Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
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LIBRO PRIMO - MAIA

1 - Laus vitae

XI.

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XI.

 

Con un alberetto volante

e sue sartiette arridate

a mano, il palischermo

attrezzammo a vela latina.

Ciascun de' compagni a vicenda

governò la scotta o il timone.

Le baie le conche i recessi

del parnassio mare esplorammo,

or chini su l'acqua ove l'ombra

nostra era un miracolo verde,

or sottovento seduti

fuori banda sopra gli scalmi

coi piedi immersi nel sale,

or tratti per la gomenetta

dell'àncora dietro la poppa

nella scìa che ci levigava

la carne con una carezza

innumerevole, or al fondo

sopra le stuoie supini

in un sonno ch'era ogni volta

una voluttà sconosciuta.

 

Acqua marina, mollezza

di cinti insolubili, sguardo

venereo della segreta

profondità, riso d'abisso,

lasciva sorella dell'aria,

madre della nuvola, come

ti loderò? Ogni baia

ogni conca ogni recesso

ci parve più bello. Dicemmo:

«Ah chi mai vide ne' giorni

una maraviglia più lieta?».

E desiderammo ancorare

per quivi obliar nostri amori

scrutando le mille figure

dell'acqua. Ma l'ancoraggio

contiguo ebbe più dilettose

figure, colori più novi,

odori più freschi. Dicemmo:

«Ecco il limite. I sensi

non gioiranno più oltre».

E il limite fu superato.

 

Arene gemmee come

tritume di gemme, ceppaie

d'alghe, chiari coralli,

fuchi di porpora, negre

ulve, tra fango e sabbia

flessibili intrichi di lunghe

erbe ove abbonda la greggia

dei pesci, io compresi quel nome

che i pescatori tirreni

usan per lode alla valle

del mare onde traggono prede

più ricche: Armonia!

Noi non gittammo le reti,

non adoprammo le nasse;

non prendemmo il grongo di carne

soave, né lo scombro

tondo di cerula pelle

sospendemmo con le sue branchie

al vimine, pei delicati

sacerdoti di Delfo.

Ma di voi gioimmo, Armonie!

 

Chi mi consolerà, mentre

vivo sotto cieli pur dolci,

chi mi consolerà dei soli

spenti, dei giorni caduti?

Poggi di Fiesole, chiari

sono i vostri ulivi e foschi

i vostri cipressi, e i ciriegi

i mandorli i meli son bianchi

son rosei negli orti di Verde-

spina e di Laudòmia murati,

oggi che la Primavera

improvvisa coglie alle spalle

il lanoso Febbraio

e con la sua tepida forza

rivèrsagli il capo e gli chiude

le palpebre con le sue dita

che auliscono di rosmarino,

per baciarlo in bocca e fuggire.

Bellosguardo, io certo dimane

verrò ne' rosai che tu porti

carichi di rose ancor chiuse.

 

Ben so che i bocciuoli saranno

come i capézzoli gonfii

della pubescente. Ma forse

bianca sarà la tua prima

rosa fiorita su pel ferro

onde pende nel pozzo

la secchia loquace. O collina

dell'Incontro, per la finestra

ti veggo tutta rosata

non come le rose ma come

i fiori dell'erica, tanto

sono leggere le selve

de' tuoi querciuoli vestite

ancor della fronda autunnale

che un poco rosseggia e per entro

vi si scorge il tenero verde!

O Poggio Gherardo, le vecchie

tue mura gialleggiano come

su i nodi delle viti

il lichene. E sta Vincigliata

morta in un negrore di lance.

Odo i colpi iterati

dei ronchetti, odo le cesoie

dei potatori. Uomini veggo

poggiar le scale ai tronchi,

salire, attendere all'opra.

Tanta è la bontà della terra

che forse i sermenti recisi

a piè degli arbori mondi

non periranno ma forse

faranno radici. Pur fende

la terra ancor qualche aratro,

e splendono i buoi tra gli olivi

e tra gli oppi: chiuse han le froge

nelle gabbie di giunco

perché ghiotti son di germogli

e cimare osano i rametti

se passan rasente, bramosi

fors'anco di quelle vermene

che sorgon per nesto in corona

dalle piaghe dei tronchi

spalmate di màstice roggio.

 

Il bifolco gli incìta;

e certo egli è roco, già vecchio.

Ma oggi la voce dell'uomo

è d'una dolcezza infinita

in questo silenzio: ogni suono

ha una risonanza infinita

quasi che non tanto nell'aere

vibri ma e nelle glebe

e in tutte le specie dei corpi.

Odo talor stridore

come di lima sottile

che ferro morda. È colei

dai piedi azzurrigni? colei

che su ciascuna sua tempia

ha un candido segno, una nera

zona a mezzo il petto pugnace?

la cingallegra selvaggia?

Nel cavo dell'arbore aduna

già le lanugini molli

ma par che in aerea fucina

l'amor suo duri aspro travaglio.

 

San Miniato, ora il Sole

si piega verso la tua faccia

graziosa e abbaglia il dolente

tuo dio che non l'ama. Si leva

dall'Arno un vapore di perla

e si diffonde pe' campi

ove rilucono i fossi

colmi dell'acqua piovana;

ma il fumo dei tetti campestri

ceruleo par tuttavia.

L'Incontro s'indora e invermiglia:

cangia le sue querci in coralli;

ma la Vallombrosa remota

è tutta di violette

divina, apparita in un valco

che tra due colli s'insena

ah sì dolce alla vista

che tepido pare e segreto

come l'inguine della Donna

terrestra qui forse dormente,

onde quest'anelito esala.

 

E odo, se ascolto, venire

di Rovezzano il rombo

delle mulina che il vecchio

fromento convertono in fresca

farina, ma pe' solchi

tremano i fili del novo

fromento e con lor treman l'ombre,

e non si distingue il fil verde

dall'ombra sua cerula, e tutto

è un tremolio verdazzurro

che parmi aver quasi ai precordii.

E certo la noce bronzina

che nel cipressetto riluce

m'è cara, e l'orma essiccata

nella redola verde

che ieri fu molle di pioggia,

e la pendula chiave

che più non mi chiude il verziere

dal che nel suo rugginoso

cannello mellificò l'ape

come in celletta di bugno.

 

Molto al mio cuore son care

le cose che odo, che veggo;

e forse tutti i roseti

tralascerò per quel solo

anèmone aperto sul ciglio

del campo! E le campane

della preghiera servile,

il suono che vien di Rimaggio

di Candeli di Monteloro,

anche amerò per una nova

imagine, o Primavera,

che or mi nasce guardando

te sopra le file degli oppi.

Simili a concave mani

di nodose dita son gli oppi,

che reggono tenui sfere

cristalline; e tu vi trascorri

sopra e le tocchi traendo

da ciascuna fila un accordo

dolce che dal ciel sgorgar fa

Espero, la lacrima prima.

O Primavera, o Poesia,

in questa dolcezza m'indugio

per consolarmi e sorrido.

E certo laggiù, nella casa

che biancheggia a mezzo del colle,

gli infermi sorridono anch'elli

beati con povere vene

al davanzale che il Sole

riscalda, e dietro hanno i letti

ove si giacquero in doglia

e l'odor dei farmachi amari.

Ma la ricordanza immortale

d'una bellezza più maschia,

d'una voluttà più possente,

mi brucia, mi crucia. E il rinato

pane che trema ne' retti

solchi non mi vale quel lembo

di suol rossastro fra crudi

sassi, ove struggemmo col fuoco

la stoppia e gli aròmati forti

per profumar nostra sera.

 

Biancheggiano gli escrementi

dei falchi su pe' macigni

di quella caverna montana

ricovero ai greggi e agli uccelli

rapaci, dove sitibondi

scoprimmo la vena dell'acqua?

chiara che n'ebbi certezza

sol quando v'immersi le mani,

si fredda che quando la bevvi

mi dolse la nuca pel gelo.

O Fedriadi ardenti

come due scaglie cadute

da Sirio, la vostra sublime

aridità nel meriggio

m'accecò gli occhi del vólto

ma tutti i miei spirti agitati,

come sul vaporante

spiracolo i capri dell'ansio

Coreta, balzarono in fiero

tumulto e qual sangue d'aurore

videro il vermiglio avvenire.

 

Fumano ancor sul Cirfi

i roghi? La sfinge di Nasso

decapitata ma alata

protende le branche sul sacro

cammino? Le tre danzatrici

dalle mammelle corrose

danzano ancóra intorno

alla colonna fogliuta

di acanti? Filano ancóra

sotto i due platani vasti

le donne focesi, dinanzi

al Fonte Castalio, vestite

d'azzurro? Non la pietra

umbilicale dell'Orbe

ma invano cercai nella polve

la tomba del figlio d'Achille!

E non volli altro letto

per la mia delfica notte

se non la terra presàga

tra i due platani vasti

chiomati di fronde e di stelle.

 

Vedute io le avea, nella sera

purpurea, silenziose

emergere dalla durezza

dell'antro. Miste alla roccia,

come le imagini sculte

nelle metòpi dei templi,

si tacevano in cerchio

le Castàlidi; e gli occhi

lor grandi eran fisi, il Passato

il Presente il Futuro

con un solo sguardo abbracciando.

Prigioni del sasso per sempre

eran elle? I piedi leggeri

che tessuto aveano in figure

di danza la fresca bellezza

del mondo, i bei piedi leggeri

di Terpsicòre constretti

eran nell'inerzia rupestre?

Dal nudo macigno agguagliate

mi sparvero. Ma le rividi

libere nel sogno ch'io m'ebbi.

 

Venivan per le vie de' vènti

com'aquile senza nido

nell'alba a volo, nell'alba

crepitante di mille

e mille fiaccole accese

che i Distruttori e i Creatori

squassavano in pugno gridando

di gioia coi lordi capelli

coperti di bianca rugiada,

con le calcagna gravi

d'umida zolla e di foglie.

Come stuol d'aquile senza

nido, venivan le nove

Castàlidi a volo nell'alba,

lacere i pepli, sconvolte

le chiome, odorate di sangue

e d'incendio, ebre di risa

e di pianti, tumultuose

di forze atroci e d'amori

ineffabili, piene

i polsi di ritmi discordi.

 

Venivano dai porti

inferni ove tutte le lingue

umane suonan fra tutti

i gemiti e i rùgghii del ferro

domato; venivano dalle

città di lucro ove la vita

cupida senza schiuma

e senza sudore s'affretta

su le rotaie corusche,

stride su la gèmina lama

che non ha guainapunta.

Visitato aveano le folte

moltitudini, udito

aveano i canti feroci

della fame e della vendetta,

bevuto aveano gli inni

di libertà, gli epinicii

dell'Uomo non coronato

che con salde rèdini intorno

all'Orbe conduce in trionfo

la quadriga degli Elementi.

 

E nella rossa fornace

ove struggevasi un fiume

di bronzo pel simulacro

d'un eroe senza clava

liberatore del Mondo,

nella fornace di gloria

gittato avea Calliòpe

le tavolette cerate

e lo stilo, Melpomène

la maschera dalla gran bocca,

Urania la sfera celeste,

Euterpe i due flauti eburni,

Terpsicòre il chiaro eptacordo,

Tàlia l'ellera, Èrato il mirto,

l'annunziatrice Clio

il breve infinito volume,

Polinnia una foglia d'alloro

già morduta nella sua corsa

per temprar con l'aonio

aroma il lezzo febbroso

delle moltitudini folte.

 

E venivano a stormo

le Vergini figlie di Zeus

com'aquile senza nido,

affaticate dal peso

delle bellezze raccolte

ne' lor vasti seni, agitate

dalle forze novelle

che facean tremar come l'alte

colonne d'un tempio crollante

i lineamenti solenni

del Passato nel lor pensiere

verecondo. Ed erano ardenti

di fecondità, agognanti

di generare una gioia

una potenza e un amore

sovrumani per l'Uomo,

di trarre una vita divina

dalla faticosa materia

che gorgogliava nell'Orbe

come quel fiume di bronzo

in quella fornace di gloria.

 

E su la cima d'un'alpe,

che non era Libètro

ParnassoElicona,

si posarono ansanti

nell'imminenza dell'opra.

Non intonarono l'inno.

Il Coro d'Apolline stette

silenzioso nell'alba,

fiso allo spettacolo immenso.

Passavano senz'ombre

su le inviolabili fronti

le nubi in cui la certezza

del Sol nascituro

era già luce, era già fiamma.

Pel grembo intatto dell'alpe,

che chiudea le moli profonde

del marmo, sacre ai colossi

ai templi ai teatri novelli,

crosciavan le sorgenti,

aulivano i cèspiti, i covi

i favi i nidi parlavano.

 

«Euplete! Eurètria!» S'udiva

sul grido dei Portatori

di fuoco irrompere a quando

a quando un nome invocato

come il benefico nome

d'una deità imminente.

«EnergèiaFuggito

dagli occhi umani era il sonno

bestiale della stanchezza.

Libere eran tutte le braccia

dal travaglio servile,

libere per l'ornamento

del mondo. La cieca materia,

animata dal ritmo

esatto, operava indefessa

su la cieca materia;

l'ordegno tenea su l'ordegno

la vece dell'uomo. Il supplizio

carnale era bandito

per sempre, il Dolore assumendo

l'aspetto d'un re soggiogato.

L'ebrietà della forza

chiedea di placarsi nei riti

dell'Arte, nelle preghiere

unanimi verso le Forme

perfette, nell'innocenza

del rivelato Universo,

nel giovenile fonte

dei Miti innovati. Un immenso

desiderio di festa

traeva gli uomini, franchi

dalla notte e dalle fatiche,

alle pianure ove i morti

eran sepolti, lungh'essi

i fiumi paterni che al mare

portano su l'onda perenne

l'immortalità delle stirpi

feraci. Tutte le braccia,

pronte a crear la bellezza,

volsero le fiaccole al suolo

spegnendole innanzi alla Luce

raggiante per tutte le cime.

 

E un rombo confuso di canti

inauditi sonava

nelle moltitudini asperse

di rugiada. E l'attesa

della Poesia palpitava

nelle moltitudini come

l'innumerevole riso

del desìo marino che s'alza

con le mille labbra dell'onda

verso il Sole per divenire

aere, altezza, via di luce,

luce egli stesso infinita.

E le nove antiche Sorelle

non intonarono l'inno!

Sotto le nubi infiammate

dall'aurora, non con argilla

ma con la sostanza sublime

che nata era in elle dall'urto

del conoscimento vitale,

crearon per l'uomo una Voce

più bella del Coro castalio.

 

Aquile senza nido

ripresero il volo, dall'alpe

balzarono a sommo del cielo,

un attimo stettero immote

simili a costellazione

vermiglia; poi contra il fulgore

del Sol nascente, verso il Mare

virgineo come la prima

foglia del giovinetto salce

(oh soavità dell'eterna

grandezza!) si volsero avvinte

per le flessibili mani

in quell'atto lor consueto

che usavan danzando al cospetto

di Apolline. E niuno vide

se risero o piansero. Vidi

ben io ma tacere m'è caro.

Inclinate il fianco sul vento,

alte melodie non udite,

senza traccia sparvero in coro

le nove antiche Sorelle.

 

E la nomata nel grido

Euplete Eurètria Energèia,

la nomata nel grido

umano coi nomi divini

delle plenitudini e delle

virtù, l'invocata da tutti

nell'alba, la decima Musa

apparì, discese dal monte

in mezzo agli uomini. E da prima

non tutti la videro quivi;

ma credetter forse che il fiato

d'una primavera improvvisa

li soffocasse d'amore,

e ne tremarono. Io

la vidi. E mi parve che il sangue

m'abbandonasse e corresse

fumido sotto i piedi

della vegnente a invermigliarne

i vestigi, e che spoglia

dell'ossa quest'anima mia

s'ergesse qual candida fiamma.

 

Dissi: «Euplete, decima Musa,

piena come l'onda che giunge

dopo l'onda nona sul lido,

gagliarda come il flutto

decumano, o Antica, o Novella,

m'odi per i giorni e per l'opre,

m'odi per le mie notti insonni

già calde di te non creata!

Per la mia febbre, per gli astri,

pei vulcani, pei lampi,

per le meteore, per tutto

ciò che arde, per la sete

del Deserto e il sale del Mare,

odimi, Eurètria, Energèia!

Io son teco il supplice, senza

pianto e senza ramo d'ulivo.

Toccarti i ginocchi non oso.

Chiederti non oso che m'abbi

per l'aedo tuo primo

ma sol per il tuo messaggero.

Io sarò colui che t'annunzia».

E, com'ella un poco inclinava

la fronte accennando, sì forte

fu nel mio petto il sussulto

del cuore, ch'io trasalii

come quei che sente la vita

partirsi con sùbito balzo

verso il mistero dell'ombra.

E da me partito era il sogno;

ché mormorare il vento

dell'alba nei platani vasti

intesi, le pallide stelle

scorsi tramontare nel cielo

della Fòcide, dietro

le bianche Fedrìadi. Oh pronto

risveglio! M'alzai dalla terra

leggero, con limpidi occhi.

Lavai la mia fronte nell'acqua

castalia, ne bevvi nel cavo

delle mie mani; alacre e puro

salii pel cammino solenne

verso le ruine del Tempio.

 

E i galli cantarono. Presso

e lungi, nelle case

di Delfo e nei porti lontani,

su i pianori dei monti,

lungh'esse le vie lapidose,

per tutte le rive del golfo

i galli cantarono l'alba.

Oh canti, fratelli dei raggi,

ond'era accresciuta la luce

nel cielo continuamente!

Voci di virtù mattutina,

che attendevate ogni volta

le risposte ai vostri richiami

per chiamare taluno

ancor più distante! Fragranza

del mar taciturno! Ombra e polve

dell'arcana chiostra ove inerte

pietra è oggi l'Ònfalo santo!

Se una Volontà si sollevi

armata d'un grande disegno,

solo in essa è il centro dell'Orbe.

 

 


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