XV.
«Borda
randa! Issa flocco!
Sciogliamo
le vele del triste
ritorno,
miei dolci compagni.
Il nostro
perìplo è compiuto.»
E Delo fu l'ultimo
approdo;
ma la
cicala d'Apollo
nella sua
gabbia di giunco
marino era
muta, era morta.
«Salve,
fondamento d'iddii,
ramoscel
soave alla prole
di Leto
dal fulgido crine,
figlia del
ponto, prodigio
immobile
dell'ampia
terra; cui
chiamano Delo
i mortali,
ma nell'Olimpo
i beati
astro della cupa
terra
lungi apparito!»
L'infranta
strofe dell'ode
tebana,
come un'altra
ruina
sublime, era innanzi
alla
nostra tristezza.
Nell'inno
dell'Omerìde,
come in
lontananza insulare,
sonavan
gli ululi di Leto
per nove
giorni e per nove
notti
travagliata dal parto
del dio
(gittò ella le braccia
intorno
alla palma, i ginocchi
sul prato
pontò nello sforzo:
alfine
Apolline irruppe
dal
lacerato grembo
alla luce:
intorno le dee
confortatrici,
anche Ilifìa
la tardi
venuta d'Olimpo,
conclamarono);
e i canti
e le danze
e i giochi e le gare
de' Ionii
dai lunghi chitóni
adunati a'
piedi del Cinto
sonavano.
E stava seduto
quivi
incontro al Sole oriente
il cieco
Omerìde, in un cerchio
di vergini
dèlie ascoltanti.
Io dissi:
«Adoriamo nel sasso
sterile
angusto e doglioso
la
fecondità degli Ellèni».
Morta era
Delo su l'acque,
deserta,
nuda, affocata
dal
meridiano furore.
Ogni sua
pietra ardeva
come già
nei forni i frammenti
delle sue
statue divine
incotti
dai mercatanti
di calce a
murare le case
degli
uomini immondi. La vetta
del Cinto nel
cielo era come
la sommità
di una mitra
disadorna.
Bolliva
il mare
tra Delo e Micòno
più cupo,
come allor quando
gittovvi
Aristide il Giusto
le masse
roventi del ferro
poi che
giurato ebbero il patto
federale i
capi de' Ionii.
Non
diversa apparve nell'alba
dei tempi
l'isola al nàuta
pelasgo
che senza approdare
veleggiava
in vista del Cinto.
«Niuno
giammai le tue rive
toccherà,
niuno giammai
t'onorerà;
né credo
che tu sii
per esser feconda
di pecore
molte o di buoi
né di
vendemmie ricca
né d'arbori
verde» le disse
Leto
affaticata dal peso
del
nascituro. Deserta
e nuda
l'isola ardeva,
come oggi,
al meriggio d'estate.
E venne
l'Ellèno e le disse:
«Perché tu
sei sterile, o figlia
del ponto,
io t'eleggo e ti sposo.
Trarre
saprà dal tuo grembo
aspro le
abondanze e le gioie
il
fecondatore di rupi».
E, intorno
all'ara construtta
coi corni
dei capri abbattuti
dagli
strali del Lungescagliante,
sorsero i
templi le stoe
le esedre
i granai le apotèche.
Santuario
ed emporio
dell'Ellade,
l'isola ortìgia
attrasse
da tutte le rive
del
Mediterraneo Mare
le teorie
dei devoti,
le
compagnie dei mercanti,
la triere
adorna di fiori
con uomini
liberi ai remi,
la strongile
onusta di grano
con ciurma
di schiavi oleosi.
Da
Alessandria a Bisanzio,
da Rodi a
Creta, da Ostia
a
Làmpsaco, da Siracusa
a
Laodicèa, da Mileto
a Sìbari
tutte le genti
recavano
l'inno e il tributo.
Nella
vicenda sanguigna
dell'armi,
ogni Egèmone armato
del
Mediterraneo Mare
alzar
volle quivi, tra il Cinto
e
l'occidental lido, in gloria
il
monumento superbo
alla sua
potenza navale.
Da Ulisse
ad Antioco Epifàne,
i re
v'approdarono. Il quinto
Filippo
Macèdone v'ebbe
la stoa
tetràgona, insigne
di seggi e
di statue. Nicia
v'entrò
sopra un ponte splendente
di ori,
con un popolo bianco
di musici.
I Tolomei
dall'immensità
sepolcrale
vennero,
offerte recando
ismisurate.
La rosa
della
Republica ròdia
vi fiorì
di porpora. In pace
vi stette
la Lupa di Roma.
E nessuno
vi nacque
da utero
umano, e nessuno
vi morì in
carne corrotta.
L'isola
mondata fu d'ogni
putredine.
Il dio luminoso
vi
diffondea col respiro
un'armonia
sempre eguale.
Le sue
corone i suoi vasi
le sue
vesti eran di tanto
lume che il
perìbolo sacro
mai non
conobbe la notte.
Il disco
del lago specchiava
la faccia
indicibile. Intorno
all'ara
dei Corni la danza
fingea con
ambagi infinite
il Laberinto
cretese.
L'efebo e
la vergine i ricci
recisi
avvolgeano ai virgulti
e ai fusi
per quelli deporre
sopra le
tombe nel tempio
d'Artèmide
nata gemella.
«Delo» io
pregai nel mio cuore
«sterilità
più bella
che tutta
la fronda di Tempe,
la forza
dell'anima ellèna
in ogni
tua pietra m'appare
chiusa
qual seme in gleba,
sì che
alcuna delle perfette
forme
contemplate con gioia
ne' luoghi
famosi, o febèa,
non mi
ammaestra come
la tua
solitudine inulta.
Deh fa che
sempre io ti veda,
con gli
occhi dell'anima invitta,
fa che io
ti veda qual sei,
immobile
ignuda e fatale
su le
quattro ardue colonne
sorte
dagli abissi del ponto
per
sostenerti, e ch'io veda
Leto
abbracciare la palma
pontare i
ginocchi sul prato
per
partorirti il bel dio!
Ecco, noi
sciogliamo le vele
a
dipartirci. Il periplo
è
compiuto. Navigheremo
verso
Messàna falcata,
verso la
vorace Caribdi.
Da questa
patria a un'altra
patria
ch'è pur sacra agli iddii
veleggeremo,
colmi
di vita i
precordii, spumanti
e
traboccanti d'ebrezza,
pronti a
combattere, certi
di
vincere, poi che apprendemmo
a cantare
il peana
nelle
acque di Salamina,
nei piani
di Maratona,
e a
correre dando l'assalto.
Vivemmo,
divinamente
vivemmo!
All'antica mammella
ci
abbeverammo, ancor piena.
La bestia
inferma uccidemmo
nel nostro
fango penoso.
Come per
osservare
l'oracolo
gli Ateniesi
purgarono tutto
il tuo suolo,
noi anche
disseppellimmo
i nostri
cadaveri informi
e li
scagliammo all'abisso,
e dietro
di loro gittammo
pietre
pesanti ed obbrobrio
per
consegnarli all'abisso.
Or tu,
nella mia dipartita,
o Rupe, da
tutta la tua
nudità cui
più non fa velo
il fumo
delle ecatombi,
ripeti a
me l'unica legge
cui voglio
obbedire: SII PURO.
T'obbedirò
nella luce
t'obbedirò
nell'ombra,
Delìaca
Legge, che splendi
su
l'Ellade come il suo cielo
pudico. In
segreto e in palese,
per sempre
sarò tuo fedele.
Vertice
del Cinto, e sovente
io ti
manderò sacri doni.
Narravano
i Delii che a quando
a quando
sacri doni,
involti in
paglia di grano,
giungessero
dal paese
degli
Iperborei in Iscizia;
e che
dalla Scizia, trasmessi
di popolo
in popolo, verso
occidente,
fosser recati
sul Golfo
Adriatico e poi
ad austro,
primieramente
raccolti in
Dodona da Ellèni,
scendessero
nell'Eubea
e quindi
sino a Caristo;
e che dai
Caristii, lasciata
da banda
l'isola di Andro,
recati
fossero a Teno
e
ultimamente dai Tenii
consegnati
fossero a Delo,
involti in
paglia di grano.
Ovunque io
mi sia, nelle terre
distanti,
in liete sorti o in dure,
in guerra
o in pace, miei doni
ti manderò
similmente
involti in
paglia di grano,
ché non so
custodia più monda.
Ma il mio
primo dono
ti verrà
forse dal luogo
che ti
successe in potenza
quando
passato fu sopra
i tuoi
granai e le tue stoe
il turbine
di Mitridate:
da Ostia
romana, ov'Enea
del sangue
di Dàrdano prese
la terra
(accolto l'avevi
già tu su
le concave navi
construtte
coi pini dell'Ida)
e sotto
l'arbore assiso
col bel
Iulo e coi primi duci
mangiò per
fame le adòree
mense e
disse: «Qui è la patria!».
Ivi trovar
voglio il fascio
cereale dei
culmi biondi
per
chiudere il dono mio primo.
Conosco il
luogo; e, s'io penso
che lo
rivedrò, mi s'allevia
la
tristezza del dipartire
perché già
riodo il Ponente
che su la
via de' Sepolcri,
sul tempio
della Magna Madre,
verso la
selva laurèntia
soffia
traendo la morte
e la vita,
la memoria
e la
speranza. Ivi un giorno,
dalla
soglia d'africo marmo
dinanzi
alla cella di rosso
mattone
spogliata ma grande,
vidi tra
gli stìpiti eretti
della
Porta Marina
mirabili
spiche ondeggiare
non certo
nate da semi
cui sparsi
avesse man d'uomo.
Non lungi
era il Tevere torvo
fra
deserti argini; e le negre
navi dalle
cùbie dipinte
di minio,
cariche di molte
botti,
navigavano contro
corrente
per ormeggiarsi
all'ombra
del Sasso Aventino;
e venìa
sul soffio il cantare
dei
marinai di Sicilia
e dei
garzonetti campàni
dal crin
di viola, che belli
son forse
come i fanciulli
danzanti
il gèrano intorno
ai tuoi
turìferi altari.
O Delo,
forse le spiche
di sé
medesime nate
tra que'
due stipiti eretti
della
Porta Marina
ritroverò,
per mandarti
involto in
quel misterioso
frumento
il mio primo dono.»
Così
pregai nel mio cuore;
e ciascun
dei dolci compagni
forse
anche pregò nel suo cuore
segreto,
perché non s'udiva
parola. Ed
èramo tutti
a poppa
raccolti, in silenzio.
Ed uno di
noi, che taceva
con fronte
ostinata, era sacro
a morte
precoce, più caro
d'ogni
altro agli iddii come eletto
a perir
giovine e in atto
di compier
l'impresa cui s'era
devoto con
anima salda.
Or quegli
nella memoria
più
fortemente mi vive;
e lui vedo
presso la ruota
del timone
in quel punto,
fitto su
le gambe sue snelle
e nervose
di corritore
del lungo
stadio, guatare
con gli
occhi chiarissimi il solco.
In verità,
fra i compagni
egli era
il più pallido. Quasi
esangue
appariva il suo vólto;
ma i suoi
biondi capelli
sorgevano
senza mollezza
su la
robusta ossatura
della fronte
nata a cozzare
contra
l'impedimento;
e di
virtuoso rilievo
su'
chiarissimi occhi era l'arco
dei
sopraccigli, sobria
la bocca e
di netto discorso,
agile il
collo se bene
la nuca sì
ferma paresse
ch'io le
comparai la cervice
d'Eràcle
che l'Etra sostiene
tra la
bella Espèride e Atlante
nella
metòpe d'Olimpia.
Ei ne
sorrise. Ma certo
gli
sovrastava continua
l'imagine
immensa d'un cielo.
Veduto
avea splendere nuove
stelle in
un cielo incurvato
su selve
più vaste che tutta
l'Ellade,
su fiumi più larghi
che gli
ellesponti e gli euripi,
nel
Continente australe,
tra fosche
incognite stirpi
dall'anima
ancóra constretta
nell'inviluppo
terrestre
come gli
iddii primitivi
dell'Ellade
erano ancor misti
agli
elementi del Cosmo.
Condotto
avea su le notturne
correntie
la spaziosa
rate
carica di tronchi
centenni e
mirato il volume
infinito
dell'acque
palpitar
d'astri qual cielo
irriguo e
l'alba levarsi
dai
silenzii possente
come per
un giorno eternale.
Un
Ulisside egli era.
Perpetuo
desìo della terra
incognita
l'avido cuore
gli
affaticava, desìo
d'errare
in sempre più grande
spazio, di
compiere nuova
esperienza
di genti
e di
perigli e di odori
terrestri.
Come le schiave
di Bitinia
o di Frigia
recavano
in letto corintio
l'indelebile
aroma
natale,
così le sue patrie
remore
nell'anima sua
voluttuosamente
odoravano.
Ei sorridea
dinanzi
all'olivo d'Atena
pensando
la smisurata
fronda
opulenta di fiori
di frutti
di piume che tutti
vincono i
monili di Serse.
L'Ilisso e
il Cefìso ruscelli
sassosi
pareangli, che varca
il salto
d'un uomo; l'Imetto,
un alveare
declive;
il
Pentèlico, un tempio
dal lungo
tìmpano, senza
intercolunnii;
tutta
l'Attica
pareagli dal cinto
aureo di
Afrodite conclusa.
O dolce
compagno, ebro e folle
d'immensità,
ti rivedo
àlacre
all'alba sul ponte,
il primo
ai risvegli e ai lavacri
mattutini,
vigile come
il gallo,
sempre operoso,
Ulissìde!
Il tuo piede scalzo
rivedo sul
nitido ponte,
il piè
dalla pianta ampia e certa,
dal
maschio e divergente
pollice,
il piè corritore
del lungo
stadio, o Ulissìde.
Tu eri il
più sobrio e il più casto;
e, se il
compagno avea sete,
perché
quegli bevesse
tu non
bevevi, contento.
E nei
polverosi cammini,
per l'erte
difficili, amavi
portare
l'ingombro dei pesi,
né per ciò
mutavi il tuo passo
espedito;
ché il tuo bel corpo
era immune
d'adipe ignavo,
come
l'ottime spiche
arente
sotto il mai curvo
tuo capo
d'oro, Ulissìde.
Intento a
disciplinarti
eri
sempre, anco ne' piaceri
fugaci, e
ad apprendere molto,
ad essere industre
tu solo
come
uomini molti; e sapevi
apprestarti
il tuo cibo
e rimendar
la tua veste
come la
tua vela, Ulissìde.
Compagno
diletto, che mai
mi fosti
grave e mai con l'ombra
tua mi
togliesti il mio sole,
non più
dunque presso il timone
seduto su
fascio di corde
io ti
leggerò l'avventura
del Re di
tempeste Odisseo
che dopo
le nove giornate
ventose
approdò nella terra
dei
mangiatori di loto,
che
mangiano il fiore del loto
che fa
obliare il ritorno
a chi la
dolcezza ne prova?
Ahimè, ti
scordasti il ritorno
tu anche,
ma non per quel fiore
soave, e
mai più tornerai
col tuo
passo certo e leggero
verso di
noi che t'attendemmo
sì
lungamente e sperammo
di udir la
tua limpida voce
narrar la
conquista lontana!
Sotto la
clava del selvaggio
predone
cadesti, senza
vìndici,
nell'umida ombra;
mentre tu,
svelto odiatore
di
salmerìe e di scorte
con
silenzioso ardimento
t'addentravi
nella foresta
letale,
obbedendo al tuo fato
che ti
spingea senza tregua
più oltre
più oltre nel nuovo.
Prono
cadesti, e il tuo sangue
ottimo, il
sangue del capo,
bagnò
l'erbe e i fiori dell'umo
di là
dall'ultima orma
che
stampata avevi col piede
veloce;
sicché procombendo
andasti
pur sempre più oltre:
il tuo
corpo, ove spegneasi
il pronto
vigore latino,
occupar
valse anco un tratto
di terra
ignota, o Ulissìde.
Gloria a
te! Ricordato
sarai se
non muoia il mio canto
fra
l'itala gente. A te gloria!
E ti
rivedo, sul Mare
Mirtòo,
presso la ruota
del timone
in quel punto,
ritto su
le gambe tue snelle
e nervose
di corritore
del lungo
stadio, guatare
con gli
occhi chiarissimi il solco.
E t'era
non molto discosto
un altro
compagno di stirpe
migrante,
dei vizii umani
esperto e
del valore,
e degli
odii, duro in oprare
e
combattere, aspro in trattare
la pelle
infetta dei greggi,
occhio
aguzzo, collo taurino,
fermo
pugno, pensier destro
a ogni
lotta come compiuto
atleta al
pancrazio e al pentàtlo.
E questi
avea seco, qual pegno
d'amore,
la sferza untuosa
tagliata
nel cuoio ferrigno
del
pachidermo fiumale,
fatta
untuosa dai dorsi
negri
stillanti di sevo
fetido. E
amava d'amore
anch'egli
una terra lontana,
la terra
ignìta ove la Sfinge
all'urto
dell'uomo ritratta
s'è dalle
sabbie del Nilo
ad altre
piagge crudeli
e in
silenzio attende l'audace
per farsi
alla gola una torque
di candidi
ossi novella.
E certo
anch'egli in quel punto
travagliato
era dal suo
grande
amor periglioso;
ché tutti
avevamo una febbre
di sogni
nel sangue e donata
l'anima a
grandezze lontane.
Il Sol
declinando, caduto
era ogni
soffio come
tra Itaca
aspra di rupi
e Same
irta di cipressi
là sul
Ionio Mare nel giorno
memorabile.
In cerchio
sorgeano
dall'acque serene
le belle
Cicladi, d'oro
e d'avorio
come le ricche
statue
foggiate col fiore
della
preda di guerra.
Più d'ogni
altro monte splendeva
il
Marpesso, onde gli Ellèni
tratto
avean la candida carne
de' loro
iddii. Lungi, l'Eubea
l'Attica
il Peloponneso
tutta
l'Ellade santa
era
invisibile ai nostri
occhi ma
presente in eterno.
Anche una
volta ascoltammo
l'ora
della vita sublime.
E dai
campi delle battaglie
terribili,
da Mantinèa
da Platèa
da Cheronèa
da Potidèa
da Leuctra,
da tutti i
campi sacri
alle
grandi stragi di genti,
sorse per
entro quell'aere
melodioso
un clamore
discorde:
il lagno dei vinti,
lo scherno
dei vincitori,
il canto
amebèo della guerra.
Ebri
d'antiche bellezze
e di
nuove, dalle soglie
del
venerabile Olimpo
ardentemente
protesi
verso
primavere ed estati
future,
avidi di dominio
e di
gloria, pel nostro amore
pronti ad
ogni più disperato
combattimento,
ascoltammo
con intimo
fremito il canto.
Diceano i
vinti: «O iddii,
o iddii,
proteggete la nostra
terra se
mai v'offerimmo
in
sacrificio il bianco
e nero
fiore dei greggi,
le
primizie degli orti!
Spavento,
sciagura, vergogna
si
precipitano sopra
la stirpe
che amaste, cui foste
per sì
lungo tempo benigni.
Ah! Ah! Udite,
udite
lo
scalpito dei cavalli
dietro la
polve messaggera
di morte,
lo stridor degli assi
nei mozzi,
l'urto dei clìpei
e delle
gambiere di bronzo.
L'etere è
tutto irto di lance.
Le
catenelle dei freni
induriti
col fuoco, ecco, ecco,
tintinnano
nelle bocche
schiumanti.
Ecco l'ultima strage!».
I
vincitori: «Gli iddii
son coi
vittoriosi!
Pascere
Ares noi vogliamo
con la
vostra carne cruenta.
Zeus non
v'ode, non v'ode
l'ippico
Re, non Apollo.
La spada a
due tagli l'estrema
luce fa su
gli occhi del vinto.
La
Necessità vi tien presa
la strozza
come noi l'elsa
d'argento
tegnamo nel pugno
e la
coróne dell'arco
e della
frombola il cappio
per
forarvi il cuore tremante,
per
fendervi il cranio curvato,
per
frangervi ambo i ginocchi.
A terra! A
terra! Gli iddii
non
v'odono. La città vostra,
con l'oro
la porpora i vasi
di vino i
bei letti e le donne,
alla
nostra fame è promessa».
Diceano i
vinti: «Sciagura!
Gli iddii
disertano i templi!
Pur quegli
che sorse dal suolo
onde noi
nascemmo, ci lascia!
Ah per
questo nascemmo,
per esser
calpesti, premuti
come il
grano sotto la mola
come nel
frantoio l'oliva
come l'uva
nel tino,
per esser
pan d'ossa trite,
olio di
midolle, vin rosso
di vene al
banchetto feroce!
Gli iddii
son co' vittoriosi
anche
vili. Il cielo è su noi
come
clipeo nemico
che porti
nell'ònfalo il capo
gorgóneo
per impietrarci.
E quante
ecatombi v'offrimmo,
o Zeus, o
figlia di Leto,
o Cipride
madre di nostra
gente, per
quest'onta nefanda!».
I
vincitori: «Molesto
è agli
iddii l'odore fumoso
delle
ecatombi offerte
da femmine
imbelli. Tacete!
Vociferar
contra gli iddii
non vi
giova. Le lingue
loquaci vi
strapperemo
noi dalle
fauci per darle
in pasto
alle cagne e alle scrofe.
Voliamo,
voliamo, cavalli
di belle
criniere, voliamo,
carri
dall'aureo timone,
su i petti
e su i dorsi dei vinti!
La
polvere, la sitibonda
sorella
del fango, ha bevuto
un fiume
di sangue ed è nera.
Meglio è
segnar nuovi solchi
di ruote
sul tramite umano,
su i vivi
e su i morti prostesi.
A terra! A
terra! Voi siete
la via su
cui passano i carri».
Diceano i
vinti: «Eccoci a terra,
eccoci
proni, prostesi
davanti
all'unghie dei vostri
cavalli.
Se gli iddii
non odono,
udite la nostra
preghiera
voi, uomini, nati
dell'uman
seme come noi
ne
nascemmo in giorno nefasto!».
E i
vincitori: «Non siete
voi
uomini, sì siete cose
da noi
possedute, men buone
dei
vestimenti, dei vasi,
dei letti.
Noi dalle vostre
viscere
trarremo le corde
adatte
alle frombole e agli archi;
e le
serberemo pel giorno
in cui ci
bisogni domare
novamente
insania di schiavi
se qualche
rampollo risorga
dal tronco
che abbiamo reciso.
Ma non
lasceremo radici».
«Ecco,
ecco, siamo la via
palpitante
sotto il galoppo
di ferro.
Ma il cuore vi tocchi
pianto di
vergini, vagito
di
pargoli, ululo di madri!
Ardete le
case, abbattete
le torri,
struggete dall'imo
la città,
le ceneri ai vènti
date e i
nostri corpi agli uccelli
voraci, ma
fate che il gregge
misero
lasci le mura
e lungi
nasconda il suo lutto!»
«Le vostre
vergini molli
le
soffocheremo nel nostro
amplesso
robusto. Sul marmo
dei
ginecei violati
sbatteremo
i pargoli vostri
come
cuccioli. Il grembo
delle
madri noi scruteremo
col fuoco,
e non rimarranno
germi
nelle piaghe fumanti.»
«Ah, non
avete sorelle
che a'
telai vi tessano vesti
soavi
aspettando il ritorno?»
«Già corse
il Messo. Ora annunzia
che
vincemmo. Ed elle infiammate
gittano le
spole e «Sien grandi»
sclàmano
«la strage e le prede!»
«Non mogli
avete che appeso
rèchino
alla mammella un dolce
figliuolo
e gli càntino il sonno?»
«Elle ne'
lor seni hanno latte
di
leonessa e al figliuolo
dicono: «Se
il germe rinasca
malvagio,
tu crescimi forte
e
schiantalo ancóra e per sempre!.»
«Non madri
avete al focolare?»
«L'arme
pesarono ammonendo:
«Non ti
stancar mai di ferire.
Sia
l'ultimo colpo il più crudo».
Voliamo
voliamo, cavalli
di fuoco,
sul fango dei vinti!»