dei
carri i tuoi chieditori.
E
il tuo padre in segreto ha fame
di
te; e il Tantalide è certo
di
premerti, al tramonto
del
sole, nudata e superba
sopra
le sue pelli di belve.
E
tu sei vergine ancóra;
la
tua cintura ti cinge
di
sopra il ventre velato,
come
il cerchio tacito gira
a
sommo del gorgo.
Ma
Tieste e Atreo nascituri
e
la cruenta progenie
e
il peso carnal dei delitti
già
t'affaticano il grembo.
E
dalla tua bianchezza
immobile,
o Statua sculta
pel
fronte sereno del Tempio,
erompe
il furor degli Atridi,
propagansi
l'odio fraterno
e
la libidine incesta
e
l'ebrietà dell'eccidio
e
i singulti e gli ululi e i lagni
che
trae dalle fauci umane
la
cieca percossa del Fato.
O
Ippodàmia, e lungi
alla
tempesta dei mali
nella
dolce luce un divino
cigno
canta il suo giovenile
inno
verso la Morte.
«Recate
i canestri! Versate
sul
fuoco l'orzo lustrale!
Conducete
vittima all'ara
me
trionfatrice dell'alta
Ilio!
Coronatemi il capo!
All'Ellade
io do la mia vita.»
Chi
dunque canta? La stirpe
di
Pelope, Ifigenìa,
l'Atride
cara ad Achille,
ebra
di gloria, futura
luce
dell'Ellade, innanzi
alla
moltitudine in arme,
andando
pel florido prato
verso
il bosco sacro
d'Artèmide.
«Per la mia patria
e
per tutta l'Ellade io muoio!
Ma
degli Argivi alcun non mi tocchi.
Tenderò
la gola in silenzio.»
Ed
Achille, preso il canestro,
tolta
l'acqua, circa l'altare
corre
invocando la dea
per
le navi e per l'aste.
Rapisce
la dea, sotto il ferro
del
sacrificatore,
la
vergine intatta. Prodigio!
Su
l'altare palpita occisa
la
grande cerva montana.
In
alto, per l'incolpato Etra,
per
la via de' vènti e degli astri,
la
suora d'Apolline reca
nelle
candide braccia
la
nata del sangue d'Atreo,
o
Ippodàmia, lei dormiente
adagia
su i gradi del tempio
tàurico
fatta più bella!
Tal,
figlia d'Enomao, che stai
tra
l'eroe preparato
e
i quattro corsieri anelanti,
videro
i miei occhi novelli
illuminarsi
l'antico
mistero
cui veste il tuo peplo.
Un'armonia
inaudita
congiunse
allora nel sogno
la
rigidità del tuo marmo
alla
flessibile forza
in
me viva; e sorsero accordi
senza
numero belli
tra
i miei spini e i miti divini.
Ma
la parola dell'uomo
è
tarda in seguir dagli abissi
ai
vertici l'avvolgimento
dell'anima
alata.
Espressa
in ardore di suoni
non
ho la figura che nutro
della
mia midolla più forte,
o
Statua scura pel fronte
sereno
del Tempio,
né
detto perché la tua fredda
pietra
si muti ai miei occhi
nella
sostanza infiammata
cui
l'arte mia teme e travaglia.
Chi
mai dunque sotto il velame
scoprirà
l'imagine ascosa?
Forse
colui che, esperto
e
vigile, ode in un soffio
del
vento rivivere i morti,
rigiugnersi
le parentele
obliate,
sotto l'incauta
prole
ansare il sen della Terra.