Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
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LIBRO PRIMO - MAIA

1 - Laus vitae

X.

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X.

 

Tornammo alla nave ancorata.

La salutammo nel porto

con ilare grido vedendo

il candido fianco apparire.

Tra le Onerarie ventrose

più snella ci parve, leggera

come fasèlo o liburna.

L'albero la verga le sàrtie

la gran randa i piccoli fiocchi

il bompresso trincato

le commessure del ponte

le boccaporte e le cùbie

e le caviglie e i bozzelli

e tutti gli attrezzi minuti,

canape legno metallo,

amammo di vigile amore

come vena per vena

e nervo per nervo le membra

viventi di fragile amica.

Più che l'odor del mentastro

ci piacque l'odor della nave.

Or un de' cari compagni

recato avea prigioniera

in una gabbia intesta

di giunco una bella cicala

del regno di Pelope Eburno.

E cautamente sospeso

avea quella nassa terrestre

a poppa, e sópravi steso

un ramoscello di pino

reciso nell'Alti; e si stava

in ascolto avendo nel cuore

l'anacreontica lode.

Ma la regina del Canto,

l'ebra di rugiada e di luce,

su l'acqua oleosa del porto

tacevasi attonita all'ombra

dell'ingannevole fronda;

ché il suo luogo è la cima

dell'arbore o l'asta di Atena.

E noi ridevamo il deluso.

«Or téntala dunque col dito

 

Salpammo l'àncora all'alba.

Patre era avvolta di sonno

torbido; ma l'alpi d'Etolia

sorgevano in veste di croco,

quasi Grazie pronte a danzare

sul fiore del Ionio, fasciate

dalla stephàne d'oro.

«Forse, a piè del letto ove giace

la meretrice di Pirgo

invano aspettando il navarca,

Elena figlia del Cigno

s'accoscia e ronfia, nascosta

le mille sue rughe per entro

la grande sua bianca criniera»

pensava taluno di noi

sciogliendo la randa solare

che ben da noi stessi tramata

ci parve, col filo dei sogni.

E vidi il fanciullo nell'Alti,

in mezzo alla strage dei marmi,

ignaro di quella vecchiezza.

 

Il mattutino spiro

ci volse alla porta del golfo

corintio, tra i due promontorii

affrontati come molossi

che senza latrare protesi

già fossero all'impeto ostile

ma d'improvviso irretiti

in non so qual divina

ambage di rosei veli.

E un amore dei monti

indicibile era nei nostri

petti, e riconoscerne i vólti

ignudi e chiamarli per nome

desiderammo. Ogni lume

ogni ombra ogni solco ogni asprezza

ci parve il segno d'un dio,

l'orma d'un eroe, la fatica

d'un uomo, lo sforzo d'un mostro.

E dicevamo: «È il Coràce

forse? è l'Aracinto? il Timfresto?

o il Bomi onde sgorga l'Eveno?».

 

Il vento gonfiava la randa;

e tanto la vela era bella

d'armoniale virtude

che parea la scotta sua forte

dovesse, pulsata da un plettro,

rendere un suono di lira.

E ad ogni istante gli aspetti

dei monti eran nuovi, più dolci

o più aspri. E se un'argentina

conca appariva o un anfratto

ceruleo, l'anima nostra

vi si profondava per gli occhi

bramosa d'attingerne l'imo

come il natatore si scaglia

dall'alto nell'onda ch'egli ama

e sommerso tocca la sabbia

o la radice dell'alga.

Tuttavia perché, nella gioia

e nell'avidità, ci saliva

ai precordii un'ansia intermessa

piegando al cammino ritroso?

 

O amore, amore mai sazio

di conoscere e d'adorare!

Taluno de' cari compagni

dicea: «Non vedremo la bocca

dell'Eveno, e non il suo guado;

non il regno di Deianira,

non in Calidóne la caccia

né la tomba ove corse

delle Meleàgridi il pianto».

Volgevansi a poppa gli sguardi

per la scìa lunga virente.

E l'odore dell'ecatombe

sentimmo, vedemmo l'Etolia

accesa di fùnebri roghi,

la forza di Meleagro

avvinta al tizzo dal Fato,

e Deianira nel fiume

torcersi abbrancata da Nesso,

Eràcle con la saetta

intrisa nel fiele dell'Idra

passare il polmone ferino.

 

E dicemmo: «O Ellade, tutto

in te vige, splende e s'eterna.

Come le barbe degli olivi

per le tue piagge e i tuoi colli,

come i filoni della pietra

ne' tuoi monti, le geniture

dei Miti ancor tengono presa

l'antica virtù del tuo suolo.

La gente che sega le magre

tue messi, o abita le case

vili a piè delle deserte

acropoli, ti disconosce;

e t'è più strània di quella

che tolse i tuoi numi alle fronti

de' tuoi templi in ruina

per trarli mùtili e freddi

nella sua caligine sorda.

Ma i Miti, foggiati di terra

d'aria d'acqua di fuoco

e di passione furente,

sono il tuo popolo vivo.

 

Vivi palpitar li sentimmo

sul nostro cuore umano

stringendoli; e ancóra in segreto

ci dissero qualche inattesa

parola e ci diedero un'arme

per meglio combattere o un ritmo

ci appresero novo

per meglio gioire. Verremo

di gleba in gleba, di selce

in selce noi pellegrini

inchinando il cuor nostro umano

su la deità che l'assempra?

Ahi, l'ora è breve e il vento

volubile, ed è necessario

compiere altri perìpli

finché la carena sia salda;

e a consumabile tizzo

la nostra sorte anco è avvinta.

Ma ad ogni approdo intera

tu sarai nel nostro fervore

qual sei nel tuo triplice mare!».

 

E, come già il Sole era presso

all'ultimo vertice azzurro,

scomparsa a ponente Naupatto

dei Locri, a ostro Egio achea,

ci apparve su l'acque

il promontorio Andromàche

simile a un leone sopito

nel fulvo oro della sua giuba.

Il vento languiva. Bonaccia

grande era intorno. Udivamo

a quando a quando la vela

floscia battere e trepidare

come un cuor moribondo,

il legno per tutte le fibre

alide dell'alidore

celeste risponder con lungo

gemito, guizzare i delfini

sotto la poppa, i falchi

stridere per entro i forami

della rupe aurata. E la voce

di prua mise un grido: «Il Parnasso!».

 

E tutti balzammo a guatare

la faccia d'Apollo apparita;

però che sul tacito specchio

il Monte Castalio, sublime

e roseo, dominatore

d'ogni altra grandezza e pur lene

come se l'onda perenne

del canto spetrata ne avesse

la mole terrestre, assemprava

ai nostri occhi attoniti e puri

l'apparizione diurna

del dio musagète vivente

non qual nella vena del pario

marmo dagli artefici è sculto

a similitudine d'uomo

ma qual forse il videro un tempo

sul verde limite dei paschi

i primi pastori

proteggere i tauri e i cavalli

misteriosa bellezza

levata in sostanza serena.

 

Cadde il vento. Noi tutti

èramo senza parola

fissi alla gran maraviglia.

Sospeso era il Giorno sul nostro

capo. Tutte le cose

tacevano con un aspetto

di eternità. L'occhio solo

era vivo e veggente.

O tregua apollinea, Meriggio!

Qual coro avea chiuso il suo canto

remoto negli echi del mare?

Qual coro traeva il respiro

per dare principio al suo canto?

Coro di Sirene o di Parche?

di Tiadi o di Muse? Il silenzio

era come il silenzio

che segue o precede le voci

delle volontà sovrumane.

Tutta la vita era a noi

quasi tempio lieve senz'ombra,

ch'entrammo non più morituri.

 

O soffio etèsio, respiro

meridiano del grande

Mediterraneo contra

il violento Cane,

sùbito bàttito chioccante

della vela, balzi d'un cuore

che un flutto di sangue riempia,

arco teso un'altra volta

verso inarcati seni,

alacrità delle forze,

fame e sete carnali,

sapore del pane e del vino,

allegrezza dei corpi,

dopo la pausa infinita!

Oltrepassammo Andromàche,

volgendoci al seno crisèo.

Come dietro la negra

nave dei Cretesi di Gnosso

eletti dal Pitio al suo culto,

un delfino agile balzava

nel nostro solco veloce.

 

Disse il Pitio lungescagliante

ai navigatori cretesi:

«Non prèndevi brama del cibo

i precordii, come agli stanchi

uomini suole avvenire

quando negra nave s'ormeggi?».

Seduti a poppa in corona

noi avemmo ulive addolcite,

pesci pescati col giacchio

spiranti salsedine, caci

molli che serbavano ancóra

l'impronta dei vimini, fichi

degni d'aver patria in Egina

con l'ombelico melato

di gomma, bionde uve sugose,

vini chiari aulenti di pino

rinfrescati in vasi d'argilla

appesi alle sàrtie, e la calda

màstica che dentro una goccia

ha tutte le estati di Chio

ricca in dolci donne e in lentischi.

 

All'ombra della gran randa

giocondamente mangiammo

e bevemmo, in conspetto

del gèmino Monte che il muto

splendor del meriggio velava.

Non era visibile a noi

l'altra cima: quella ch'è sacra

al Semelèio effrenato,

alla deità delirante:

Nisa, la cima notturna.

Ma l'allegrezza nel sangue

fervere sentimmoforte

che per le nostre membra

pieghevoli corse improvvisa

inquietudine, quasi

desiderio di danza

furente e d'insano clamore.

E due dei cari compagni

sorsero e balzaron sul bordo

co' piedi nudi a gara

di destrezza in giochi rischiosi.

 

Ed io pensai nel mio cuore

gli antichi portenti appariti

ai corsali tirreni

quando per la còncava nave

gorgogliò vino odorato

e per la vela si sparse

alta racemìfera vite

e l'edera l'albero avvolse

di corimbi e s'ebbe corona

ogni scalmo. «O Cirra, o Nisa,

vertici dell'anima umana,

sommità del canto sereno,

culmine dell'acre delirio,

in breve ora noi v'attingemmo!

Il chiaro silenzio adorammo

ove l'ultima nota

tremava del coro febèo.

L'impeto selvaggio, che rende

immemori l'Evie nell'orgia,

or ecco sentiamo in confuso

rompere dal torbido sangue

 

E, la mia frenesia

nel petto profondo constretta,

io stava pensoso dell'uno

e dell'altro mistero;

quando udii stridor lieve l'aria

fendere. Tesi l'orecchio

in ascolto; e vennemi al labbro

il sorriso, ché noto il suono

m'era. «O Apollo, nel giorno

tu vinci!» E la stridula voce

oscillò qual canna fenduta

nel vento; poi prese più forza,

palpitò, si fece canora,

da poppa a prua chiaramente

s'udì sopra il croscio dell'acque.

«La cicala! Udite, compagni,

la cicala che canta

gridai divenuto fanciullo

nell'allegrezza. E tutti

accorsero i cari compagni

intorno alla gabbia di giunco.

 

E, senza strepito, quivi

stemmo intenti come dinanzi

a famoso aedo; sì nova

ci parve sul mare la voce

agreste e sì novo l'aspetto

della creatura vocale

che non ha carne e non sangue

e ignora i mali e il dolore,

simigliante quasi ai Superni.

Negra ma d'una cinerina

lanugine ell'era coperta,

che lucea qual serica veste;

e grand'occhi avea due, protesi,

ma tre più piccoli, rossi

come le bacche cruente

d'autunno, in esiguo corimbo

a sommo del capo; e lunghe ali

di tenue vetro nervute

di foschi rilievi, il torace

sparso di màcule, fatto

di anella il mirabile addòme.

 

Ognuno guatar la silvana

ospite della nave

parendo com'àugure incerto,

facea più fraterni

più giovani e vividi i vólti

l'ingenuità del sorriso

inclinato. Io l'àugure finsi.

«Compiremo il periplo

nel segno e nel nome d'Apollo;

e guiderà la Cicala

sacra, dal golfo crisèo

insino alle acque di Delo,

gli Apolloniasti d'Italia.

Si nutrirà di glauca

salsedine, appesa alla prora,

in cella di giunco marino

E sul lido ricurvo

la Fòcide piena del nume

era vaporata d'olivi

come di tripodi mille,

dinanzi alla nostra allegrezza.

 

 


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