Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
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LIBRO PRIMO - MAIA

1 - Laus vitae

XIII.

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XIII.

 

Papaveri, sangue fulgente

qual sangue d'eroi e d'amanti

innanzi a periglio mortale,

soli ardevate con meco

nella mistica chiostra

poi che giammai riaccese

vedrà il pellegrino le faci

del Dadùco nel tempio

d'Ecàte. Ma i grandi triglifi

dorici splendevano bianchi

dove Demètra si assise

crucciosa, il cor piena d'angoscia,

e isterilì la terra.

Tutto era doglia e mistero

su le fondamenta solenni.

L'ombra d'una nube curvata

era sul Callicoro, come

l'ombra del mietitore

indicibile che innanzi

agli epopti mieteva

la spiga di grano in silenzio.

 

«Vivi della Vita universa

mi significò la grandezza

della solitudine sacra.

Ma l'anima umana non vive

se non del suo sforzo incessante

per effigiarsi su tutte

le cose come sigillo

imperiale. «O Uomo,

aduna tutte le cose

sotto l'adamàntina mola

della tua volontà pura,

e della sostanza premura

fa pe' tuoi giorni il tuo pane

Guardai le pietre come glebe,

le colonne come covoni.

Poi gli occhi pregni di luce

chiusi e la dea, ch'era informe

per entro alla massa terrestre,

sorgere perfetta nel peplo

cerulo vidi, chiomata

nella corona murale.

 

E fra le sue braccia divine

tenea, sul suo seno odoroso

Demofoonte, il figlio

mortale di Cèleo, nato

più tardi. E nudrirlo volea

d'una terribile forza

perché crescesse oltre l'umana

misura e non più ritenesse

nel petto cresciuto il respiro

misero, l'ansia faticosa

del gregge. Per ciò nottetempo

ella l'occultava nel fuoco,

nelle stridule fasce del fuoco

stringevalo senza timore;

ed or lo volgeva sul fianco

or su l'altro in quella vermiglia

cuna, ora internavagli il capo

dov'era più vorace

la verginità della fiamma,

come il fabro fa d'una spranga

che battere debba all'incude.

 

Ma Metanira spiava

con l'occhio obliquo. Spiava

la femminetta regina

dalla fronte bassa quell'opra

d'amor duro; e non comprendeva,

la stolta! Con cruccio e spavento

si percosse ella ambo le cosce;

gridò, schiamazzò come l'oca

dei pantani. «Figlio» ululava

«figlio Demofoonte,

ti occulta nel foco vorace

la straniera e a me ti sottrae

E subitamente la gioia

ignìta di Demofoonte

cessò, come torcia riversa

che spengasi in putrido fango.

La dea lo rimosse dal fuoco

e lo depose a terra;

con disdegno uscì dalle case.

E la femminetta al fanciullo

piangente diè tepida pappa.

 

Ah, Metanira, Metanira,

imbóccalo, ingózzalo dunque

col tuo buon cucchiaio di bosso,

gónfialo d'orzo e di siero

finché vomiti. Se d'ambrosia

l'ungea la straniera, tu stilla

per lui la sanie succulenta

dalle più crasse carogne.

E pàlpalo con le tue mani

sudaticce, fiutalo quando

il suo ventre fluisce,

lecca la sua pallida pelle

con la tua lingua viscosa

di gozzoviglia indigesta.

Ben ti conosco. Quando

spingesti tu contro la dea

la bocca imbavata di bile

e d'ingiuria, ti precedette

l'ignobilità del tuo mento.

Regina, conosco l'antico

tuo ceffo e il tuo nome novello.

Gli occhi riapersi alla luce,

come l'Iniziato

reduce dal tenebrore

profondo ov'eragli apparsa,

in una pausa infinita

tra i gridi del lutto materno

e il rombo dei bronzi percossi,

la spiga mietuta in silenzio.

E le innumerevoli vampe

dei fiori, che Persefoneia

non avea cinti al suo capo

notturno, ondeggiavano al vento

di contro al zaffìro marino,

forte che di taluno

sparivano i petali come

estinti dal soffio e appariva

la regia corona sul gambo

solinga. «O bei fiori paràlii,

dominazioni letèe»

dissi «io so dov'ardono i vostri

èmuli in foco ed in sangue

 

E del laziale deserto

mi sovvenne, dell'Agro

cavalcato dagli acquedotti

roggi e dai centauri villosi

che guidano il gregge con l'asta;

della Latina Via

sovvennemi e della Flaminia

e dell'Appia grave di tombe.

E mi levai, al conspetto

di Salamina, pensoso

del Crèmera. E tra la muraglia

del perìbolo santo

e il portico dorico io, pieno

dell'altra mia patria, cercai

sul suolo il vestigio dell'ampia

base onde sorgeva la statua

del Tempo, che Quinto Pompeio

figlio d'Aulo e i suoi due fratelli

consacrarono quivi

alla Potenza di Roma

e all'Eternità dei Misteri.

 

 


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