Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Laudi
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LIBRO PRIMO - MAIA

1 - Laus vitae

XIV.

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XIV.

 

Poi scendemmo verso i due laghi

salsi ove i novizii giungendo

si purificavano. Ed oltre

passammo, lungh'essa la riva

del golfo bianca di ghiaie.

Pel valico dell'Egalèo,

tra i pini i leandri i mentastri

i mirti i ginepri i lentischi,

pellegrinammo a un'altura

più del Callìcoro santa

per noi pellegrini già ebri

di tanta vita sublime.

E suscitava ogni nostro

passo una nube di aromi

che ci empieva il petto ansioso

d'una voluttà troppo ardente.

E più d'una volta l'angoscia

dell'amore mi vinse;

e mi soffermai senza forza,

credendo che il velo degli occhi

fosse un albeggiare d'olivi.

 

«Figlia del cieco vegliardo,

Anfigone, dove siam giunti?

in quale città di mortali

L'Ombra di Edìpo, dall'atre

occhiaie per entro a' capegli

cui le piogge i vènti le arsure

dato aveano un tristo lucore

come alle paglie marine,

parlò. La sua faccia rugosa

era come clamide attorta

da man che la lavi sul sasso.

«Padre miserabile Edìpo,

torri di città sono lungi,

quanto veggo.» La voce

virginale, nudrita

di amare radici, parea

che pel veglio in sé ritenuta

avesse la sola dolcezza

della fonte, omai già lontana,

dal dio conceduta alla sosta

del mattino sotto grand'elce.

 

E tutta la mia forza

fu pallida, tutta la vita

dell'anima mia fu vissuta

perché quell'ora splendesse.

Grido la mia bocca non ebbe.

Non fu nominato quel nome.

Il coro di Sofocle puro

s'alzò dagli olivi pallàdii.

«All'ottima delle contrade

terrestri, Ospite, sei giunto,

di bei cavalli feconda,

al biancheggiante Colòno

ove plora in conche virenti

il melodioso usignuolo

piacendosi della vinata

edera e della sacra selva

molto fruttifera, immune

dal sole e dai vènti iemali,

che Dionìso effrenato

ama trascorrere, e intorno

gli sono le iddie sue nutrici

 

Modi della strofe perfetta

apparvero i culmini i lidi

i templi gli arbori. Il velo

delle Càriti effuso

era in cerchio a guisa di benda

lieve sul crinale dei monti.

E come l'Imetto che guarda

il Parnète fu l'antistròfe.

«Sotto l'urania rugiada

quivi continuo fiorisce

di bei corimbi il narcisso,

delle Magne Dee molto antica

ghirlanda, e il croco aureo splendente;

né mai languono le insonni

fonti del Cefìso errabonde,

ma continue rigano l'acque

limpide fecondatrici

la terra dal sen spazioso;

né mai si dipartono i cori

delle Muse, e non Afrodite

che tratta le rèdini d'oro

 

Nell'inviolabile selva

sacra alle Eumènidi entrammo,

come supplici. «Arbore è quivi

cui non pose man d'uomo, germe

da sé medesimo nato,

che grandemente fiorisce,

di glauca fronda l'Olivo...»

Anima mia, non tremare.

La nostra gioia più fiera

la nostra conquista più grande

noi non le canteremo.

Quel che ci disse colei

che coronata è di viole

non ridiremo ai vènti.

Serberemo il miel dell'Imetto

e il vin del Parnete, odorato

con la bionda ragia del pino

pentèlico, per i conviti

occulti ove sia nostro lume

e nostra allegrezza lo sguardo

di quelli occhi cesii che sai.

 

Lascia la sua fronte nell'alto

Etere, e inclìnati su i lembi

della sua tunica ornati

di belle ghirlande marine.

Forse non sapremo giammai

il nome del fiore paràlio

che vedemmo sopra le sabbie

di Fàlero, e coglierlo noi

non ci ardimmo, ah di sì lieve

bellezza che parveci entrasse

in noi non pel varco dei sensi

ma com'entra un puro pensiero.

Fàlero, tutto l'azzurro

dell'Attica scende alla tua

baia, si versa in te come

in un lebète d'argento

e ci fa sitibondi

del tuo sale! Anche Munichia

ha la sua coppa rotonda

scavata nell'ònice schietto;

anche Zea, nel fianco dell'Acte.

 

Ma tu fosti fatto di mano

d'inimitabile artiere.

In contro al faro di Psittàlia

il mare si frange in ruine

di sepolcri; e forse colui

che in pugno alla dea Poliàde

pose il remo in vece dell'asta,

forse Temistocle quivi

dormì su lo scoglio rugoso

finché l'acque di Salamina

non si ripresero l'ossa

dell'eroe che tinte le avea

col sangue dell'Asia. Pur quanto

è più dolce al piloto

in calde arene colcarsi!

«A Fàlero voglio approdare.

All'àncora mia date fondo.

E poi seppellitemi all'orlo

del lido, nella rena giù.

Quivi marinai sbarcheranno,

ch'i' oda lor voci da giù

 

Canta tuttavia le canzoni

sue roche quel pescatore,

che non si nomava Fintìlo

e non Ermonàce, nerigno

come il guscio della carruba

grata ai giumenti, ma grigio

intorno al collo la barba

come intorno a scalmo consunto

sfilaccia di stroppo? Pensammo

che offerto egli avesse al dio

dei promontorii gli avanzi

della rete i sugheri e i piombi,

o le nasse e l'amo ricurvo

legato al suo crin di cavallo

con la lunga canna, o una triglia

pavonazza, la squamma

d'un gambero, un fin laberinto.

Ma forse veduto egli avea

sul Mare Mirtòo Saffo morta

e virato in prua paventando

la fosca sirena dormente.

 

O Cefìsia, delle tue polle

che aveano il colore dell'ombra

mi sovviene, e de' tuoi bianchi

sarcòfaghi e del clamore

delle tue rondini. O Spata,

mi sovviene delle me tombe

venerande. Padre di templi

fulvi come il grano maturo,

Pentèlico, de' tuoi pastori

mi sovviene selvaggi

ne' chiusi di creta e di giunchi

o sotto le tende di cupa

cànape simili a quelle

che vidi nel muto Deserto.

Nel tuo teatro, o Torìco,

dinanzi all'isola lunga

cui diè la Tindaride il nome,

tra moltitudini d'erbe

vedemmo l'Aurora inclinata

a rapire il bel cacciatore

e udimmo il lamento di Procri.

 

Laurio, lungi a' tuoi pozzi oscuri,

alle tue fornaci, alle scorie

del tuo metallo, scoprimmo

una roccia rosea come

il corpo d'un'Evia bagnato

di mosto; ed erabella

che per toccarla scendemmo

tra gli scogli ardui del lido

perdendo il cammino; ma, quando

ritrovammo il cammino

e ci volgemmo a guardarla,

di lungi ell'era anche più bella;

e ne favellammo nel vespro,

tornati alla nave, colcati

sul ponte, prima che il sonno

ci prendesse, parlammo

di lei come d'una divina

carne che fosse vivente

laggiù senza letto d'amore.

E viveano tutte le coste,

dal Sunio al Pirèo, nella sera.

 

Sunio, un mercatore fenicio

fui guardandoti, un montanaro

d'Ircania portato alla guerra

su nave di Medi, un Bitinio

della Propòntide in commercio

d'acònito, un frumentiere

del Chersoneso, un vinaio

di Chio fui guardandoti, ed ebbi

tant'occhi per istupirmi

di te con sempre nuove

pupille; e per venerarti

piloto di Fàlero fui

reduce da Panticapèo,

rivarcato alfin l'Ellesponto

e alfine il Geresto d'Eubea

dopo traffico lungo;

ed anche l'oplìte devoto

fui della Republica, a guardia

dell'argentifero lido,

del metallo sacro all'impresso

conio dell'epònima dea.

 

Promontorio fra tutti

venerando, altèra cervice

della Paràlia rupestra,

il tuo tempio par che si sciolga

come lentissima neve

alle primavere del mare.

Il sale mordace cancella

dalla colonna il solco

dorico, nel masso fenduto

dell'architrave consuma

le groppe ai Centauri e le corna

al maratonio Toro

domato dall'attica forza.

Maratona, Maratona,

aquila precipitosa

dall'ali irsute di lance,

ben ti venne Tèseo sul fronte

degli opliti a fianco d'Echètlo,

dell'eroe rurale che uccise

gran turbe di Medi col suo

mànico d'aratro e poi sparve.

 

Io sul tuo tumulo grande

colsi una rama d'alloro

che dure avea foglie di bronzo

ma bacche tra nere e azzurrigne

rilucenti come la testa

della rondinella cecròpia.

Poi, su la spiaggia arenosa

quasi palestra solenne,

raccolsi una selce che avea

forma di man chiusa. Ed allora

vidi Cinegìro figliuolo

d'Euforione aggrapparsi

alla protome della prua

barbarica, sotto la scure

del Medo; il combattimento

maraviglioso dell'Uomo

e della Nave, nel sangue

nell'incendio e nell'oro

di Serse, vidi anelando;

e chinarsi Eschilo armato

sopra il rosso tronco fraterno.

 

 


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