X.
Tornammo
alla nave ancorata.
La
salutammo nel porto
con
ilare grido vedendo
il
candido fianco apparire.
Tra
le Onerarie ventrose
più
snella ci parve, leggera
come
fasèlo o liburna.
L'albero
la verga le sàrtie
la
gran randa i piccoli fiocchi
il
bompresso trincato
le
commessure del ponte
le
boccaporte e le cùbie
e
le caviglie e i bozzelli
e
tutti gli attrezzi minuti,
canape
legno metallo,
amammo
di vigile amore
come
vena per vena
e
nervo per nervo le membra
viventi
di fragile amica.
Più
che l'odor del mentastro
ci
piacque l'odor della nave.
Or
un de' cari compagni
recato
avea prigioniera
in
una gabbia intesta
di
giunco una bella cicala
del
regno di Pelope Eburno.
E
cautamente sospeso
avea
quella nassa terrestre
a
poppa, e sópravi steso
un
ramoscello di pino
reciso
nell'Alti; e si stava
in
ascolto avendo nel cuore
l'anacreontica
lode.
Ma
la regina del Canto,
l'ebra
di rugiada e di luce,
su
l'acqua oleosa del porto
tacevasi
attonita all'ombra
dell'ingannevole
fronda;
ché
il suo luogo è la cima
dell'arbore
o l'asta di Atena.
E
noi ridevamo il deluso.
«Or
téntala dunque col dito!»
Salpammo
l'àncora all'alba.
Patre
era avvolta di sonno
torbido;
ma l'alpi d'Etolia
sorgevano
in veste di croco,
quasi
Grazie pronte a danzare
sul
fiore del Ionio, fasciate
dalla
stephàne d'oro.
«Forse,
a piè del letto ove giace
la
meretrice di Pirgo
invano
aspettando il navarca,
Elena
figlia del Cigno
s'accoscia
e ronfia, nascosta
le
mille sue rughe per entro
la
grande sua bianca criniera»
pensava
taluno di noi
sciogliendo
la randa solare
che
ben da noi stessi tramata
ci
parve, col filo dei sogni.
E
vidi il fanciullo nell'Alti,
in
mezzo alla strage dei marmi,
ignaro
di quella vecchiezza.
Il
mattutino spiro
ci
volse alla porta del golfo
corintio,
tra i due promontorii
affrontati
come molossi
che
senza latrare protesi
già
fossero all'impeto ostile
ma
d'improvviso irretiti
in
non so qual divina
ambage
di rosei veli.
E
un amore dei monti
indicibile
era nei nostri
petti,
e riconoscerne i vólti
ignudi
e chiamarli per nome
desiderammo.
Ogni lume
ogni
ombra ogni solco ogni asprezza
ci
parve il segno d'un dio,
l'orma
d'un eroe, la fatica
d'un
uomo, lo sforzo d'un mostro.
E
dicevamo: «È il Coràce
forse?
è l'Aracinto? il Timfresto?
o
il Bomi onde sgorga l'Eveno?».
Il
vento gonfiava la randa;
e
tanto la vela era bella
d'armoniale
virtude
che
parea la scotta sua forte
dovesse,
pulsata da un plettro,
rendere
un suono di lira.
E
ad ogni istante gli aspetti
dei
monti eran nuovi, più dolci
o
più aspri. E se un'argentina
conca
appariva o un anfratto
ceruleo,
l'anima nostra
vi
si profondava per gli occhi
bramosa
d'attingerne l'imo
come
il natatore si scaglia
dall'alto
nell'onda ch'egli ama
e
sommerso tocca la sabbia
o
la radice dell'alga.
Tuttavia
perché, nella gioia
e
nell'avidità, ci saliva
ai
precordii un'ansia intermessa
piegando
al cammino ritroso?
O
amore, amore mai sazio
di
conoscere e d'adorare!
Taluno
de' cari compagni
dicea:
«Non vedremo la bocca
dell'Eveno,
e non il suo guado;
non
il regno di Deianira,
non
in Calidóne la caccia
né
la tomba ove corse
delle
Meleàgridi il pianto».
Volgevansi
a poppa gli sguardi
per
la scìa lunga virente.
E
l'odore dell'ecatombe
sentimmo,
vedemmo l'Etolia
accesa
di fùnebri roghi,
la
forza di Meleagro
avvinta
al tizzo dal Fato,
e
Deianira nel fiume
torcersi
abbrancata da Nesso,
Eràcle
con la saetta
intrisa
nel fiele dell'Idra
passare
il polmone ferino.
E
dicemmo: «O Ellade, tutto
in
te vige, splende e s'eterna.
Come
le barbe degli olivi
per
le tue piagge e i tuoi colli,
come
i filoni della pietra
ne'
tuoi monti, le geniture
dei
Miti ancor tengono presa
l'antica
virtù del tuo suolo.
La
gente che sega le magre
tue
messi, o abita le case
vili
a piè delle deserte
acropoli,
ti disconosce;
e
t'è più strània di quella
che
tolse i tuoi numi alle fronti
de'
tuoi templi in ruina
per
trarli mùtili e freddi
nella
sua caligine sorda.
Ma
i Miti, foggiati di terra
d'aria
d'acqua di fuoco
e
di passione furente,
sono
il tuo popolo vivo.
Vivi
palpitar li sentimmo
sul
nostro cuore umano
stringendoli;
e ancóra in segreto
ci
dissero qualche inattesa
parola
e ci diedero un'arme
per
meglio combattere o un ritmo
ci
appresero novo
per
meglio gioire. Verremo
di
gleba in gleba, di selce
in
selce noi pellegrini
inchinando
il cuor nostro umano
su
la deità che l'assempra?
Ahi,
l'ora è breve e il vento
volubile,
ed è necessario
compiere
altri perìpli
finché
la carena sia salda;
e
a consumabile tizzo
la
nostra sorte anco è avvinta.
Ma
ad ogni approdo intera
tu
sarai nel nostro fervore
qual
sei nel tuo triplice mare!».
E,
come già il Sole era presso
all'ultimo
vertice azzurro,
scomparsa
a ponente Naupatto
dei
Locri, a ostro Egio achea,
ci
apparve su l'acque
il
promontorio Andromàche
simile
a un leone sopito
nel
fulvo oro della sua giuba.
Il
vento languiva. Bonaccia
grande
era intorno. Udivamo
a
quando a quando la vela
floscia
battere e trepidare
come
un cuor moribondo,
il
legno per tutte le fibre
alide
dell'alidore
celeste
risponder con lungo
gemito,
guizzare i delfini
sotto
la poppa, i falchi
stridere
per entro i forami
della
rupe aurata. E la voce
di
prua mise un grido: «Il Parnasso!».
E
tutti balzammo a guatare
la
faccia d'Apollo apparita;
però
che sul tacito specchio
il
Monte Castalio, sublime
e
roseo, dominatore
d'ogni
altra grandezza e pur lene
come
se l'onda perenne
del
canto spetrata ne avesse
la
mole terrestre, assemprava
ai
nostri occhi attoniti e puri
l'apparizione
diurna
del
dio musagète vivente
non
qual nella vena del pario
marmo
dagli artefici è sculto
a
similitudine d'uomo
ma
qual forse il videro un tempo
sul
verde limite dei paschi
i
primi pastori
proteggere
i tauri e i cavalli
misteriosa
bellezza
levata
in sostanza serena.
Cadde
il vento. Noi tutti
èramo
senza parola
fissi
alla gran maraviglia.
Sospeso
era il Giorno sul nostro
capo.
Tutte le cose
tacevano
con un aspetto
di
eternità. L'occhio solo
era
vivo e veggente.
O
tregua apollinea, Meriggio!
Qual
coro avea chiuso il suo canto
remoto
negli echi del mare?
Qual
coro traeva il respiro
per
dare principio al suo canto?
Coro
di Sirene o di Parche?
di
Tiadi o di Muse? Il silenzio
era
come il silenzio
che
segue o precede le voci
delle
volontà sovrumane.
Tutta
la vita era a noi
quasi
tempio lieve senz'ombra,
ch'entrammo
non più morituri.
O
soffio etèsio, respiro
meridiano
del grande
Mediterraneo
contra
il
violento Cane,
sùbito
bàttito chioccante
della
vela, balzi d'un cuore
che
un flutto di sangue riempia,
arco
teso un'altra volta
verso
inarcati seni,
alacrità
delle forze,
fame
e sete carnali,
sapore
del pane e del vino,
allegrezza
dei corpi,
dopo
la pausa infinita!
Oltrepassammo
Andromàche,
volgendoci
al seno crisèo.
Come
dietro la negra
nave
dei Cretesi di Gnosso
eletti
dal Pitio al suo culto,
un
delfino agile balzava
nel
nostro solco veloce.
Disse
il Pitio lungescagliante
ai
navigatori cretesi:
«Non
prèndevi brama del cibo
i
precordii, come agli stanchi
uomini
suole avvenire
quando
negra nave s'ormeggi?».
Seduti
a poppa in corona
noi
avemmo ulive addolcite,
pesci
pescati col giacchio
spiranti
salsedine, caci
molli
che serbavano ancóra
l'impronta
dei vimini, fichi
degni
d'aver patria in Egina
con
l'ombelico melato
di
gomma, bionde uve sugose,
vini
chiari aulenti di pino
rinfrescati
in vasi d'argilla
appesi
alle sàrtie, e la calda
màstica
che dentro una goccia
ha
tutte le estati di Chio
ricca
in dolci donne e in lentischi.
All'ombra
della gran randa
giocondamente
mangiammo
e
bevemmo, in conspetto
del
gèmino Monte che il muto
splendor
del meriggio velava.
Non
era visibile a noi
l'altra
cima: quella ch'è sacra
al
Semelèio effrenato,
alla
deità delirante:
Nisa,
la cima notturna.
Ma
l'allegrezza nel sangue
fervere
sentimmo sì forte
che
per le nostre membra
pieghevoli
corse improvvisa
inquietudine,
quasi
desiderio
di danza
furente
e d'insano clamore.
E
due dei cari compagni
sorsero
e balzaron sul bordo
co'
piedi nudi a gara
di
destrezza in giochi rischiosi.
Ed
io pensai nel mio cuore
gli
antichi portenti appariti
ai
corsali tirreni
quando
per la còncava nave
gorgogliò
vino odorato
e
per la vela si sparse
alta
racemìfera vite
e
l'edera l'albero avvolse
di
corimbi e s'ebbe corona
ogni
scalmo. «O Cirra, o Nisa,
vertici
dell'anima umana,
sommità
del canto sereno,
culmine
dell'acre delirio,
in
breve ora noi v'attingemmo!
Il
chiaro silenzio adorammo
ove
l'ultima nota
tremava
del coro febèo.
L'impeto
selvaggio, che rende
immemori
l'Evie nell'orgia,
or
ecco sentiamo in confuso
rompere
dal torbido sangue.»
E,
la mia frenesia
nel
petto profondo constretta,
io
stava pensoso dell'uno
e
dell'altro mistero;
quando
udii stridor lieve l'aria
fendere.
Tesi l'orecchio
in
ascolto; e vennemi al labbro
il
sorriso, ché noto il suono
m'era.
«O Apollo, nel giorno
tu
vinci!» E la stridula voce
oscillò
qual canna fenduta
nel
vento; poi prese più forza,
palpitò,
si fece canora,
da
poppa a prua chiaramente
s'udì
sopra il croscio dell'acque.
«La
cicala! Udite, compagni,
la
cicala che canta!»
gridai
divenuto fanciullo
nell'allegrezza.
E tutti
accorsero
i cari compagni
intorno
alla gabbia di giunco.
E,
senza strepito, quivi
stemmo
intenti come dinanzi
a
famoso aedo; sì nova
ci
parve sul mare la voce
agreste
e sì novo l'aspetto
della
creatura vocale
che
non ha carne e non sangue
e
ignora i mali e il dolore,
simigliante
quasi ai Superni.
Negra
ma d'una cinerina
lanugine
ell'era coperta,
che
lucea qual serica veste;
e
grand'occhi avea due, protesi,
ma
tre più piccoli, rossi
come
le bacche cruente
d'autunno,
in esiguo corimbo
a
sommo del capo; e lunghe ali
di
tenue vetro nervute
di
foschi rilievi, il torace
sparso
di màcule, fatto
di
anella il mirabile addòme.
Ognuno
guatar la silvana
ospite
della nave
parendo
com'àugure incerto,
facea
più fraterni
più
giovani e vividi i vólti
l'ingenuità
del sorriso
inclinato.
Io l'àugure finsi.
«Compiremo
il periplo
nel
segno e nel nome d'Apollo;
e
guiderà la Cicala
sacra,
dal golfo crisèo
insino
alle acque di Delo,
gli
Apolloniasti d'Italia.
Si
nutrirà di glauca
salsedine,
appesa alla prora,
in
cella di giunco marino.»
E
sul lido ricurvo
la
Fòcide piena del nume
era
vaporata d'olivi
come
di tripodi mille,
dinanzi
alla nostra allegrezza.