IX.
E
l'Erme prassitelèo
sul
fulcro quadrato mi parve
men
virile, quasi fior molle
di
grazia feminea, quasi
desiderabile
amàsio,
andrògina
forma venusta,
poi
che saziato mi fui
di
grandezza e di lutto.
Il
torace il ventre ed il pube
non
marmo erano ma carne
cedevole.
Il nitido capo
dai
riccioli corti, recline
verso
Diòniso infante,
nella
levità del sorriso
e
dell'ombre era ambiguo
tra
il sogno e la vita, siccome
quel
del pastor duplice alato
che
guida le anime all'Orco
e
il rapito armento al suo antro.
Dai
ginocchi agli òmeri in ritmi
leggeri
saliva la forza.
Ma,
poi che da banda mi trassi
e
riguardai, la forza
si
palesò nella guisa
che
l'arco allentato si tende.
I
lombi gagliardi, le cosce
nervose,
le reni falcate
e
salde, la cervice
robusta
eran degni del dio
enagònio.
Gravando
sul
piè manco il peso del corpo
divino,
ei reggeva col braccio
inflesso
il pargolo ignudo.
Ei
giovine assunto alla forma
perfetta
portava il nascente
germe
inteso a spandersi in gioia,
a
sorgere nella pienezza
dell'essere
e della potenza.
Così
per visibili segni
raffigurata
mi parve
nel
Divenire Eterno
l'immortalità
della Vita.
«O
figlio di Maia» pregai
«figlio
dell'Atlantide Maia
dall'affocata
faccia,
che
onoro notturna fra gli astri
Pleiade
dai sandali belli
dal
crin di giacinto, che invoco
fra
le sue sorelle celesti,
odimi,
o Criseotarso,
Amico
degli uomini. Scendi
dal
fulcro quadrato,
àrmati
del pètaso il capo,
allaccia
gli aurei talari
ai
mallèoli, teco togli
la
verga di tre rampolli,
la
lunga clamide, l'arpe
lunata,
la borsa capace,
e
vieni tra gli uomini. Sei
pur
sempre il lor nume operoso,
il
dio dal gran cuore, l'artiere
infallibile.
Vieni!
Udrai
e vedrai maraviglie.
O
Agorèo, cui piacque
trattar
con vólto benigno
i
mercatori in piazza
solleciti
intorno alle biade
dell'Attica
magra, la Terra
è
oggi un'àgora immensa
ove
non si tendono reti
di
belle parole ma guerra
si
guerreggia furente
per
la ricchezza e l'impero.
Duci
di genti son fatti
i
tuoi mercatori ingegnosi,
duci
inesorabili e insonni
dal
breve motto che scrolla
cumuli
enormi di forza.
Sul
flutto dell'oro
ondeggian
le sorti dei regni.
Come
l'aere l'acqua ed il fuoco,
fatto
è l'oro un periglioso
elemento
che ha i suoi nembi,
i
suoi vortici, le sue vampe.
O
Infaticabile, e sonvi
terre
novelle, agitate
dall'alito
aspro dell'antico
Ocèano,
dove l'umana
opera
è qual rabida febbre.
Il
vento è qual bronzo che squilli,
il
vento è qual riso che rida
qual
gioia che canti
su
la magnificenza e l'onta
degli
atti. Il verbo è una lama
aguzzata
a duplice taglio.
La
gara, che tu proteggevi
nelle
fulve palestre,
divora
le vie strepitose.
Gli
uomini dalla mascella
belluina
e dal mento
di
selce màsticano l'ansia
qual
foglia amara d'alloro.
La
Volontà reca intrecciati
a
sé il Dominio e il Piacere
come
i serpi al tuo caducèo.
L'Istinto
è un impeto sagliente,
un
ariete caloroso
dalle
inesauste reni,
che
si precipita sopra
la
vita e l'assale
e
la copre e sì la feconda
reluttante
o sommessa.
Passan
talora su le rosse
città
nuvole di speranze,
quasi
tempesta di ali;
e
s'empion d'un rombo gli orecchi
degli
uomini maraviglioso,
ch'è
il rombo degli inni futuri.
Le
mammelle irrìgue
della
Terra moltiplicarsi
paiono
alla cresciuta
avidità
della prole.
Il
Destino toglie da tutti
gli
spazii i suoi limiti, vinto
e
respinto per sempre
dalla
libertà degli eroi.
O
Macchinatore, e una stirpe
di
ferro, una sorta di schiavi
foggiata
nella sostanza
lucente
de' clìpei dell'aste
degli
schinieri, una serva
moltitudine
di Giganti
impigri
obbedisce ai fanciulli
e
alle femmine, meglio
che
su triere veloce
al
celeùste la ciurma
unta
di olio d'oliva.
E
non il flauto né il canto
regola
il moto con ritmo
eguale;
ma una potenza
che
non falla, simile al sano
cuore
nel petto dell'uomo,
pulsa
in quelle ossature
polite
e circola in ogni
membro
con giro iterato
accelerando
il lavoro.
Gran
fremito scuote le case.
M'odi.
Il gesto del paziente
ilota,
che trita la spelta
o
il latte agita nel secchio
o
scardassa le lane,
s'immilla
ne' ferrei bracci
nelle
ruote dentate
ne'
lunghi cuoi serpentini
che
per girevoli dischi
trascorrono
propagando
l'impulso
ai congegni sottili
onde
l'informe sostanza
esce
trasfigurata
come
da industria sagace
d'innumerevoli
dita.
O
Erme, i telai della lidia
Aracne
diurni e notturni,
ove
come rondini argute
volavan
le spole,
travagliano
senza canzone
di
vergine e senza lucerna,
soli
in ordin lungo strependo.
Il
sudore d'Efèsto
su
la piastra imposta all'incude
profuso,
è ormai vano
o
Erme, ché nelle fucine,
come
la man puerile
incide
la tenera canna
o
divide le fibre
del
cortice lieve, l'ordigno
facile
taglia distende
assottiglia
fóra contorce
per
mille guise il metallo
ammassato
in solidi pani.
Odimi,
o Inventore.
E
i magli, i magli più vasti
delle
rupi che il lacertoso
Ciclope
scagliò contra Ulisse
tuo
caro, invisibile pugno
solleva
e precipita in ritmo
agevolmente
come
il
fanciullo manda e ribatte
volubile
palla per gioco.
Gioco
di fanciullo era a poppa
del
nautico pino il chenisco,
l'anitrella
scolpita
nella
curva trave spalmata
perché
galleggiasse in eterno.
O
Erme, nave catafratta
or
galleggia e naviga senza
vele
né remi. Discende
pel
pendìo dello scalo
nel
mare compagine eccelsa
come
cittadella munita,
corbame
e fasciame di ferro
testudinato
di piastra
a
martello più salda
che
orbe di settemplice scudo.
Gran
torri soperchiano il vallo.
La
carena ha un cuore di fuoco
onde
creasi la propulsante
virtù
dell'ali marine
che
tùrbinan sotto la poppa
tra
ruota e timone sommerse.
Atto
alla guerra e alla pace,
minaccioso
d'armi tonanti
o
dei doni onusto che all'uomo
fa
la veneranda Demetra,
il
colosso equoreo solca
pèlaghi
ed ocèani, varca
gli
eurìpi i bòsfori i sacri
istmi
che l'uom frale recise
come
tu dio con l'arpe
il
collo d'Argo tutt'occhi.
Oltre
le Caspie Porte,
oltre
l'Atlante ove il coro
delle
Esperidi per sempre
si
tace, oltre la piaggia
del
Cinnamomo trapassa.
Lascia
l'iperbòreo lito
ove
non più danza e canta
Apolline
dall'equinozio
di
primavera insino
al
levar delle Pleiadi
re
dei conviti soavi.
Di
Taprobane a Ierne
di
Cerne all'Ocèano Eoo
la
sua scìa grande orla i lembi
di
quel mondo che t'appariva
nel
volo, o Alipede, quale
macedone
clamide stesa.
Ma
di là dalla piaggia d'Eea,
di
là dall'estremo Occidente,
ove
Elio sommerge i cavalli,
trapassa
ad attingere un altro
mondo
che sotto altre stelle
si
giace in duplice forma,
simile
a un'ala d'uccello
e
simile a un'orsa poggiata
le
zampe nell'artico gelo.
E
il certo piloto
disegna
nell'acque un cammino
ben
cognito a tutte le prore,
sì
che traccia su traccia
persistevi
qual nelle vie
frequenti
il solco dei carri.
O
Egemonio, m'odi.
Nel
mare è il certame dei regni.
Il
mare implacabile prende
e
scevera, senza fallire,
le
virtù delle stirpi
nel
tempo. Più della terra
antico,
nudrito di morti
ma
di nascimenti fecondo,
più
della terra è bello,
più
della terra è sicuro.
I
morti non rende, ma rende
l'amore
a chi l'ama tenace.
La
Speranza che stette
al
fianco dell'uomo animoso
curva
su la rate pelasga,
la
selvaggia compagna
cui
contra l'occhio aguzzato
la
palpebra rossa
arrovesciavano
i vènti,
or
fatta è donna imperiale
Thalassia
nomata su i vènti.
Nel
trono ella sta d'Amfitrite.
Catenata
sembra la Gloria
tra
le sue tempie. Il suo seno
è
una primavera anelante.
Il
suo palpito si ripercuote
dai
golfi e dai bòsfori azzurri
del
Mediterraneo Mare
sino
ai promontorii nimbosi
della
barbarica Ierne.
Bùccine
di mille Tritoni
non
vincono il chiaro clangore
della
sua tromba di bronzo.
L'odono
i popoli forti:
cantando
l'inno dei Padri,
spingon
rivali nel flutto
ruggente
le navi di ferro;
ché
necessario è navigare,
vivere
non è necessario.
Polèna
a ogni prora novella
è
il cuore vermiglio dell'uomo
inalzato
sopra la Morte.
Odimi,
o Enagonio.
Il
Taigeto ha i segugi
più
ardenti; ha Sciro le capre
dalle
mamme irrigue di latte
più
pingue; Argo, le armi;
Tebe,
i carri; ma la Sicilia
ferace
dà le quadrighe
magnifiche,
i bene bardati
corsieri
dal piè di tempesta.
Ne'
tuoi stadii l'asse tutt'oro
guizza
come folgore in nube.
La
Rapidità dalle nari
di
fiamma par su le tue mete
lasciar
vestigia d'incendio.
Ierone
di Siracusa,
Senòcrate
di Agrigento,
Cromio
d'Etna, fior di Sicilia,
contendon
la palma agli Elleni.
Pindaro
diademato
offre
agli eroi trionfali
la
grande coppa dell'inno.
Non
l'ebrietà della strofe
né
fronda di quercia d'olivo
di
pino s'attendono, o Erme,
i
conduttori dei carri
igniti
cui circo e vittoria
è
l'Orbe terrestre! Nel pugno
non
reggon le redini anguste,
non
figgono alle cervici
dei
cavalli lo sguardo.
Governano
ordigni più snelli
che
il tèndine equino
ma
possenti più ch'epitagma
scagliato
nella battaglia.
Scrutano
lo spazio ventoso,
i
piani i fiumi i monti
che
valicheranno. Obbedisce
il
pulsante metallo
al
tocco infallibile. Foschi
son
gli intenti vólti, notturni
come
il vólto di Ade re d'Ombre
che
trae Persefóne piangente.
Traggono
il pianto e l'affanno
degli
uomini i lor negri carri,
il
male degli uomini stretti
e
misti nell'alito impuro,
il
dolore e tutti i suoi frutti
sopportano,
o Erme, il piacere
e
i suoi fiori senza radici,
e
l'avida gioia
e
il desiderio feroce
e
gli inestricabili nodi
delle
anime chiuse nei corpi
ignavi,
e gli intorpiditi
crimini
dall'unghie rattratte,
e
le volontà rilucenti
nei
sogni come in guaine
diàfane,
e l'opere nate
da
ieri, e i messaggi dei cuori
fraterni,
e la copia dei beni
giocondi
trasportano, o Erme:
le
rose dei liti solari
al
gelo dell'Isole Scàndie.
Tonando
passano, in lungo
ordin
su cento e cento ruote
concordi,
con nubi e faville
per
traccia, passano a vespro
nei
piani onde fuma sommossa
dal
diurno travaglio
la
fecondità delle glebe.
Sùbita
s'aderge in orgoglio
la
stanchezza dell'uomo
e
guata la porpora immensa
del
cielo, ove come in sanguigna
promessa
di vita più bella
par
che s'addentri col peso
la
creatura dell'uomo.
Cade
la notte. O perla,
o
lacrima d'Espero ardente!
S'accendono
i fari. Nei porti
le
ciurme si scagliano all'orgia.
Le
città splendono di febbri
come
un astro è cinto di aloni.
Col
rombo il tràino amplia la notte.
Odimi,
precipite Nunzio,
alto
Messaggero celeste.
L'aere
notturno e diurno
palpita
di umani messaggi.
Commessa
al silenzio dell'Etra
la
parola attinge i confini
remoti.
Serpeggia silente
pei
bàratri equorei, sotto
i
nettunii pascoli; emerge
lungi
perfetta nei segni,
narra
gli eventi, conduce
le
imprese, congiunge le stirpi,
infèrvora
i forti alla gara.
La
voce, la voce sonora,
formata
dal labbro spirante,
in
cavo artificio s'ingolfa,
di
sillaba in sillaba vibra
tacitamente
lontana,
ravvivasi
come in profonda
bùccina
e favellare
l'ascolta
l'orecchio inclinato.
O
Viale, come le vene
per
entro ai marmi di Sparta
e
del Tènaro folte
son
le vie frequenti e insuete
ond'è
variegata la Terra.
Ma
la mobile fiamma,
che
tu eccitavi nel petto
del
viatore, divampa
e
grandeggia in cuor dell'eroe
novello
che vede la Gloria
accosciata
come la Sfinge
nell'immensità
dei deserti
o
presso le occulte sorgenti
dei
fiumi o su i mari di gelo.
Non
di parole tebano
enigma
propone la belva
ma
chiede, o Erme, la chiave
sacra
che vedesti nel pugno
dell'antichissima
Gea!
D'ossa
lùcono i milliari
degli
spaventosi cammini.
O
Citaredo primo,
tu
il bene che supera tutti
désti
all'uomo quando la cava
testudine
nata nei monti
facesti
sonora, le canne
trasverse
inserendo nei fóri
tra
l'un margine e l'altro,
poi
sul graticcio spandendo
la
pelle di bue, configgendo
a
sommo del guscio i due bracci,
questi
poi giugnendo col giogo.
Tra
l'osseo giogo e l'estremo
labbro
della scaglia montana,
come
il nervo tra i corni
dell'arco,
tendesti minuge
di
agnelli bene attorte.
Sette
ne tendesti, o figliuolo
di
Maia, per onorare
le
Pleiadi belle nell'Etra.
E
la tua cheli selvaggia
fu
compagna al canto dell'uomo.
Or
l'uomo, emulando gli audaci
tuoi
spiriti, seppe di legni
di
nervi di crini di pelli
d'avorii
di metalli
una
multiforme crearsi
e
multànime gente
canora
che popola e gonfia
la
profonda orchestra occultata,
ove
non più la thyméle
santa
òccupa il centro del cerchio
né
più presso l'ara l'aulete
dalla
phorbéia di cuoio
col
duplice flauto accompagna
le
strofe e la danza corale.
E
non il cristallo del cielo
né
il sinuoso velario
acceso
dai raggi s'allarga
su
la moltitudine intenta;
ma
simile ad alto sepolcro
è
il notturno teatro
concluso
e in sé stesso rimbomba.
Come
nei mari le prime
onde
squammose all'urto
dell'euro
inarcan le schiene,
s'ergono
e spumano, il rugghio
e
il tuono avvicendano a corsa,
di
procella tumide in vasti
cumuli
precipitando
con
un rapimento improvviso;
come
nei boschi le prime
faville
accendono i coni
aridi,
le morte frondi,
crescono
in pallide fiamme,
serpeggian
pe' vepri, gli arbusti
mordono,
il cuor selvaggio
attingono
carco d'aromi,
conflagrano
subitamente
fragorose
verso la nube,
irraggian
per tutta la valle
il
fulgore e il terrore;
così
dall'orchestra prorompe
l'impeto
sinfoniale.
O
Maestro dei Sogni,
m'odi.
E i Sogni inani, i tuoi lievi
simulacri
della quiete,
le
tue mute imagini erranti,
giganteggiano
a un tratto
con
vólti di bragia,
s'armano
d'una ossatura
erculea,
grande hanno il fiato
e
polsi hanno violenti
per
stringere l'anima umana
e
scuoterla dalle radici
e
svèllerla e darla al ludibrio
dei
desiderii! E l'Amore,
o
Erme, il giovinetto cnidio
triste
come un rogo consunto
ascolta
per entro a' capegli
che
sono un unguento stillante;
languisce
in un freddo sudore;
poi
vuota la tazza che gli offre
la
Morte, ove tutti i piaceri
spremuti
fanno un sol tòsco.
Padre
d'Ermafrodito,
non
tu creasti l'oscuro
Andrògino
al far della notte,
ebro
di melodìa
in
un torrente di suoni
premendo
l'amata da tutti
Anadiomene
d'oro?
Noi
anche, ahi sì brevi, sul lito
d'Eternità
sognammo
le
mescolanze vietate,
sdegnando
di saziarci
pur
sempre con la dolcezza
dei
consueti giacigli.
L'opera
attendemmo diversa,
nata
da un'incognita febbre,
fatta
di dolore e di gioia,
pallida
di ricordanze
ma
di presagi animosa,
recante
in sé la promessa
e
il compimento, sorella
delle
Stagioni divine.
O
Psicagogo, se all'Ade
squallido
condurre dovessi
tu
l'anima mia, se condurre
dovessi
tu l'Ombra del mio
canto
su l'asfòdelo prato
incontro
a Saffo sublime
dal
crin di viola che forse
m'attende,
alla riva del Lete
t'indugeresti,
io penso,
vedendo
in me trasparire
queste
tante ignote ricchezze.
E
direbbemi alate
parole
la tua maraviglia:
«Ombra,
per la luce soave
onde
vieni, sosta, ch'io miri
da
presso la tua opulenza.
Come
arbore sei, che curvato
abbia
lungamente i suoi rami
nel
lidio Pattòlo e gravato
ne
sorga e si mesca il metallo
regale
alla polpa dei frutti.
Tanto
adunque sopra la Terra
deserta
d'iddii può la vita
anco
esser ricca, Ombra d'aedo?
Parte
alcuna in te riconosco
di
ciò che fu nostro, se indago;
ed
è la tua parte di gioia,
la
tua purità sorridente.
Ma
innumerevoli sono
le
cose novelle che ignoro,
e
le geniture dei mostri
che
pur non sembran pesare
alla
levità del tuo passo.
Ombra,
non sarà che tu getti
questa
abondanza all'oblìo.
Non
varcherai la riviera.
Qui
farai sosta con meco.
Proteggerti
vuole il Parente
della
Cetra; ché forse
talor
ti sovvenne del dio
Intercessore
ed alcuna
dottrina
apprendesti da lui.
Di
congiugnimenti maestro
fui,
di concordie divine
compositore
sagace,
perito
d'innesti immortali,
per
moltiplicar la mia forza,
aedo,
e la mia conoscenza.
Penetrabile
fui e fecondo.
Come
nella mia dolce Arcadia,
dopo
il verno, ai tepidi giorni
quando
muovon le gemme,
il
colono fende la scorza
dell'arbore
e v'incastra la marza
acciocché
in essa si alligni:
la
pianta inframmessa le vene
sparge
nell'altra e s'appiglia;
vigoreggia
il succhio, il sapore
del
frutto si fa generoso:
così,
con arte inserendo
nella
mia sostanza diverse
deità,
m'accrebbi di varia
potenza,
molteplice ed uno.
La
verginità cruda e invitta
di
Pallade a me collegata
mi
fece più destro in trar prede,
e
nella tetràgona pietra
io
fui pe' mortali Ermatena.
Al
Cintio lungescagliante
ond'ebbi
la verga trifoglia,
cui
diedi la cheli soave,
mi
strinsi con patto fraterno;
e
quindi Ermapòlline fui.
Infondermi
il sangue feroce
dell'uccisore
di mostri,
dell'eroe
muscoloso
dalla
fronte angusta, volli io
Argicida;
e fui Ermeràcle.
E
con altri iddii mi confusi;
né
sdegnai gli iddii bestiali,
dalla
testa di cane, dal becco
di
sparviere, dalle mascelle
di
leone, estrani, onde fui
Ermanubi,
Ermitra, Ermosiri.
Ma
da due comunanze
m'ebbi
più gran copia di forze
segrete
e di gioie profonde
e
di visioni sublimi,
Ombra
d'aedo che ascolti.
M'accomunai
con l'Amore,
col
nume che fu nel principio,
che
sarà nella fine.
Con
Eros confusi il mio sangue,
col
bellissimo fiore
cui
era devota la schiera
sacra
degli efebi tebani;
e
fui pe' mortali Ermeròte.
M'accomunai
col Silenzio
io
signor del discorso
ornato,
dell'insidiosa
facondia.
Ermarpòcrate fui,
col
dito premuto sul labbro
eloquente;
ma tenni
ai
miei piedi il vigile gallo
che
col grido annunzia l'aurora.
Così
tutto attrassi e composi
in
me, tutto abbracciai,
di
congiugnimenti maestro,
perito
d'innesti immortali.
Or
io mi penso, Ombra d'aedo,
che
ben conoscesti quest'arte
tra
gli uomini se cumulata
hai
tanta ricchezza
nell'anima
tua giovenile.
Per
ciò ti concedo che sosti
sul
lito del fiume torpente
e
d'umane cose favelli
col
dio. Non bevere l'onda
obliosa,
ma, se la sete
ti
arda, io voglio offerirti
il
pomo granato che aperse
Core,
di Demetra la figlia
pura,
con le chiare sue dita.
Ne
prese tre soli granelli:
Aidòneo
re sorridea.
Bella
era la bocca di Core».
E
io ti direi rispondendo:
«O
Intercessore benigno,
poiché
tu concedi ch'io teco
favelli
alla riva del Lete
io
tutte le cose dell'uomo
ti
svelerò, esule dio.
Ma
soffri che un'Ombra d'aedo
interroghi
l'alto Parente
della
Cetra! Ermerote
io
ti chiamerò, Ermerote,
bel
sangue commisto d'Amore.
Tu
conducevi Euridice
per
mano su i violetti
asfodilli,
e Orfeo t'era innanzi
coronato
di cipresso
e
di mirto il capo suo d'oro.
E
intorno era sacro silenzio
ma
ad ogni passo silente
gemere
s'udia la gran cetra
sospesa
al fianco d'Orfeo...
Non
così fu, Ermerote?
Sentisti
tu tremare
la
man di colei che traevi
dall'Ade
su i cari vestigi?
E
obliato non hai ogni altro
tremito
di carne mortale
tu
che i miseri uomini ignudi
avvincevi
ai supplizii?
Intorno
era sacro silenzio,
ma
s'udia nel Tartaro lungi
rombare
la ruota aspra d'angui
cui
tu avvincesti Issione.
Ed
ei si volse, ei si volse,
Orfeo
si volse! La donna
perduta
fu, dallo sguardo
perduta!
Ritrarla dovevi
nelle
inesorabili fauci.
Mirasti
i due vólti, e quegli occhi?
Euridice!
Orfeo! Notte eterna.
Ah
parlami di quel dolore,
di
quella bellezza, Ermerote!
E
poi fa ch'io beva l'oblìo.»