XII.
Chi
mi consolerà, mentre
vivo
sotto cieli pur dolci,
chi
mi consolerà di tanto
orgoglio
e di tanta allegrezza
che
il vento salmastro disperse,
con
la polve delle ruine
con
la cenere dei sepolcri,
ne'
borri de' monti famosi?
Certo
su altre rive,
su
altre alture altre pianure,
nei
deserti di Libia, sul petto
dei
colossi di Memfi,
nel
nomo d'Arsìnoe ricco
d'antìlopi
e di melagrani,
altrove,
altrove, nelle acque
dell'Ànapo,
nelle latòmie
di
Siracusa, nelle sabbie
di
Selinunte ove una vasta
di
colonne dorica stirpe
vive
di luce, e altrove, altrove
mi
conobbi figlio del Sole.
Ma
nessun cielo, nessun mare,
nessun
deserto, nessuna
arsura,
nessuna abondanza
moltiplicò
la vitale
virtù
della mia giovinezza
così
fieramente. O Corinto,
bagno
d'Afrodite, rocca
di
Sisifo duro, feconda
di
bei tiranni, che giugnesti
alle
rèdini del cavallo
il
morso e al frontone del tempio
la
duplice aquila d'oro,
Efira,
nudità di marmi,
sapienza
di meretrici,
ozio
armonioso, o Morente
cui
il ruvido console diede
il
Fuoco per ultimo drudo
onde
generasti il Metallo
inimitabile,
quando
rivedrò
i tuoi sterpi riarsi
e
la tua taverna nel tempio?
Scorre
ancóra sul fianco
dell'Acrocorinto
quel miele
selvaggio
ch'io discopersi?
o
salsero le Oceanine
al
tramontar della luna,
poi
ch'ebber finito il lor pianto
amaro
sopra i tuoi lutti,
Amphithalassia,
e ingorde
se
ne saziarono? Ancóra
siede
la giovinetta
sul
margine della cisterna
e
canta? «Papavero folto»
cantava
«prestami i fior tuoi
e
il tuo rossore ch'i' mi vesta
scenda
al lido e strugga d'amore!»
Siede
tra le sette colonne
la
madre dal nero grembiule?
«Come
sono squallidi i monti!»
cantava.
«O vento li combatte,
o
pioggia. Né vento né pioggia.
Li
passa Caronte co' morti»
Rombava
talora nel vento
su
l'Acrocorinto spogliato
un'ala
fùnebre. E io vidi
Thànatos,
il fosco fanciullo
che
soffiò per entro alle nari
delicate
e sopra le tarde
pàlpebre
de' tuoi goditori,
o
Doriese, premendo
le
guaste ghirlande cadute
su'
tuoi marmi aspersi di vino.
Portato
dalla tua Notte
anche
lo vidi, come
nell'arca
di Cìpselo; e sempre
poi
l'ebbi al mio fianco, velato.
E,
da poi ch'io l'ho meco, ei sembra
rendere
più rosse le rose
del
mio piacere, più profondo
il
suon del mio riso, più forti
i
miei denti. Estinta è la face
ch'ei
porta, ma sotto il suo sguardo
più
fervidi ardono i miei fuochi.
A
te debbo questo compagno
che
senza parlare m'incìta,
o
ghirlandata di mirto
e
di papavero Efira
che
fosti vermiglia di sangue
lussurioso
e di dolce
vino
sentendo continuo
scendere
dal vertice il fiato
della
dea su te troppo ignito
onde
si sciogliean gli unguenti
ne'
tuoi nerazzurri capelli
e
ti colavan per le tempie
pulsanti
di cupidigia
mentre
le strisce del fulvo
corame,
in guisa di freno
imposte
alle guance de' tuoi
auleti,
nell'ansia de' suoni
si
laceravano e i nervi
degli
eptacordi sotto il morso
violento
dei plettri
si
spezzavano sibilando.
Meco
era il compagno velato
quando
rinvenni tra selci
e
sterpi lo specchio votivo
di
Lais offerto alla dea.
«Poiché
vedermi non voglio
qual
sono e vedermi qual fui
non
posso, a Te sacro il mio disco,
dea
di non caduca bellezza.»
E
sotto i venerandi
cipressi
l'etèra dormiva;
le
cui bianche braccia avean cinto
tutta
l'Ellade amante,
come
la cintura marina
che
spazia dal Ionio all'Egeo.
E
il sepolcro auliva pur sempre,
quasi
nave giunta dai porti
sirii
di aròmati carca.
«Bel
fanciullo» dissi «a Te solo
sacrerò
l'acciaio polito
ove
miro l'anima mia,
se
mai sarà ch'ella s'incurvi.»
E
penetrammo con lieve
passo
nell'adito occulto
che
al fonte di Pirene
conduce
e su l'ombra mia lieve
era
l'ombra del fratricida
Ipponòo
recando la briglia.
Sostammo,
in ascolto. Il cavallo
s'abbeverava
al fonte.
Sìbilo
s'udiva di lunghi
sorsi,
fremito di froge,
e
l'ondeggiar della coda
lento;
e talora il sussulto
delle
grandi penne, che molto
aere
movea sino a noi
celati
nell'adito. Osammo
appressarci,
senza respiro.
E
vedemmo un fuoco argentino,
un'alacrità
palpitante,
non
so qual serico ardore
diffuso
intorno a una possa
indomita:
Pègaso, il volo!
Arte,
Arte mia bella, nudrita
con
l'ima midolla e col sangue
più
puro, guarda il nepote
di
Sisifo come s'accosta
alla
fiera alata stringendo
cauto
nella mano il fren d'oro
e
subitamente la imbriglia
con
fulminea destrezza
e
serra le rèdini in pugno
senza
lentarle e resiste:
s'impenna,
recalcitra, batte
l'ali
ventose il cavallo
magnifico:
la vergine bocca
offesa
dal valido ordegno
sbuffa
schiumeggia annitrisce:
l'uomo
imperterrito balza,
inforca
la schiena tremenda
fra
l'una e l'altra ala, conduce
l'Impeto
nel libero cielo.
Così,
Arte, accòstati ai grandi
pensieri
che son presso i fonti.
Pur
dato mi fosse oggi, mentre
la
primavera m'affanna,
dato
mi fosse varcare
l'aere
e su l'Acrocorinto
fermare
il volo (forse oggi
tutta
la roccia si veste
di
fiori efimeri, come
Lais
della tunica tiria
brevemente,
sapendo
che
la nudità è più bella)
quivi
fermare il volo
e
in uno sguardo abbracciare
i
due golfi, la sitibonda
Argolide,
gli arcadi gioghi,
i
vertici sacri alla Danza
e
al Canto, l'isole guerriere
e
agresti, il Monte dell'api
e
il Sunio e il Laurio e quella,
anima
mia, ch'è la tua sposa
diletta,
che non canterai
perché
troppo a dentro ne tremi.
O
Tebe, di te mi sovviene,
grande
oplite del Teumesso,
fàuce
della Strage latrante
da
sette bocche nel piano,
di
te mi sovviene, Cadmèa;
non
per Tìdeo che giace
squarciato
il fegato, alla porta
Proètide,
e rode le tempie
a
Melanippo; non pel grido
di
Capanèo contra il Cielo
che
l'ode, né pel duolo
d'Antìgone
eretta nel Coro
come
il cipresso tra i salci;
ma
per le tue belle fonti,
o
d'acque abondante e di sangue
Cadmèa,
per la fonte di Dirce
che
sparsa è ne' dolci verzieri
come
fu nelle rupi
la
dilacerata bellezza,
onde
bevemmo il sapore
del
supplizio all'ombra dei meli.
Vario
sapore hanno l'acque
che
corrono d'oriente
o
corron di settentrione,
e
quale è più grave e quale
più
lieve se passi per limo,
per
vene d'alcuno metallo,
per
rossa creta, per pietre
nette
o per sabbia, e più o meno
di
terrestritade è in ciascuna
secondo
il suo nascimento.
Sapide
di fati son l'acque
tebane.
Baciammo le donne
alla
fonte di Ares, ove Cadmo
si
lavò pria ch'ei seminasse
i
denti onde nacque la stirpe
furibonda.
All'Edipodèia
alternammo
i sorsi col suco
delle
persiche molli,
ove
l'uccisore di Laio
si
purificò poi che morta
fu
la sua madre polluta.
E
il Citerone, senza
strepito
di Mènadi, senza
faci
di pino, lungamente
sul
cielo australe stendea
con
leggerezza e pallore
di
linfe e silenzii
delle
sue cime. E tu eri
nascosta
a oriente, o Tanagra
dal
collo di cigno, dal crine
intesto
come canestro
di
vimine, all'ombra del largo
cappello
tessalico, chiusa
nelle
innumerevoli pieghe
dell'imàtio
come in un fiore
di
mille pètali. O forse
con
un gesto di grazia or discopri
la
mammella piccola come
cotogna,
i mallèoli svèlti
inanellati
d'elettro,
e
mordi un anèmone, china
al
combattimento dei galli?
S'aprono
gli anèmoni al vento
e
gli asfodèli nel piano
d'Argo
tra la cittadella
di
Palamede e lo stagno
di
Lerna, in vista alle bianche
vette
del Partènio? Tirinto,
città
di rupi adunate,
ventosa
del soffio d'Eràcle
che
triturava co' vasti
molari
i tuoi bovi ancor lordi
di
bragia e crudigni, se mai
io
torni, cercar voglio quelle
tue
pietre che soffregate
dai
dorsi lanosi di tante
pecore
nei secoli lenti
si
polirono come l'avorio
dell'else
consunto nel pugno
dei
tuoi re! Poi per la profonda
feritoia
guardar voglio il mare
più
cerulo del fenicio
vetro
che t'ornava il palagio.
Ma
te, o Micene, s'io torni,
guarderò
di lontano.
Ahi
troppo vivesti tu meco
nel
sogno coi truci tesori
de'
tuoi sepolcri e agitasti
le
mie vigilie, quando
al
fulvo usignuolo nomato
Cassandra
io diedi una pura
sorella;
che forse nomarsi
dovea
col tenue nome
di
Ebe giovinetta celeste!
Spoglia
tu sei del metallo
fùnebre,
ma io ti profusi
la
sua grande chioma tutt'oro.
Ella
ne ammanta e irraggia
la
Fonte Perseia ove bevve
la
morte: vi tremola e piange
la
polla per entro in eterno.
Così
la vede il mio sogno.
Giova,
o Atride, che ne sien certe
queste
mie pupille mortali?
Tu
sei netta e cruda nell'aere
arido,
ma io ti ricopro
d'un
velo. A Mègara bianca,
a
Mègara vestita
di
lino, che sferza i cavalli
su
l'aia abbagliante di spiche,
a
Mègara voglio tornare
con
una sete più forte
e
bevere all'orcio di Egina,
all'orcio
di terra eginèta
che
appeso per l'ansa a un ulivo
refrigera
l'acqua nel vento.
Egina
tricoste, delizia
del
golfo, pe' tuoi freschi orciuoli
ti
loderò, pe' tuoi fichi
densi,
pe' tuoi mandorli ch'io
non
vedo fiorire? o pel bronzo
che
Onàta fondeva sì ricco?
o
pel marmoreo sorriso
che
incurva le labbra agli oplìti
morenti
in fronte al tuo tempio?
Salamina,
isola di Aiace
Telamonio,
falce di luna
petrosa
che mai non tramonta
sul
mare né mai nel ricordo
degli
uomini, gloria di rostri,
vittoria
volante con triplo
remeggio
sul sangue salmastro,
penso
alla tua ora divina
quando
i trierèti in silenzio
poggiarono
i remi agli scalmi
assicurati
col cappio
di
corda e ciascuno credette
udire
Pallade armata
scendere
sopra la prua,
e
Serse era in trono sul monte,
e
di repente dai petti
ellèni
proruppe il peàna,
squillarono
tutte le trombe,
rimbombò
per tutte le rupi
il
grido dell'Ellade: «Questo
è
il combattimento supremo!».
Luoghi
di luce, le rose
fluttuanti
al vento del mare
bianche
e fino agli orli ricolme
non
di rugiada ma di caldo
mosto,
son le Cicladi belle.
Simile
allo strepito primo
della
pioggia sopra la fronda,
quando
la campagna si tace
soffocata
guatando la nube,
m'è
il suon de' lor nomi divini
sopra
l'anima ardente:
Sifno,
Citno, Sèrifo, Nasso!
A
Ceo, che imita in sua forma
l'ovo
della colomba,
a
Ceo dalle leggi eccellenti
come
gli inni delle sue lire,
l'ombra
di Simonide ancóra
insegna
la musica ai figli
dei
marinai pileati
sul
càrabo curvo che porta
la
scorza e la ghianda del cerro.
A
Paro vagammo per vie
chiare
sotto pergole verdi.
E
tanto leggere eran l'ombre
che
vi si parevano i nervi
dei
pampini con una traccia
più
cupa, e i raggi per entro
vi
piovevano in guisa
di
torqui di anelli di armille;
sì
che vestiti d'azzurro
e
di monili vagammo
quivi
ascoltando i cantari
delle
donne ionie che nude
le
braccia lavavano i lini
in
trògoli tutti di marmo.
Vedendo
bagnare un bel velo,
non
dell'irto euforbio archilòchio
noi
ricordammo i cruenti
aculei
ma l'unico fiore
nato
di due pètali soli:
«Alcibìe
dopo le nozze
offre
a Era il velo crinale».
Andro
ci apparve su l'acque
tutt'avvolta
dal repentino
scroscio
della nube d'agosto,
come
tessitrice odorata
dietro
telaio d'antica
foggia
intenta a tessere argento
pur
con alcun filo commisto
di
porpora forse venuta
a
lei dalle pésche di Giaro:
spirava
per quell'erte trame
olezzo
d'aranci e di cedri.
Ma
l'odore di Siro
fu
più forte. Siro, nutrice
di
cordari e di calafati,
tra
pescatori di spugne
e
conciatori di pelli
artiera
di vele e d'ormeggi,
bianca
a piè di fulve montagne,
odor
di fasciame unto a caldo
con
pégola sevo e cerussa,
cara
ai marinai dell'Egeo!
Ah
belle da presso le Cicladi
intorno
a Delo corona
gemmante,
scolpite con arte
come
calcedònie e iacinti.
Belle
più anco di lungi;
ché
di lungi assemprano un coro
d'aulètridi
alto su l'acque,
un
coro d'aulètridi ionie
dai
lunghi chitóni cadenti
su
l'unghia del pollice, nude
però
le gole venate
di
cìano, dorate dal sole
attraverso
la pelle e le vene
insino
ai precordii, dorate
insino
alla conca segreta
del
pube. E il miel delle vigne
famose
indolcisce ogni punta
delle
lor mammelle protese.
E
la melodìa de' lor flauti
rallenta
il venir della Notte,
trattiene
l'Estate su i mari.
Voluttà,
voluttà
d'Ariadne
e di Dionìso
commisti
sul carro che aggioga
la
maculosa pantera
cui
l'Amore diè per sorella
una
nudità constellata
dai
segni del bacio crudele!
Tra
il Cretico Mare e il Mirtòo
mollizie
insulare, lascivo
sale
che ancor bolle e schiumeggia
della
sua figlia Afrodite,
amaritudine
d'ulve
e
di veneficii e di pianti,
ove
Pasifàe morta ondeggia
riversa
con le sue palme
calde
tuttavia del sudore
malvagio,
non spenta per anche
la
carne che giunta fu all'ossa
come
il fuoco al legno del pino!
Ah
belle da presso e di lungi
le
Cicladi, e molto a me dolci.
Ma
a te tornerò col mio cuore,
isola
di Aiace, a te forza
delle
triere rostrate,
potenza
adunca del ràffio,
gloria
delle glorie navali,
per
compier con soli i miei remi
il
perìplo delle tue rupi
sante,
poiché non potei
combattere
nelle tue acque
com'Eschilo
al fianco d'Aminia
che
diè primo il colpo di rostro,
né
come il giovinetto
Sofocle
condurre la danza
degli
efebi intorno al trofeo,
né
com'Euripide (l'immenso
clamor
del peana copriva
gli
urli della partoriente)
nascere
nel dì della pugna.
A
te tornerò pel mio vóto.
Dal
colle d'Elèusi deserto
non
mi saziai di guardarti.
I
monti di Mègara, i cupi
Gerànei
folti di pini,
il
Coridallo ondulato,
le
gole di File, il notturno
Citerone,
gli aridi gioghi
elicònii,
tutte le vette
lontane
cui l'aria e la luce
intessono
vesti più belle
che
la veste del croco
dello
smìlace e del narcisso,
impallidivano
incontro
all'aspro
tuo lineamento
ch'era
come il guatare
di
Pallade quando ella indaga
di
sotto al suo casco corintio
le
schiere ordinate nel campo
e
pesa il coraggio dei petti,
sì
che al vile trema lo stinco
nello
schiniere di bronzo
ma
la virtù si rischiara
nel
forte che pugna con arte.