Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Laudi
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LIBRO PRIMO - MAIA

1 - Laus vitae

IX.

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IX.

 

E l'Erme prassitelèo

sul fulcro quadrato mi parve

men virile, quasi fior molle

di grazia feminea, quasi

desiderabile amàsio,

andrògina forma venusta,

poi che saziato mi fui

di grandezza e di lutto.

Il torace il ventre ed il pube

non marmo erano ma carne

cedevole. Il nitido capo

dai riccioli corti, recline

verso Diòniso infante,

nella levità del sorriso

e dell'ombre era ambiguo

tra il sogno e la vita, siccome

quel del pastor duplice alato

che guida le anime all'Orco

e il rapito armento al suo antro.

Dai ginocchi agli òmeri in ritmi

leggeri saliva la forza.

 

Ma, poi che da banda mi trassi

e riguardai, la forza

si palesò nella guisa

che l'arco allentato si tende.

I lombi gagliardi, le cosce

nervose, le reni falcate

e salde, la cervice

robusta eran degni del dio

enagònio. Gravando

sul piè manco il peso del corpo

divino, ei reggeva col braccio

inflesso il pargolo ignudo.

Ei giovine assunto alla forma

perfetta portava il nascente

germe inteso a spandersi in gioia,

a sorgere nella pienezza

dell'essere e della potenza.

Così per visibili segni

raffigurata mi parve

nel Divenire Eterno

l'immortalità della Vita.

 

«O figlio di Maia» pregai

«figlio dell'Atlantide Maia

dall'affocata faccia,

che onoro notturna fra gli astri

Pleiade dai sandali belli

dal crin di giacinto, che invoco

fra le sue sorelle celesti,

odimi, o Criseotarso,

Amico degli uomini. Scendi

dal fulcro quadrato,

àrmati del pètaso il capo,

allaccia gli aurei talari

ai mallèoli, teco togli

la verga di tre rampolli,

la lunga clamide, l'arpe

lunata, la borsa capace,

e vieni tra gli uomini. Sei

pur sempre il lor nume operoso,

il dio dal gran cuore, l'artiere

infallibile. Vieni!

Udrai e vedrai maraviglie.

 

O Agorèo, cui piacque

trattar con vólto benigno

i mercatori in piazza

solleciti intorno alle biade

dell'Attica magra, la Terra

è oggi un'àgora immensa

ove non si tendono reti

di belle parole ma guerra

si guerreggia furente

per la ricchezza e l'impero.

Duci di genti son fatti

i tuoi mercatori ingegnosi,

duci inesorabili e insonni

dal breve motto che scrolla

cumuli enormi di forza.

Sul flutto dell'oro

ondeggian le sorti dei regni.

Come l'aere l'acqua ed il fuoco,

fatto è l'oro un periglioso

elemento che ha i suoi nembi,

i suoi vortici, le sue vampe.

 

O Infaticabile, e sonvi

terre novelle, agitate

dall'alito aspro dell'antico

Ocèano, dove l'umana

opera è qual rabida febbre.

Il vento è qual bronzo che squilli,

il vento è qual riso che rida

qual gioia che canti

su la magnificenza e l'onta

degli atti. Il verbo è una lama

aguzzata a duplice taglio.

La gara, che tu proteggevi

nelle fulve palestre,

divora le vie strepitose.

Gli uomini dalla mascella

belluina e dal mento

di selce màsticano l'ansia

qual foglia amara d'alloro.

La Volontà reca intrecciati

a sé il Dominio e il Piacere

come i serpi al tuo caducèo.

 

L'Istinto è un impeto sagliente,

un ariete caloroso

dalle inesauste reni,

che si precipita sopra

la vita e l'assale

e la copre e sì la feconda

reluttante o sommessa.

Passan talora su le rosse

città nuvole di speranze,

quasi tempesta di ali;

e s'empion d'un rombo gli orecchi

degli uomini maraviglioso,

ch'è il rombo degli inni futuri.

Le mammelle irrìgue

della Terra moltiplicarsi

paiono alla cresciuta

avidità della prole.

Il Destino toglie da tutti

gli spazii i suoi limiti, vinto

e respinto per sempre

dalla libertà degli eroi.

 

O Macchinatore, e una stirpe

di ferro, una sorta di schiavi

foggiata nella sostanza

lucente de' clìpei dell'aste

degli schinieri, una serva

moltitudine di Giganti

impigri obbedisce ai fanciulli

e alle femmine, meglio

che su triere veloce

al celeùste la ciurma

unta di olio d'oliva.

E non il flauto né il canto

regola il moto con ritmo

eguale; ma una potenza

che non falla, simile al sano

cuore nel petto dell'uomo,

pulsa in quelle ossature

polite e circola in ogni

membro con giro iterato

accelerando il lavoro.

Gran fremito scuote le case.

 

M'odi. Il gesto del paziente

ilota, che trita la spelta

o il latte agita nel secchio

o scardassa le lane,

s'immilla ne' ferrei bracci

nelle ruote dentate

ne' lunghi cuoi serpentini

che per girevoli dischi

trascorrono propagando

l'impulso ai congegni sottili

onde l'informe sostanza

esce trasfigurata

come da industria sagace

d'innumerevoli dita.

O Erme, i telai della lidia

Aracne diurni e notturni,

ove come rondini argute

volavan le spole,

travagliano senza canzone

di vergine e senza lucerna,

soli in ordin lungo strependo.

 

Il sudore d'Efèsto

su la piastra imposta all'incude

profuso, è ormai vano

o Erme, ché nelle fucine,

come la man puerile

incide la tenera canna

o divide le fibre

del cortice lieve, l'ordigno

facile taglia distende

assottiglia fóra contorce

per mille guise il metallo

ammassato in solidi pani.

Odimi, o Inventore.

E i magli, i magli più vasti

delle rupi che il lacertoso

Ciclope scagliò contra Ulisse

tuo caro, invisibile pugno

solleva e precipita in ritmo

agevolmente come

il fanciullo manda e ribatte

volubile palla per gioco.

 

Gioco di fanciullo era a poppa

del nautico pino il chenisco,

l'anitrella scolpita

nella curva trave spalmata

perché galleggiasse in eterno.

O Erme, nave catafratta

or galleggia e naviga senza

veleremi. Discende

pel pendìo dello scalo

nel mare compagine eccelsa

come cittadella munita,

corbame e fasciame di ferro

testudinato di piastra

a martello più salda

che orbe di settemplice scudo.

Gran torri soperchiano il vallo.

La carena ha un cuore di fuoco

onde creasi la propulsante

virtù dell'ali marine

che tùrbinan sotto la poppa

tra ruota e timone sommerse.

 

Atto alla guerra e alla pace,

minaccioso d'armi tonanti

o dei doni onusto che all'uomo

fa la veneranda Demetra,

il colosso equoreo solca

pèlaghi ed ocèani, varca

gli eurìpi i bòsfori i sacri

istmi che l'uom frale recise

come tu dio con l'arpe

il collo d'Argo tutt'occhi.

Oltre le Caspie Porte,

oltre l'Atlante ove il coro

delle Esperidi per sempre

si tace, oltre la piaggia

del Cinnamomo trapassa.

Lascia l'iperbòreo lito

ove non più danza e canta

Apolline dall'equinozio

di primavera insino

al levar delle Pleiadi

re dei conviti soavi.

 

Di Taprobane a Ierne

di Cerne all'Ocèano Eoo

la sua scìa grande orla i lembi

di quel mondo che t'appariva

nel volo, o Alipede, quale

macedone clamide stesa.

Ma di dalla piaggia d'Eea,

di dall'estremo Occidente,

ove Elio sommerge i cavalli,

trapassa ad attingere un altro

mondo che sotto altre stelle

si giace in duplice forma,

simile a un'ala d'uccello

e simile a un'orsa poggiata

le zampe nell'artico gelo.

E il certo piloto

disegna nell'acque un cammino

ben cognito a tutte le prore,

sì che traccia su traccia

persistevi qual nelle vie

frequenti il solco dei carri.

 

O Egemonio, m'odi.

Nel mare è il certame dei regni.

Il mare implacabile prende

e scevera, senza fallire,

le virtù delle stirpi

nel tempo. Più della terra

antico, nudrito di morti

ma di nascimenti fecondo,

più della terra è bello,

più della terra è sicuro.

I morti non rende, ma rende

l'amore a chi l'ama tenace.

La Speranza che stette

al fianco dell'uomo animoso

curva su la rate pelasga,

la selvaggia compagna

cui contra l'occhio aguzzato

la palpebra rossa

arrovesciavano i vènti,

or fatta è donna imperiale

Thalassia nomata su i vènti.

 

Nel trono ella sta d'Amfitrite.

Catenata sembra la Gloria

tra le sue tempie. Il suo seno

è una primavera anelante.

Il suo palpito si ripercuote

dai golfi e dai bòsfori azzurri

del Mediterraneo Mare

sino ai promontorii nimbosi

della barbarica Ierne.

Bùccine di mille Tritoni

non vincono il chiaro clangore

della sua tromba di bronzo.

L'odono i popoli forti:

cantando l'inno dei Padri,

spingon rivali nel flutto

ruggente le navi di ferro;

ché necessario è navigare,

vivere non è necessario.

Polèna a ogni prora novella

è il cuore vermiglio dell'uomo

inalzato sopra la Morte.

 

Odimi, o Enagonio.

Il Taigeto ha i segugi

più ardenti; ha Sciro le capre

dalle mamme irrigue di latte

più pingue; Argo, le armi;

Tebe, i carri; ma la Sicilia

ferace le quadrighe

magnifiche, i bene bardati

corsieri dal piè di tempesta.

Ne' tuoi stadii l'asse tutt'oro

guizza come folgore in nube.

La Rapidità dalle nari

di fiamma par su le tue mete

lasciar vestigia d'incendio.

Ierone di Siracusa,

Senòcrate di Agrigento,

Cromio d'Etna, fior di Sicilia,

contendon la palma agli Elleni.

Pindaro diademato

offre agli eroi trionfali

la grande coppa dell'inno.

 

Non l'ebrietà della strofe

fronda di quercia d'olivo

di pino s'attendono, o Erme,

i conduttori dei carri

igniti cui circo e vittoria

è l'Orbe terrestre! Nel pugno

non reggon le redini anguste,

non figgono alle cervici

dei cavalli lo sguardo.

Governano ordigni più snelli

che il tèndine equino

ma possenti più ch'epitagma

scagliato nella battaglia.

Scrutano lo spazio ventoso,

i piani i fiumi i monti

che valicheranno. Obbedisce

il pulsante metallo

al tocco infallibile. Foschi

son gli intenti vólti, notturni

come il vólto di Ade re d'Ombre

che trae Persefóne piangente.

 

Traggono il pianto e l'affanno

degli uomini i lor negri carri,

il male degli uomini stretti

e misti nell'alito impuro,

il dolore e tutti i suoi frutti

sopportano, o Erme, il piacere

e i suoi fiori senza radici,

e l'avida gioia

e il desiderio feroce

e gli inestricabili nodi

delle anime chiuse nei corpi

ignavi, e gli intorpiditi

crimini dall'unghie rattratte,

e le volontà rilucenti

nei sogni come in guaine

diàfane, e l'opere nate

da ieri, e i messaggi dei cuori

fraterni, e la copia dei beni

giocondi trasportano, o Erme:

le rose dei liti solari

al gelo dell'Isole Scàndie.

Tonando passano, in lungo

ordin su cento e cento ruote

concordi, con nubi e faville

per traccia, passano a vespro

nei piani onde fuma sommossa

dal diurno travaglio

la fecondità delle glebe.

Sùbita s'aderge in orgoglio

la stanchezza dell'uomo

e guata la porpora immensa

del cielo, ove come in sanguigna

promessa di vita più bella

par che s'addentri col peso

la creatura dell'uomo.

Cade la notte. O perla,

o lacrima d'Espero ardente!

S'accendono i fari. Nei porti

le ciurme si scagliano all'orgia.

Le città splendono di febbri

come un astro è cinto di aloni.

Col rombo il tràino amplia la notte.

 

Odimi, precipite Nunzio,

alto Messaggero celeste.

L'aere notturno e diurno

palpita di umani messaggi.

Commessa al silenzio dell'Etra

la parola attinge i confini

remoti. Serpeggia silente

pei bàratri equorei, sotto

i nettunii pascoli; emerge

lungi perfetta nei segni,

narra gli eventi, conduce

le imprese, congiunge le stirpi,

infèrvora i forti alla gara.

La voce, la voce sonora,

formata dal labbro spirante,

in cavo artificio s'ingolfa,

di sillaba in sillaba vibra

tacitamente lontana,

ravvivasi come in profonda

bùccina e favellare

l'ascolta l'orecchio inclinato.

 

O Viale, come le vene

per entro ai marmi di Sparta

e del Tènaro folte

son le vie frequenti e insuete

ond'è variegata la Terra.

Ma la mobile fiamma,

che tu eccitavi nel petto

del viatore, divampa

e grandeggia in cuor dell'eroe

novello che vede la Gloria

accosciata come la Sfinge

nell'immensità dei deserti

o presso le occulte sorgenti

dei fiumi o su i mari di gelo.

Non di parole tebano

enigma propone la belva

ma chiede, o Erme, la chiave

sacra che vedesti nel pugno

dell'antichissima Gea!

D'ossa lùcono i milliari

degli spaventosi cammini.

 

O Citaredo primo,

tu il bene che supera tutti

désti all'uomo quando la cava

testudine nata nei monti

facesti sonora, le canne

trasverse inserendo nei fóri

tra l'un margine e l'altro,

poi sul graticcio spandendo

la pelle di bue, configgendo

a sommo del guscio i due bracci,

questi poi giugnendo col giogo.

Tra l'osseo giogo e l'estremo

labbro della scaglia montana,

come il nervo tra i corni

dell'arco, tendesti minuge

di agnelli bene attorte.

Sette ne tendesti, o figliuolo

di Maia, per onorare

le Pleiadi belle nell'Etra.

E la tua cheli selvaggia

fu compagna al canto dell'uomo.

Or l'uomo, emulando gli audaci

tuoi spiriti, seppe di legni

di nervi di crini di pelli

d'avorii di metalli

una multiforme crearsi

e multànime gente

canora che popola e gonfia

la profonda orchestra occultata,

ove non più la thyméle

santa òccupa il centro del cerchio

né più presso l'ara l'aulete

dalla phorbéia di cuoio

col duplice flauto accompagna

le strofe e la danza corale.

E non il cristallo del cielo

né il sinuoso velario

acceso dai raggi s'allarga

su la moltitudine intenta;

ma simile ad alto sepolcro

è il notturno teatro

concluso e in sé stesso rimbomba.

 

Come nei mari le prime

onde squammose all'urto

dell'euro inarcan le schiene,

s'ergono e spumano, il rugghio

e il tuono avvicendano a corsa,

di procella tumide in vasti

cumuli precipitando

con un rapimento improvviso;

come nei boschi le prime

faville accendono i coni

aridi, le morte frondi,

crescono in pallide fiamme,

serpeggian pe' vepri, gli arbusti

mordono, il cuor selvaggio

attingono carco d'aromi,

conflagrano subitamente

fragorose verso la nube,

irraggian per tutta la valle

il fulgore e il terrore;

così dall'orchestra prorompe

l'impeto sinfoniale.

 

O Maestro dei Sogni,

m'odi. E i Sogni inani, i tuoi lievi

simulacri della quiete,

le tue mute imagini erranti,

giganteggiano a un tratto

con vólti di bragia,

s'armano d'una ossatura

erculea, grande hanno il fiato

e polsi hanno violenti

per stringere l'anima umana

e scuoterla dalle radici

e svèllerla e darla al ludibrio

dei desiderii! E l'Amore,

o Erme, il giovinetto cnidio

triste come un rogo consunto

ascolta per entro a' capegli

che sono un unguento stillante;

languisce in un freddo sudore;

poi vuota la tazza che gli offre

la Morte, ove tutti i piaceri

spremuti fanno un sol tòsco.

 

Padre d'Ermafrodito,

non tu creasti l'oscuro

Andrògino al far della notte,

ebro di melodìa

in un torrente di suoni

premendo l'amata da tutti

Anadiomene d'oro?

Noi anche, ahi sì brevi, sul lito

d'Eternità sognammo

le mescolanze vietate,

sdegnando di saziarci

pur sempre con la dolcezza

dei consueti giacigli.

L'opera attendemmo diversa,

nata da un'incognita febbre,

fatta di dolore e di gioia,

pallida di ricordanze

ma di presagi animosa,

recante in sé la promessa

e il compimento, sorella

delle Stagioni divine.

 

O Psicagogo, se all'Ade

squallido condurre dovessi

tu l'anima mia, se condurre

dovessi tu l'Ombra del mio

canto su l'asfòdelo prato

incontro a Saffo sublime

dal crin di viola che forse

m'attende, alla riva del Lete

t'indugeresti, io penso,

vedendo in me trasparire

queste tante ignote ricchezze.

E direbbemi alate

parole la tua maraviglia:

«Ombra, per la luce soave

onde vieni, sosta, ch'io miri

da presso la tua opulenza.

Come arbore sei, che curvato

abbia lungamente i suoi rami

nel lidio Pattòlo e gravato

ne sorga e si mesca il metallo

regale alla polpa dei frutti.

 

Tanto adunque sopra la Terra

deserta d'iddii può la vita

anco esser ricca, Ombra d'aedo?

Parte alcuna in te riconosco

di ciò che fu nostro, se indago;

ed è la tua parte di gioia,

la tua purità sorridente.

Ma innumerevoli sono

le cose novelle che ignoro,

e le geniture dei mostri

che pur non sembran pesare

alla levità del tuo passo.

Ombra, non sarà che tu getti

questa abondanza all'oblìo.

Non varcherai la riviera.

Qui farai sosta con meco.

Proteggerti vuole il Parente

della Cetra; ché forse

talor ti sovvenne del dio

Intercessore ed alcuna

dottrina apprendesti da lui.

 

Di congiugnimenti maestro

fui, di concordie divine

compositore sagace,

perito d'innesti immortali,

per moltiplicar la mia forza,

aedo, e la mia conoscenza.

Penetrabile fui e fecondo.

Come nella mia dolce Arcadia,

dopo il verno, ai tepidi giorni

quando muovon le gemme,

il colono fende la scorza

dell'arbore e v'incastra la marza

acciocché in essa si alligni:

la pianta inframmessa le vene

sparge nell'altra e s'appiglia;

vigoreggia il succhio, il sapore

del frutto si fa generoso:

così, con arte inserendo

nella mia sostanza diverse

deità, m'accrebbi di varia

potenza, molteplice ed uno.

 

La verginità cruda e invitta

di Pallade a me collegata

mi fece più destro in trar prede,

e nella tetràgona pietra

io fui pe' mortali Ermatena.

Al Cintio lungescagliante

ond'ebbi la verga trifoglia,

cui diedi la cheli soave,

mi strinsi con patto fraterno;

e quindi Ermapòlline fui.

Infondermi il sangue feroce

dell'uccisore di mostri,

dell'eroe muscoloso

dalla fronte angusta, volli io

Argicida; e fui Ermeràcle.

E con altri iddii mi confusi;

sdegnai gli iddii bestiali,

dalla testa di cane, dal becco

di sparviere, dalle mascelle

di leone, estrani, onde fui

Ermanubi, Ermitra, Ermosiri.

 

Ma da due comunanze

m'ebbi più gran copia di forze

segrete e di gioie profonde

e di visioni sublimi,

Ombra d'aedo che ascolti.

M'accomunai con l'Amore,

col nume che fu nel principio,

che sarà nella fine.

Con Eros confusi il mio sangue,

col bellissimo fiore

cui era devota la schiera

sacra degli efebi tebani;

e fui pe' mortali Ermeròte.

M'accomunai col Silenzio

io signor del discorso

ornato, dell'insidiosa

facondia. Ermarpòcrate fui,

col dito premuto sul labbro

eloquente; ma tenni

ai miei piedi il vigile gallo

che col grido annunzia l'aurora.

 

Così tutto attrassi e composi

in me, tutto abbracciai,

di congiugnimenti maestro,

perito d'innesti immortali.

Or io mi penso, Ombra d'aedo,

che ben conoscesti quest'arte

tra gli uomini se cumulata

hai tanta ricchezza

nell'anima tua giovenile.

Per ciò ti concedo che sosti

sul lito del fiume torpente

e d'umane cose favelli

col dio. Non bevere l'onda

obliosa, ma, se la sete

ti arda, io voglio offerirti

il pomo granato che aperse

Core, di Demetra la figlia

pura, con le chiare sue dita.

Ne prese tre soli granelli:

Aidòneo re sorridea.

Bella era la bocca di Core».

 

E io ti direi rispondendo:

«O Intercessore benigno,

poiché tu concedi ch'io teco

favelli alla riva del Lete

io tutte le cose dell'uomo

ti svelerò, esule dio.

Ma soffri che un'Ombra d'aedo

interroghi l'alto Parente

della Cetra! Ermerote

io ti chiamerò, Ermerote,

bel sangue commisto d'Amore.

Tu conducevi Euridice

per mano su i violetti

asfodilli, e Orfeo t'era innanzi

coronato di cipresso

e di mirto il capo suo d'oro.

E intorno era sacro silenzio

ma ad ogni passo silente

gemere s'udia la gran cetra

sospesa al fianco d'Orfeo...

Non così fu, Ermerote?

 

Sentisti tu tremare

la man di colei che traevi

dall'Ade su i cari vestigi?

E obliato non hai ogni altro

tremito di carne mortale

tu che i miseri uomini ignudi

avvincevi ai supplizii?

Intorno era sacro silenzio,

ma s'udia nel Tartaro lungi

rombare la ruota aspra d'angui

cui tu avvincesti Issione.

Ed ei si volse, ei si volse,

Orfeo si volse! La donna

perduta fu, dallo sguardo

perduta! Ritrarla dovevi

nelle inesorabili fauci.

Mirasti i due vólti, e quegli occhi?

Euridice! Orfeo! Notte eterna.

Ah parlami di quel dolore,

di quella bellezza, Ermerote!

E poi fa ch'io beva l'oblìo

 

 


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