XIII.
Papaveri,
sangue fulgente
qual
sangue d'eroi e d'amanti
innanzi
a periglio mortale,
soli
ardevate con meco
nella
mistica chiostra
poi
che giammai riaccese
vedrà
il pellegrino le faci
del
Dadùco nel tempio
d'Ecàte.
Ma i grandi triglifi
dorici
splendevano bianchi
là
dove Demètra si assise
crucciosa,
il cor piena d'angoscia,
e
isterilì la terra.
Tutto
era doglia e mistero
su
le fondamenta solenni.
L'ombra
d'una nube curvata
era
sul Callicoro, come
l'ombra
del mietitore
indicibile
che innanzi
agli
epopti mieteva
la
spiga di grano in silenzio.
«Vivi
della Vita universa!»
mi
significò la grandezza
della
solitudine sacra.
Ma
l'anima umana non vive
se
non del suo sforzo incessante
per
effigiarsi su tutte
le
cose come sigillo
imperiale.
«O Uomo,
aduna
tutte le cose
sotto
l'adamàntina mola
della
tua volontà pura,
e
della sostanza premura
fa
pe' tuoi giorni il tuo pane.»
Guardai
le pietre come glebe,
le
colonne come covoni.
Poi
gli occhi pregni di luce
chiusi
e la dea, ch'era informe
per
entro alla massa terrestre,
sorgere
perfetta nel peplo
cerulo
vidi, chiomata
nella
corona murale.
E
fra le sue braccia divine
tenea,
sul suo seno odoroso
Demofoonte,
il figlio
mortale
di Cèleo, nato
più
tardi. E nudrirlo volea
d'una
terribile forza
perché
crescesse oltre l'umana
misura
e non più ritenesse
nel
petto cresciuto il respiro
misero,
l'ansia faticosa
del
gregge. Per ciò nottetempo
ella
l'occultava nel fuoco,
nelle
stridule fasce del fuoco
stringevalo
senza timore;
ed
or lo volgeva sul fianco
or
su l'altro in quella vermiglia
cuna,
ora internavagli il capo
là
dov'era più vorace
la
verginità della fiamma,
come
il fabro fa d'una spranga
che
battere debba all'incude.
Ma
Metanira spiava
con
l'occhio obliquo. Spiava
la
femminetta regina
dalla
fronte bassa quell'opra
d'amor
duro; e non comprendeva,
la
stolta! Con cruccio e spavento
si
percosse ella ambo le cosce;
gridò,
schiamazzò come l'oca
dei
pantani. «Figlio» ululava
«figlio
Demofoonte,
ti
occulta nel foco vorace
la
straniera e a me ti sottrae!»
E
subitamente la gioia
ignìta
di Demofoonte
cessò,
come torcia riversa
che
spengasi in putrido fango.
La
dea lo rimosse dal fuoco
e
lo depose a terra;
con
disdegno uscì dalle case.
E
la femminetta al fanciullo
piangente
diè tepida pappa.
Ah,
Metanira, Metanira,
imbóccalo,
ingózzalo dunque
col tuo
buon cucchiaio di bosso,
gónfialo
d'orzo e di siero
finché
vomiti. Se d'ambrosia
l'ungea la
straniera, tu stilla
per lui la
sanie succulenta
dalle più
crasse carogne.
E pàlpalo
con le tue mani
sudaticce,
fiutalo quando
il suo
ventre fluisce,
lecca la
sua pallida pelle
con la tua
lingua viscosa
di
gozzoviglia indigesta.
Ben ti
conosco. Quando
spingesti
tu contro la dea
la bocca
imbavata di bile
e
d'ingiuria, ti precedette
l'ignobilità
del tuo mento.
Regina,
conosco l'antico
tuo ceffo
e il tuo nome novello.
Gli occhi
riapersi alla luce,
come
l'Iniziato
reduce dal
tenebrore
profondo
ov'eragli apparsa,
in una
pausa infinita
tra i
gridi del lutto materno
e il rombo
dei bronzi percossi,
la spiga
mietuta in silenzio.
E le
innumerevoli vampe
dei fiori,
che Persefoneia
non avea
cinti al suo capo
notturno,
ondeggiavano al vento
di contro
al zaffìro marino,
sì forte
che di taluno
sparivano
i petali come
estinti
dal soffio e appariva
la regia
corona sul gambo
solinga.
«O bei fiori paràlii,
dominazioni
letèe»
dissi «io
so dov'ardono i vostri
èmuli in
foco ed in sangue!»
E del
laziale deserto
mi
sovvenne, dell'Agro
cavalcato
dagli acquedotti
roggi e
dai centauri villosi
che
guidano il gregge con l'asta;
della
Latina Via
sovvennemi
e della Flaminia
e
dell'Appia grave di tombe.
E mi
levai, al conspetto
di
Salamina, pensoso
del
Crèmera. E tra la muraglia
del perìbolo
santo
e il
portico dorico io, pieno
dell'altra
mia patria, cercai
sul suolo
il vestigio dell'ampia
base onde
sorgeva la statua
del Tempo,
che Quinto Pompeio
figlio d'Aulo
e i suoi due fratelli
consacrarono
quivi
alla
Potenza di Roma
e
all'Eternità dei Misteri.