XI.
Con
un alberetto volante
e
sue sartiette arridate
a
mano, il palischermo
attrezzammo
a vela latina.
Ciascun
de' compagni a vicenda
governò
la scotta o il timone.
Le
baie le conche i recessi
del
parnassio mare esplorammo,
or
chini su l'acqua ove l'ombra
nostra
era un miracolo verde,
or
sottovento seduti
fuori
banda sopra gli scalmi
coi
piedi immersi nel sale,
or
tratti per la gomenetta
dell'àncora
dietro la poppa
nella
scìa che ci levigava
la
carne con una carezza
innumerevole,
or al fondo
sopra
le stuoie supini
in
un sonno ch'era ogni volta
una
voluttà sconosciuta.
Acqua
marina, mollezza
di
cinti insolubili, sguardo
venereo
della segreta
profondità,
riso d'abisso,
lasciva
sorella dell'aria,
madre
della nuvola, come
ti
loderò? Ogni baia
ogni
conca ogni recesso
ci
parve più bello. Dicemmo:
«Ah
chi mai vide ne' giorni
una
maraviglia più lieta?».
E
desiderammo ancorare
per
quivi obliar nostri amori
scrutando
le mille figure
dell'acqua.
Ma l'ancoraggio
contiguo
ebbe più dilettose
figure,
colori più novi,
odori
più freschi. Dicemmo:
«Ecco
il limite. I sensi
non
gioiranno più oltre».
E
il limite fu superato.
Arene
gemmee come
tritume
di gemme, ceppaie
d'alghe,
chiari coralli,
fuchi
di porpora, negre
ulve,
tra fango e sabbia
flessibili
intrichi di lunghe
erbe
ove abbonda la greggia
dei
pesci, io compresi quel nome
che
i pescatori tirreni
usan
per lode alla valle
del
mare onde traggono prede
più
ricche: Armonia!
Noi
non gittammo le reti,
non
adoprammo le nasse;
non
prendemmo il grongo di carne
soave,
né lo scombro
tondo
di cerula pelle
sospendemmo
con le sue branchie
al
vimine, pei delicati
sacerdoti
di Delfo.
Ma
di voi gioimmo, Armonie!
Chi
mi consolerà, mentre
vivo
sotto cieli pur dolci,
chi
mi consolerà dei soli
spenti,
dei giorni caduti?
Poggi
di Fiesole, chiari
sono
i vostri ulivi e foschi
i
vostri cipressi, e i ciriegi
i
mandorli i meli son bianchi
son
rosei negli orti di Verde-
spina
e di Laudòmia murati,
oggi
che la Primavera
improvvisa
coglie alle spalle
il
lanoso Febbraio
e
con la sua tepida forza
rivèrsagli
il capo e gli chiude
le
palpebre con le sue dita
che
auliscono di rosmarino,
per
baciarlo in bocca e fuggire.
Bellosguardo,
io certo dimane
verrò
ne' rosai che tu porti
carichi
di rose ancor chiuse.
Ben
so che i bocciuoli saranno
come
i capézzoli gonfii
della
pubescente. Ma forse
bianca
sarà la tua prima
rosa
fiorita su pel ferro
onde
pende nel pozzo
la
secchia loquace. O collina
dell'Incontro,
per la finestra
ti
veggo tutta rosata
non
come le rose ma come
i
fiori dell'erica, tanto
sono
leggere le selve
de'
tuoi querciuoli vestite
ancor
della fronda autunnale
che
un poco rosseggia e per entro
vi
si scorge il tenero verde!
O
Poggio Gherardo, le vecchie
tue
mura gialleggiano come
su
i nodi delle viti
il
lichene. E sta Vincigliata
morta
in un negrore di lance.
Odo
i colpi iterati
dei
ronchetti, odo le cesoie
dei
potatori. Uomini veggo
poggiar
le scale ai tronchi,
salire,
attendere all'opra.
Tanta
è la bontà della terra
che
forse i sermenti recisi
a
piè degli arbori mondi
non
periranno ma forse
faranno
radici. Pur fende
la
terra ancor qualche aratro,
e
splendono i buoi tra gli olivi
e
tra gli oppi: chiuse han le froge
nelle
gabbie di giunco
perché
ghiotti son di germogli
e
cimare osano i rametti
se
passan rasente, bramosi
fors'anco
di quelle vermene
che
sorgon per nesto in corona
dalle
piaghe dei tronchi
spalmate
di màstice roggio.
Il
bifolco gli incìta;
e
certo egli è roco, già vecchio.
Ma
oggi la voce dell'uomo
è
d'una dolcezza infinita
in
questo silenzio: ogni suono
ha
una risonanza infinita
quasi
che non tanto nell'aere
vibri
ma e nelle glebe
e
in tutte le specie dei corpi.
Odo
talor stridore
come
di lima sottile
che
ferro morda. È colei
dai
piedi azzurrigni? colei
che
su ciascuna sua tempia
ha
un candido segno, una nera
zona
a mezzo il petto pugnace?
la
cingallegra selvaggia?
Nel
cavo dell'arbore aduna
già
le lanugini molli
ma
par che in aerea fucina
l'amor
suo duri aspro travaglio.
San
Miniato, ora il Sole
si
piega verso la tua faccia
graziosa
e abbaglia il dolente
tuo
dio che non l'ama. Si leva
dall'Arno
un vapore di perla
e
si diffonde pe' campi
ove
rilucono i fossi
colmi
dell'acqua piovana;
ma
il fumo dei tetti campestri
ceruleo
par tuttavia.
L'Incontro
s'indora e invermiglia:
cangia
le sue querci in coralli;
ma
la Vallombrosa remota
è
tutta di violette
divina,
apparita in un valco
che
tra due colli s'insena
ah
sì dolce alla vista
che
tepido pare e segreto
come
l'inguine della Donna
terrestra
qui forse dormente,
onde
quest'anelito esala.
E
odo, se ascolto, venire
di
Rovezzano il rombo
delle
mulina che il vecchio
fromento
convertono in fresca
farina,
ma pe' solchi
tremano
i fili del novo
fromento
e con lor treman l'ombre,
e
non si distingue il fil verde
dall'ombra
sua cerula, e tutto
è
un tremolio verdazzurro
che
parmi aver quasi ai precordii.
E
certo la noce bronzina
che
nel cipressetto riluce
m'è
cara, e l'orma essiccata
nella
redola verde
che
ieri fu molle di pioggia,
e
la pendula chiave
che
più non mi chiude il verziere
dal
dì che nel suo rugginoso
cannello
mellificò l'ape
come
in celletta di bugno.
Molto
al mio cuore son care
le
cose che odo, che veggo;
e
forse tutti i roseti
tralascerò
per quel solo
anèmone
aperto sul ciglio
del
campo! E le campane
della
preghiera servile,
il
suono che vien di Rimaggio
di
Candeli di Monteloro,
anche
amerò per una nova
imagine,
o Primavera,
che
or mi nasce guardando
te
sopra le file degli oppi.
Simili
a concave mani
di
nodose dita son gli oppi,
che
reggono tenui sfere
cristalline;
e tu vi trascorri
sopra
e le tocchi traendo
da
ciascuna fila un accordo
sì
dolce che dal ciel sgorgar fa
Espero,
la lacrima prima.
O
Primavera, o Poesia,
in
questa dolcezza m'indugio
per
consolarmi e sorrido.
E
certo laggiù, nella casa
che
biancheggia a mezzo del colle,
gli
infermi sorridono anch'elli
beati
con povere vene
al
davanzale che il Sole
riscalda,
e dietro hanno i letti
ove
si giacquero in doglia
e
l'odor dei farmachi amari.
Ma
la ricordanza immortale
d'una
bellezza più maschia,
d'una
voluttà più possente,
mi
brucia, mi crucia. E il rinato
pane
che trema ne' retti
solchi
non mi vale quel lembo
di
suol rossastro fra crudi
sassi,
ove struggemmo col fuoco
la
stoppia e gli aròmati forti
per
profumar nostra sera.
Biancheggiano
gli escrementi
dei
falchi su pe' macigni
di
quella caverna montana
ricovero
ai greggi e agli uccelli
rapaci,
dove sitibondi
scoprimmo
la vena dell'acqua?
Sì
chiara che n'ebbi certezza
sol
quando v'immersi le mani,
si
fredda che quando la bevvi
mi
dolse la nuca pel gelo.
O
Fedriadi ardenti
come
due scaglie cadute
da
Sirio, la vostra sublime
aridità
nel meriggio
m'accecò
gli occhi del vólto
ma
tutti i miei spirti agitati,
come
sul vaporante
spiracolo
i capri dell'ansio
Coreta,
balzarono in fiero
tumulto
e qual sangue d'aurore
videro
il vermiglio avvenire.
Fumano
ancor sul Cirfi
i
roghi? La sfinge di Nasso
decapitata
ma alata
protende
le branche sul sacro
cammino?
Le tre danzatrici
dalle
mammelle corrose
danzano
ancóra intorno
alla
colonna fogliuta
di
acanti? Filano ancóra
sotto
i due platani vasti
le
donne focesi, dinanzi
al
Fonte Castalio, vestite
d'azzurro?
Non la pietra
umbilicale
dell'Orbe
ma
invano cercai nella polve
la
tomba del figlio d'Achille!
E
non volli altro letto
per
la mia delfica notte
se
non la terra presàga
tra
i due platani vasti
chiomati
di fronde e di stelle.
Vedute
io le avea, nella sera
purpurea,
silenziose
emergere
dalla durezza
dell'antro.
Miste alla roccia,
come
le imagini sculte
nelle
metòpi dei templi,
si
tacevano in cerchio
le
Castàlidi; e gli occhi
lor
grandi eran fisi, il Passato
il
Presente il Futuro
con
un solo sguardo abbracciando.
Prigioni
del sasso per sempre
eran elle? I piedi leggeri
che
tessuto aveano in figure
di
danza la fresca bellezza
del
mondo, i bei piedi leggeri
di
Terpsicòre constretti
eran
nell'inerzia rupestre?
Dal
nudo macigno agguagliate
mi
sparvero. Ma le rividi
libere
nel sogno ch'io m'ebbi.
Venivan
per le vie de' vènti
com'aquile
senza nido
nell'alba
a volo, nell'alba
crepitante
di mille
e
mille fiaccole accese
che
i Distruttori e i Creatori
squassavano
in pugno gridando
di
gioia coi lordi capelli
coperti
di bianca rugiada,
con
le calcagna gravi
d'umida
zolla e di foglie.
Come
stuol d'aquile senza
nido,
venivan le nove
Castàlidi
a volo nell'alba,
lacere
i pepli, sconvolte
le
chiome, odorate di sangue
e
d'incendio, ebre di risa
e
di pianti, tumultuose
di
forze atroci e d'amori
ineffabili,
piene
i
polsi di ritmi discordi.
Venivano
dai porti
inferni
ove tutte le lingue
umane
suonan fra tutti
i
gemiti e i rùgghii del ferro
domato;
venivano dalle
città
di lucro ove la vita
cupida
senza schiuma
e
senza sudore s'affretta
su
le rotaie corusche,
stride
su la gèmina lama
che
non ha guaina né punta.
Visitato
aveano le folte
moltitudini,
udito
aveano
i canti feroci
della
fame e della vendetta,
bevuto
aveano gli inni
di
libertà, gli epinicii
dell'Uomo
non coronato
che
con salde rèdini intorno
all'Orbe
conduce in trionfo
la
quadriga degli Elementi.
E
nella rossa fornace
ove
struggevasi un fiume
di
bronzo pel simulacro
d'un
eroe senza clava
liberatore
del Mondo,
nella
fornace di gloria
gittato
avea Calliòpe
le
tavolette cerate
e
lo stilo, Melpomène
la
maschera dalla gran bocca,
Urania
la sfera celeste,
Euterpe
i due flauti eburni,
Terpsicòre
il chiaro eptacordo,
Tàlia
l'ellera, Èrato il mirto,
l'annunziatrice
Clio
il
breve infinito volume,
Polinnia
una foglia d'alloro
già
morduta nella sua corsa
per
temprar con l'aonio
aroma
il lezzo febbroso
delle
moltitudini folte.
E
venivano a stormo
le
Vergini figlie di Zeus
com'aquile
senza nido,
affaticate
dal peso
delle
bellezze raccolte
ne'
lor vasti seni, agitate
dalle
forze novelle
che
facean tremar come l'alte
colonne
d'un tempio crollante
i
lineamenti solenni
del
Passato nel lor pensiere
verecondo.
Ed erano ardenti
di
fecondità, agognanti
di
generare una gioia
una
potenza e un amore
sovrumani
per l'Uomo,
di
trarre una vita divina
dalla
faticosa materia
che
gorgogliava nell'Orbe
come
quel fiume di bronzo
in
quella fornace di gloria.
E
su la cima d'un'alpe,
che
non era Libètro
né
Parnasso né Elicona,
si
posarono ansanti
nell'imminenza
dell'opra.
Non
intonarono l'inno.
Il
Coro d'Apolline stette
silenzioso
nell'alba,
fiso
allo spettacolo immenso.
Passavano
senz'ombre
su
le inviolabili fronti
le
nubi in cui la certezza
del
Sol nascituro
era
già luce, era già fiamma.
Pel
grembo intatto dell'alpe,
che
chiudea le moli profonde
del
marmo, sacre ai colossi
ai
templi ai teatri novelli,
crosciavan
le sorgenti,
aulivano
i cèspiti, i covi
i
favi i nidi parlavano.
«Euplete!
Eurètria!» S'udiva
sul
grido dei Portatori
di
fuoco irrompere a quando
a
quando un nome invocato
come
il benefico nome
d'una
deità imminente.
«Energèia!»
Fuggito
dagli
occhi umani era il sonno
bestiale
della stanchezza.
Libere
eran tutte le braccia
dal
travaglio servile,
libere
per l'ornamento
del
mondo. La cieca materia,
animata
dal ritmo
esatto,
operava indefessa
su
la cieca materia;
l'ordegno
tenea su l'ordegno
la
vece dell'uomo. Il supplizio
carnale
era bandito
per
sempre, il Dolore assumendo
l'aspetto
d'un re soggiogato.
L'ebrietà
della forza
chiedea
di placarsi nei riti
dell'Arte,
nelle preghiere
unanimi
verso le Forme
perfette,
nell'innocenza
del
rivelato Universo,
nel
giovenile fonte
dei
Miti innovati. Un immenso
desiderio
di festa
traeva
gli uomini, franchi
dalla
notte e dalle fatiche,
alle
pianure ove i morti
eran
sepolti, lungh'essi
i
fiumi paterni che al mare
portano
su l'onda perenne
l'immortalità
delle stirpi
feraci.
Tutte le braccia,
pronte
a crear la bellezza,
volsero
le fiaccole al suolo
spegnendole
innanzi alla Luce
raggiante
per tutte le cime.
E
un rombo confuso di canti
inauditi
sonava
nelle
moltitudini asperse
di
rugiada. E l'attesa
della
Poesia palpitava
nelle
moltitudini come
l'innumerevole
riso
del
desìo marino che s'alza
con
le mille labbra dell'onda
verso
il Sole per divenire
aere,
altezza, via di luce,
luce
egli stesso infinita.
E
le nove antiche Sorelle
non
intonarono l'inno!
Sotto
le nubi infiammate
dall'aurora,
non con argilla
ma
con la sostanza sublime
che
nata era in elle dall'urto
del
conoscimento vitale,
crearon
per l'uomo una Voce
più
bella del Coro castalio.
Aquile
senza nido
ripresero
il volo, dall'alpe
balzarono
a sommo del cielo,
un
attimo stettero immote
simili
a costellazione
vermiglia;
poi contra il fulgore
del
Sol nascente, verso il Mare
virgineo
come la prima
foglia
del giovinetto salce
(oh
soavità dell'eterna
grandezza!)
si volsero avvinte
per
le flessibili mani
in
quell'atto lor consueto
che
usavan danzando al cospetto
di
Apolline. E niuno vide
se
risero o piansero. Vidi
ben
io ma tacere m'è caro.
Inclinate
il fianco sul vento,
alte
melodie non udite,
senza
traccia sparvero in coro
le
nove antiche Sorelle.
E
la nomata nel grido
Euplete
Eurètria Energèia,
la
nomata nel grido
umano
coi nomi divini
delle
plenitudini e delle
virtù,
l'invocata da tutti
nell'alba,
la decima Musa
apparì,
discese dal monte
in
mezzo agli uomini. E da prima
non
tutti la videro quivi;
ma
credetter forse che il fiato
d'una
primavera improvvisa
li
soffocasse d'amore,
e
ne tremarono. Io
la
vidi. E mi parve che il sangue
m'abbandonasse
e corresse
fumido
sotto i piedi
della
vegnente a invermigliarne
i
vestigi, e che spoglia
dell'ossa
quest'anima mia
s'ergesse
qual candida fiamma.
Dissi:
«Euplete, decima Musa,
piena
come l'onda che giunge
dopo
l'onda nona sul lido,
gagliarda
come il flutto
decumano,
o Antica, o Novella,
m'odi
per i giorni e per l'opre,
m'odi
per le mie notti insonni
già
calde di te non creata!
Per
la mia febbre, per gli astri,
pei
vulcani, pei lampi,
per
le meteore, per tutto
ciò
che arde, per la sete
del
Deserto e il sale del Mare,
odimi,
Eurètria, Energèia!
Io
son teco il supplice, senza
pianto
e senza ramo d'ulivo.
Toccarti
i ginocchi non oso.
Chiederti
non oso che m'abbi
per
l'aedo tuo primo
ma
sol per il tuo messaggero.
Io
sarò colui che t'annunzia».
E,
com'ella un poco inclinava
la
fronte accennando, sì forte
fu
nel mio petto il sussulto
del
cuore, ch'io trasalii
come
quei che sente la vita
partirsi
con sùbito balzo
verso
il mistero dell'ombra.
E
da me partito era il sogno;
ché
mormorare il vento
dell'alba
nei platani vasti
intesi,
le pallide stelle
scorsi
tramontare nel cielo
della
Fòcide, dietro
le
bianche Fedrìadi. Oh pronto
risveglio!
M'alzai dalla terra
leggero,
con limpidi occhi.
Lavai
la mia fronte nell'acqua
castalia,
ne bevvi nel cavo
delle
mie mani; alacre e puro
salii
pel cammino solenne
verso
le ruine del Tempio.
E
i galli cantarono. Presso
e
lungi, nelle case
di
Delfo e nei porti lontani,
su
i pianori dei monti,
lungh'esse
le vie lapidose,
per
tutte le rive del golfo
i
galli cantarono l'alba.
Oh
canti, fratelli dei raggi,
ond'era
accresciuta la luce
nel
cielo continuamente!
Voci
di virtù mattutina,
che
attendevate ogni volta
le
risposte ai vostri richiami
per
chiamare taluno
ancor
più distante! Fragranza
del
mar taciturno! Ombra e polve
dell'arcana
chiostra ove inerte
pietra
è oggi l'Ònfalo santo!
Se
una Volontà si sollevi
armata
d'un grande disegno,
solo
in essa è il centro dell'Orbe.