Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Laudi
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LIBRO PRIMO - MAIA

1 - Laus vitae

XII.

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XII.

 

Chi mi consolerà, mentre

vivo sotto cieli pur dolci,

chi mi consolerà di tanto

orgoglio e di tanta allegrezza

che il vento salmastro disperse,

con la polve delle ruine

con la cenere dei sepolcri,

ne' borri de' monti famosi?

Certo su altre rive,

su altre alture altre pianure,

nei deserti di Libia, sul petto

dei colossi di Memfi,

nel nomo d'Arsìnoe ricco

d'antìlopi e di melagrani,

altrove, altrove, nelle acque

dell'Ànapo, nelle latòmie

di Siracusa, nelle sabbie

di Selinunte ove una vasta

di colonne dorica stirpe

vive di luce, e altrove, altrove

mi conobbi figlio del Sole.

 

Ma nessun cielo, nessun mare,

nessun deserto, nessuna

arsura, nessuna abondanza

moltiplicò la vitale

virtù della mia giovinezza

così fieramente. O Corinto,

bagno d'Afrodite, rocca

di Sisifo duro, feconda

di bei tiranni, che giugnesti

alle rèdini del cavallo

il morso e al frontone del tempio

la duplice aquila d'oro,

Efira, nudità di marmi,

sapienza di meretrici,

ozio armonioso, o Morente

cui il ruvido console diede

il Fuoco per ultimo drudo

onde generasti il Metallo

inimitabile, quando

rivedrò i tuoi sterpi riarsi

e la tua taverna nel tempio?

 

Scorre ancóra sul fianco

dell'Acrocorinto quel miele

selvaggio ch'io discopersi?

o salsero le Oceanine

al tramontar della luna,

poi ch'ebber finito il lor pianto

amaro sopra i tuoi lutti,

Amphithalassia, e ingorde

se ne saziarono? Ancóra

siede la giovinetta

sul margine della cisterna

e canta? «Papavero folto»

cantava «prestami i fior tuoi

e il tuo rossore ch'i' mi vesta

scenda al lido e strugga d'amore

Siede tra le sette colonne

la madre dal nero grembiule?

«Come sono squallidi i monti

cantava. «O vento li combatte,

o pioggia. Né ventopioggia.

Li passa Caronte co' morti»

Rombava talora nel vento

su l'Acrocorinto spogliato

un'ala fùnebre. E io vidi

Thànatos, il fosco fanciullo

che soffiò per entro alle nari

delicate e sopra le tarde

pàlpebre de' tuoi goditori,

o Doriese, premendo

le guaste ghirlande cadute

su' tuoi marmi aspersi di vino.

Portato dalla tua Notte

anche lo vidi, come

nell'arca di Cìpselo; e sempre

poi l'ebbi al mio fianco, velato.

E, da poi ch'io l'ho meco, ei sembra

rendere più rosse le rose

del mio piacere, più profondo

il suon del mio riso, più forti

i miei denti. Estinta è la face

ch'ei porta, ma sotto il suo sguardo

più fervidi ardono i miei fuochi.

 

A te debbo questo compagno

che senza parlare m'incìta,

o ghirlandata di mirto

e di papavero Efira

che fosti vermiglia di sangue

lussurioso e di dolce

vino sentendo continuo

scendere dal vertice il fiato

della dea su te troppo ignito

onde si sciogliean gli unguenti

ne' tuoi nerazzurri capelli

e ti colavan per le tempie

pulsanti di cupidigia

mentre le strisce del fulvo

corame, in guisa di freno

imposte alle guance de' tuoi

auleti, nell'ansia de' suoni

si laceravano e i nervi

degli eptacordi sotto il morso

violento dei plettri

si spezzavano sibilando.

 

Meco era il compagno velato

quando rinvenni tra selci

e sterpi lo specchio votivo

di Lais offerto alla dea.

«Poiché vedermi non voglio

qual sono e vedermi qual fui

non posso, a Te sacro il mio disco,

dea di non caduca bellezza

E sotto i venerandi

cipressi l'etèra dormiva;

le cui bianche braccia avean cinto

tutta l'Ellade amante,

come la cintura marina

che spazia dal Ionio all'Egeo.

E il sepolcro auliva pur sempre,

quasi nave giunta dai porti

sirii di aròmati carca.

«Bel fanciullo» dissi «a Te solo

sacrerò l'acciaio polito

ove miro l'anima mia,

se mai sarà ch'ella s'incurvi

 

E penetrammo con lieve

passo nell'adito occulto

che al fonte di Pirene

conduce e su l'ombra mia lieve

era l'ombra del fratricida

Ipponòo recando la briglia.

Sostammo, in ascolto. Il cavallo

s'abbeverava al fonte.

Sìbilo s'udiva di lunghi

sorsi, fremito di froge,

e l'ondeggiar della coda

lento; e talora il sussulto

delle grandi penne, che molto

aere movea sino a noi

celati nell'adito. Osammo

appressarci, senza respiro.

E vedemmo un fuoco argentino,

un'alacrità palpitante,

non so qual serico ardore

diffuso intorno a una possa

indomita: Pègaso, il volo!

 

Arte, Arte mia bella, nudrita

con l'ima midolla e col sangue

più puro, guarda il nepote

di Sisifo come s'accosta

alla fiera alata stringendo

cauto nella mano il fren d'oro

e subitamente la imbriglia

con fulminea destrezza

e serra le rèdini in pugno

senza lentarle e resiste:

s'impenna, recalcitra, batte

l'ali ventose il cavallo

magnifico: la vergine bocca

offesa dal valido ordegno

sbuffa schiumeggia annitrisce:

l'uomo imperterrito balza,

inforca la schiena tremenda

fra l'una e l'altra ala, conduce

l'Impeto nel libero cielo.

Così, Arte, accòstati ai grandi

pensieri che son presso i fonti.

Pur dato mi fosse oggi, mentre

la primavera m'affanna,

dato mi fosse varcare

l'aere e su l'Acrocorinto

fermare il volo (forse oggi

tutta la roccia si veste

di fiori efimeri, come

Lais della tunica tiria

brevemente, sapendo

che la nudità è più bella)

quivi fermare il volo

e in uno sguardo abbracciare

i due golfi, la sitibonda

Argolide, gli arcadi gioghi,

i vertici sacri alla Danza

e al Canto, l'isole guerriere

e agresti, il Monte dell'api

e il Sunio e il Laurio e quella,

anima mia, ch'è la tua sposa

diletta, che non canterai

perché troppo a dentro ne tremi.

 

O Tebe, di te mi sovviene,

grande oplite del Teumesso,

fàuce della Strage latrante

da sette bocche nel piano,

di te mi sovviene, Cadmèa;

non per Tìdeo che giace

squarciato il fegato, alla porta

Proètide, e rode le tempie

a Melanippo; non pel grido

di Capanèo contra il Cielo

che l'ode, né pel duolo

d'Antìgone eretta nel Coro

come il cipresso tra i salci;

ma per le tue belle fonti,

o d'acque abondante e di sangue

Cadmèa, per la fonte di Dirce

che sparsa è ne' dolci verzieri

come fu nelle rupi

la dilacerata bellezza,

onde bevemmo il sapore

del supplizio all'ombra dei meli.

 

Vario sapore hanno l'acque

che corrono d'oriente

o corron di settentrione,

e quale è più grave e quale

più lieve se passi per limo,

per vene d'alcuno metallo,

per rossa creta, per pietre

nette o per sabbia, e più o meno

di terrestritade è in ciascuna

secondo il suo nascimento.

Sapide di fati son l'acque

tebane. Baciammo le donne

alla fonte di Ares, ove Cadmo

si lavò pria ch'ei seminasse

i denti onde nacque la stirpe

furibonda. All'Edipodèia

alternammo i sorsi col suco

delle persiche molli,

ove l'uccisore di Laio

si purificò poi che morta

fu la sua madre polluta.

 

E il Citerone, senza

strepito di Mènadi, senza

faci di pino, lungamente

sul cielo australe stendea

con leggerezza e pallore

di linfe e silenzii

delle sue cime. E tu eri

nascosta a oriente, o Tanagra

dal collo di cigno, dal crine

intesto come canestro

di vimine, all'ombra del largo

cappello tessalico, chiusa

nelle innumerevoli pieghe

dell'imàtio come in un fiore

di mille pètali. O forse

con un gesto di grazia or discopri

la mammella piccola come

cotogna, i mallèoli svèlti

inanellati d'elettro,

e mordi un anèmone, china

al combattimento dei galli?

 

S'aprono gli anèmoni al vento

e gli asfodèli nel piano

d'Argo tra la cittadella

di Palamede e lo stagno

di Lerna, in vista alle bianche

vette del Partènio? Tirinto,

città di rupi adunate,

ventosa del soffio d'Eràcle

che triturava co' vasti

molari i tuoi bovi ancor lordi

di bragia e crudigni, se mai

io torni, cercar voglio quelle

tue pietre che soffregate

dai dorsi lanosi di tante

pecore nei secoli lenti

si polirono come l'avorio

dell'else consunto nel pugno

dei tuoi re! Poi per la profonda

feritoia guardar voglio il mare

più cerulo del fenicio

vetro che t'ornava il palagio.

Ma te, o Micene, s'io torni,

guarderò di lontano.

Ahi troppo vivesti tu meco

nel sogno coi truci tesori

de' tuoi sepolcri e agitasti

le mie vigilie, quando

al fulvo usignuolo nomato

Cassandra io diedi una pura

sorella; che forse nomarsi

dovea col tenue nome

di Ebe giovinetta celeste!

Spoglia tu sei del metallo

fùnebre, ma io ti profusi

la sua grande chioma tutt'oro.

Ella ne ammanta e irraggia

la Fonte Perseia ove bevve

la morte: vi tremola e piange

la polla per entro in eterno.

Così la vede il mio sogno.

Giova, o Atride, che ne sien certe

queste mie pupille mortali?

 

Tu sei netta e cruda nell'aere

arido, ma io ti ricopro

d'un velo. A Mègara bianca,

a Mègara vestita

di lino, che sferza i cavalli

su l'aia abbagliante di spiche,

a Mègara voglio tornare

con una sete più forte

e bevere all'orcio di Egina,

all'orcio di terra eginèta

che appeso per l'ansa a un ulivo

refrigera l'acqua nel vento.

Egina tricoste, delizia

del golfo, pe' tuoi freschi orciuoli

ti loderò, pe' tuoi fichi

densi, pe' tuoi mandorli ch'io

non vedo fiorire? o pel bronzo

che Onàta fondevaricco?

o pel marmoreo sorriso

che incurva le labbra agli oplìti

morenti in fronte al tuo tempio?

 

Salamina, isola di Aiace

Telamonio, falce di luna

petrosa che mai non tramonta

sul mare né mai nel ricordo

degli uomini, gloria di rostri,

vittoria volante con triplo

remeggio sul sangue salmastro,

penso alla tua ora divina

quando i trierèti in silenzio

poggiarono i remi agli scalmi

assicurati col cappio

di corda e ciascuno credette

udire Pallade armata

scendere sopra la prua,

e Serse era in trono sul monte,

e di repente dai petti

ellèni proruppe il peàna,

squillarono tutte le trombe,

rimbombò per tutte le rupi

il grido dell'Ellade: «Questo

è il combattimento supremo!».

 

Luoghi di luce, le rose

fluttuanti al vento del mare

bianche e fino agli orli ricolme

non di rugiada ma di caldo

mosto, son le Cicladi belle.

Simile allo strepito primo

della pioggia sopra la fronda,

quando la campagna si tace

soffocata guatando la nube,

m'è il suon de' lor nomi divini

sopra l'anima ardente:

Sifno, Citno, Sèrifo, Nasso!

A Ceo, che imita in sua forma

l'ovo della colomba,

a Ceo dalle leggi eccellenti

come gli inni delle sue lire,

l'ombra di Simonide ancóra

insegna la musica ai figli

dei marinai pileati

sul càrabo curvo che porta

la scorza e la ghianda del cerro.

 

A Paro vagammo per vie

chiare sotto pergole verdi.

E tanto leggere eran l'ombre

che vi si parevano i nervi

dei pampini con una traccia

più cupa, e i raggi per entro

vi piovevano in guisa

di torqui di anelli di armille;

sì che vestiti d'azzurro

e di monili vagammo

quivi ascoltando i cantari

delle donne ionie che nude

le braccia lavavano i lini

in trògoli tutti di marmo.

Vedendo bagnare un bel velo,

non dell'irto euforbio archilòchio

noi ricordammo i cruenti

aculei ma l'unico fiore

nato di due pètali soli:

«Alcibìe dopo le nozze

offre a Era il velo crinale».

 

Andro ci apparve su l'acque

tutt'avvolta dal repentino

scroscio della nube d'agosto,

come tessitrice odorata

dietro telaio d'antica

foggia intenta a tessere argento

pur con alcun filo commisto

di porpora forse venuta

a lei dalle pésche di Giaro:

spirava per quell'erte trame

olezzo d'aranci e di cedri.

Ma l'odore di Siro

fu più forte. Siro, nutrice

di cordari e di calafati,

tra pescatori di spugne

e conciatori di pelli

artiera di vele e d'ormeggi,

bianca a piè di fulve montagne,

odor di fasciame unto a caldo

con pégola sevo e cerussa,

cara ai marinai dell'Egeo!

 

Ah belle da presso le Cicladi

intorno a Delo corona

gemmante, scolpite con arte

come calcedònie e iacinti.

Belle più anco di lungi;

ché di lungi assemprano un coro

d'aulètridi alto su l'acque,

un coro d'aulètridi ionie

dai lunghi chitóni cadenti

su l'unghia del pollice, nude

però le gole venate

di cìano, dorate dal sole

attraverso la pelle e le vene

insino ai precordii, dorate

insino alla conca segreta

del pube. E il miel delle vigne

famose indolcisce ogni punta

delle lor mammelle protese.

E la melodìa de' lor flauti

rallenta il venir della Notte,

trattiene l'Estate su i mari.

 

Voluttà, voluttà

d'Ariadne e di Dionìso

commisti sul carro che aggioga

la maculosa pantera

cui l'Amore diè per sorella

una nudità constellata

dai segni del bacio crudele!

Tra il Cretico Mare e il Mirtòo

mollizie insulare, lascivo

sale che ancor bolle e schiumeggia

della sua figlia Afrodite,

amaritudine d'ulve

e di veneficii e di pianti,

ove Pasifàe morta ondeggia

riversa con le sue palme

calde tuttavia del sudore

malvagio, non spenta per anche

la carne che giunta fu all'ossa

come il fuoco al legno del pino!

Ah belle da presso e di lungi

le Cicladi, e molto a me dolci.

 

Ma a te tornerò col mio cuore,

isola di Aiace, a te forza

delle triere rostrate,

potenza adunca del ràffio,

gloria delle glorie navali,

per compier con soli i miei remi

il perìplo delle tue rupi

sante, poiché non potei

combattere nelle tue acque

com'Eschilo al fianco d'Aminia

che diè primo il colpo di rostro,

né come il giovinetto

Sofocle condurre la danza

degli efebi intorno al trofeo,

né com'Euripide (l'immenso

clamor del peana copriva

gli urli della partoriente)

nascere nel della pugna.

A te tornerò pel mio vóto.

Dal colle d'Elèusi deserto

non mi saziai di guardarti.

 

I monti di Mègara, i cupi

Gerànei folti di pini,

il Coridallo ondulato,

le gole di File, il notturno

Citerone, gli aridi gioghi

elicònii, tutte le vette

lontane cui l'aria e la luce

intessono vesti più belle

che la veste del croco

dello smìlace e del narcisso,

impallidivano incontro

all'aspro tuo lineamento

ch'era come il guatare

di Pallade quando ella indaga

di sotto al suo casco corintio

le schiere ordinate nel campo

e pesa il coraggio dei petti,

sì che al vile trema lo stinco

nello schiniere di bronzo

ma la virtù si rischiara

nel forte che pugna con arte.

 

 


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