XIV.
Poi
scendemmo verso i due laghi
salsi ove i
novizii giungendo
si
purificavano. Ed oltre
passammo,
lungh'essa la riva
del golfo
bianca di ghiaie.
Pel valico
dell'Egalèo,
tra i pini
i leandri i mentastri
i mirti i
ginepri i lentischi,
pellegrinammo
a un'altura
più del
Callìcoro santa
per noi
pellegrini già ebri
di tanta
vita sublime.
E
suscitava ogni nostro
passo una
nube di aromi
che ci
empieva il petto ansioso
d'una
voluttà troppo ardente.
E più
d'una volta l'angoscia
dell'amore
mi vinse;
e mi
soffermai senza forza,
credendo
che il velo degli occhi
fosse un
albeggiare d'olivi.
«Figlia
del cieco vegliardo,
Anfigone,
dove siam giunti?
in quale
città di mortali?»
L'Ombra di
Edìpo, dall'atre
occhiaie
per entro a' capegli
cui le
piogge i vènti le arsure
dato
aveano un tristo lucore
come alle
paglie marine,
parlò. La
sua faccia rugosa
era come
clamide attorta
da man che
la lavi sul sasso.
«Padre
miserabile Edìpo,
torri di
città sono lungi,
quanto
veggo.» La voce
virginale,
nudrita
di amare
radici, parea
che pel
veglio in sé ritenuta
avesse la
sola dolcezza
della
fonte, omai già lontana,
dal dio
conceduta alla sosta
del
mattino sotto grand'elce.
E tutta la
mia forza
fu
pallida, tutta la vita
dell'anima
mia fu vissuta
perché
quell'ora splendesse.
Grido la
mia bocca non ebbe.
Non fu
nominato quel nome.
Il coro di
Sofocle puro
s'alzò
dagli olivi pallàdii.
«All'ottima
delle contrade
terrestri,
Ospite, sei giunto,
di bei
cavalli feconda,
al
biancheggiante Colòno
ove plora
in conche virenti
il
melodioso usignuolo
piacendosi
della vinata
edera e
della sacra selva
molto
fruttifera, immune
dal sole e
dai vènti iemali,
che
Dionìso effrenato
ama
trascorrere, e intorno
gli sono
le iddie sue nutrici.»
Modi della
strofe perfetta
apparvero
i culmini i lidi
i templi
gli arbori. Il velo
delle
Càriti effuso
era in
cerchio a guisa di benda
lieve sul
crinale dei monti.
E come
l'Imetto che guarda
il Parnète
fu l'antistròfe.
«Sotto
l'urania rugiada
quivi
continuo fiorisce
di bei
corimbi il narcisso,
delle
Magne Dee molto antica
ghirlanda,
e il croco aureo splendente;
né mai
languono le insonni
fonti del
Cefìso errabonde,
ma
continue rigano l'acque
limpide
fecondatrici
la terra
dal sen spazioso;
né mai si
dipartono i cori
delle
Muse, e non Afrodite
che tratta
le rèdini d'oro.»
Nell'inviolabile
selva
sacra alle
Eumènidi entrammo,
come
supplici. «Arbore è quivi
cui non pose
man d'uomo, germe
da sé
medesimo nato,
che
grandemente fiorisce,
di glauca
fronda l'Olivo...»
Anima mia,
non tremare.
La nostra
gioia più fiera
la nostra
conquista più grande
noi non le
canteremo.
Quel che
ci disse colei
che
coronata è di viole
non
ridiremo ai vènti.
Serberemo
il miel dell'Imetto
e il vin
del Parnete, odorato
con la
bionda ragia del pino
pentèlico,
per i conviti
occulti
ove sia nostro lume
e nostra
allegrezza lo sguardo
di quelli
occhi cesii che sai.
Lascia la
sua fronte nell'alto
Etere, e
inclìnati su i lembi
della sua
tunica ornati
di belle
ghirlande marine.
Forse non
sapremo giammai
il nome
del fiore paràlio
che
vedemmo sopra le sabbie
di Fàlero,
e coglierlo noi
non ci
ardimmo, ah di sì lieve
bellezza
che parveci entrasse
in noi non
pel varco dei sensi
ma
com'entra un puro pensiero.
Fàlero,
tutto l'azzurro
dell'Attica
scende alla tua
baia, si
versa in te come
in un
lebète d'argento
e ci fa
sitibondi
del tuo
sale! Anche Munichia
ha la sua
coppa rotonda
scavata nell'ònice
schietto;
anche Zea,
nel fianco dell'Acte.
Ma tu
fosti fatto di mano
d'inimitabile
artiere.
In contro
al faro di Psittàlia
il mare si
frange in ruine
di sepolcri;
e forse colui
che in
pugno alla dea Poliàde
pose il
remo in vece dell'asta,
forse
Temistocle quivi
dormì su
lo scoglio rugoso
finché
l'acque di Salamina
non si
ripresero l'ossa
dell'eroe
che tinte le avea
col sangue
dell'Asia. Pur quanto
è più
dolce al piloto
in calde
arene colcarsi!
«A Fàlero
voglio approdare.
All'àncora
mia date fondo.
E poi
seppellitemi all'orlo
del lido,
nella rena giù.
Quivi
marinai sbarcheranno,
ch'i' oda
lor voci da giù.»
Canta
tuttavia le canzoni
sue roche
quel pescatore,
che non si
nomava Fintìlo
e non
Ermonàce, nerigno
come il
guscio della carruba
grata ai
giumenti, ma grigio
intorno al
collo la barba
come
intorno a scalmo consunto
sfilaccia
di stroppo? Pensammo
che
offerto egli avesse al dio
dei
promontorii gli avanzi
della rete
i sugheri e i piombi,
o le nasse
e l'amo ricurvo
legato al
suo crin di cavallo
con la
lunga canna, o una triglia
pavonazza,
la squamma
d'un
gambero, un fin laberinto.
Ma forse
veduto egli avea
sul Mare
Mirtòo Saffo morta
e virato
in prua paventando
la fosca
sirena dormente.
O Cefìsia,
delle tue polle
che aveano
il colore dell'ombra
mi
sovviene, e de' tuoi bianchi
sarcòfaghi
e del clamore
delle tue
rondini. O Spata,
mi
sovviene delle me tombe
venerande.
Padre di templi
fulvi come
il grano maturo,
Pentèlico,
de' tuoi pastori
mi
sovviene selvaggi
ne' chiusi
di creta e di giunchi
o sotto le
tende di cupa
cànape
simili a quelle
che vidi
nel muto Deserto.
Nel tuo
teatro, o Torìco,
dinanzi
all'isola lunga
cui diè la
Tindaride il nome,
tra
moltitudini d'erbe
vedemmo
l'Aurora inclinata
a rapire
il bel cacciatore
e udimmo
il lamento di Procri.
Laurio,
lungi a' tuoi pozzi oscuri,
alle tue
fornaci, alle scorie
del tuo
metallo, scoprimmo
una roccia
rosea come
il corpo
d'un'Evia bagnato
di mosto;
ed era sì bella
che per
toccarla scendemmo
tra gli
scogli ardui del lido
perdendo il
cammino; ma, quando
ritrovammo
il cammino
e ci
volgemmo a guardarla,
di lungi
ell'era anche più bella;
e ne
favellammo nel vespro,
tornati
alla nave, colcati
sul ponte,
prima che il sonno
ci
prendesse, parlammo
di lei
come d'una divina
carne che
fosse vivente
laggiù
senza letto d'amore.
E viveano
tutte le coste,
dal Sunio
al Pirèo, nella sera.
Sunio, un
mercatore fenicio
fui
guardandoti, un montanaro
d'Ircania
portato alla guerra
su nave di
Medi, un Bitinio
della
Propòntide in commercio
d'acònito,
un frumentiere
del
Chersoneso, un vinaio
di Chio
fui guardandoti, ed ebbi
tant'occhi
per istupirmi
di te con
sempre nuove
pupille; e
per venerarti
piloto di
Fàlero fui
reduce da
Panticapèo,
rivarcato
alfin l'Ellesponto
e alfine
il Geresto d'Eubea
dopo
traffico lungo;
ed anche
l'oplìte devoto
fui della
Republica, a guardia
dell'argentifero
lido,
del
metallo sacro all'impresso
conio
dell'epònima dea.
Promontorio
fra tutti
venerando,
altèra cervice
della
Paràlia rupestra,
il tuo
tempio par che si sciolga
come
lentissima neve
alle
primavere del mare.
Il sale
mordace cancella
dalla
colonna il solco
dorico,
nel masso fenduto
dell'architrave
consuma
le groppe
ai Centauri e le corna
al
maratonio Toro
domato
dall'attica forza.
Maratona,
Maratona,
aquila
precipitosa
dall'ali
irsute di lance,
ben ti
venne Tèseo sul fronte
degli
opliti a fianco d'Echètlo,
dell'eroe
rurale che uccise
gran turbe
di Medi col suo
mànico
d'aratro e poi sparve.
Io sul tuo
tumulo grande
colsi una rama
d'alloro
che dure
avea foglie di bronzo
ma bacche
tra nere e azzurrigne
rilucenti
come la testa
della
rondinella cecròpia.
Poi, su la
spiaggia arenosa
quasi
palestra solenne,
raccolsi
una selce che avea
forma di
man chiusa. Ed allora
vidi
Cinegìro figliuolo
d'Euforione
aggrapparsi
alla
protome della prua
barbarica,
sotto la scure
del Medo;
il combattimento
maraviglioso
dell'Uomo
e della
Nave, nel sangue
nell'incendio
e nell'oro
di Serse,
vidi anelando;
e chinarsi
Eschilo armato
sopra il
rosso tronco fraterno.