Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Laudi
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LIBRO PRIMO - MAIA

1 - Laus vitae

XV.

«»

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XV.

 

«Borda randa! Issa flocco!

Sciogliamo le vele del triste

ritorno, miei dolci compagni.

Il nostro perìplo è compiuto

E Delo fu l'ultimo approdo;

ma la cicala d'Apollo

nella sua gabbia di giunco

marino era muta, era morta.

«Salve, fondamento d'iddii,

ramoscel soave alla prole

di Leto dal fulgido crine,

figlia del ponto, prodigio

immobile dell'ampia

terra; cui chiamano Delo

i mortali, ma nell'Olimpo

i beati astro della cupa

terra lungi apparito

L'infranta strofe dell'ode

tebana, come un'altra

ruina sublime, era innanzi

alla nostra tristezza.

 

Nell'inno dell'Omerìde,

come in lontananza insulare,

sonavan gli ululi di Leto

per nove giorni e per nove

notti travagliata dal parto

del dio (gittò ella le braccia

intorno alla palma, i ginocchi

sul prato pontò nello sforzo:

alfine Apolline irruppe

dal lacerato grembo

alla luce: intorno le dee

confortatrici, anche Ilifìa

la tardi venuta d'Olimpo,

conclamarono); e i canti

e le danze e i giochi e le gare

de' Ionii dai lunghi chitóni

adunati a' piedi del Cinto

sonavano. E stava seduto

quivi incontro al Sole oriente

il cieco Omerìde, in un cerchio

di vergini dèlie ascoltanti.

 

Io dissi: «Adoriamo nel sasso

sterile angusto e doglioso

la fecondità degli Ellèni».

Morta era Delo su l'acque,

deserta, nuda, affocata

dal meridiano furore.

Ogni sua pietra ardeva

come già nei forni i frammenti

delle sue statue divine

incotti dai mercatanti

di calce a murare le case

degli uomini immondi. La vetta

del Cinto nel cielo era come

la sommità di una mitra

disadorna. Bolliva

il mare tra Delo e Micòno

più cupo, come allor quando

gittovvi Aristide il Giusto

le masse roventi del ferro

poi che giurato ebbero il patto

federale i capi de' Ionii.

 

Non diversa apparve nell'alba

dei tempi l'isola al nàuta

pelasgo che senza approdare

veleggiava in vista del Cinto.

«Niuno giammai le tue rive

toccherà, niuno giammai

t'onorerà; né credo

che tu sii per esser feconda

di pecore molte o di buoi

né di vendemmie ricca

né d'arbori verde» le disse

Leto affaticata dal peso

del nascituro. Deserta

e nuda l'isola ardeva,

come oggi, al meriggio d'estate.

E venne l'Ellèno e le disse:

«Perché tu sei sterile, o figlia

del ponto, io t'eleggo e ti sposo.

Trarre saprà dal tuo grembo

aspro le abondanze e le gioie

il fecondatore di rupi».

 

E, intorno all'ara construtta

coi corni dei capri abbattuti

dagli strali del Lungescagliante,

sorsero i templi le stoe

le esedre i granai le apotèche.

Santuario ed emporio

dell'Ellade, l'isola ortìgia

attrasse da tutte le rive

del Mediterraneo Mare

le teorie dei devoti,

le compagnie dei mercanti,

la triere adorna di fiori

con uomini liberi ai remi,

la strongile onusta di grano

con ciurma di schiavi oleosi.

Da Alessandria a Bisanzio,

da Rodi a Creta, da Ostia

a Làmpsaco, da Siracusa

a Laodicèa, da Mileto

a Sìbari tutte le genti

recavano l'inno e il tributo.

 

Nella vicenda sanguigna

dell'armi, ogni Egèmone armato

del Mediterraneo Mare

alzar volle quivi, tra il Cinto

e l'occidental lido, in gloria

il monumento superbo

alla sua potenza navale.

Da Ulisse ad Antioco Epifàne,

i re v'approdarono. Il quinto

Filippo Macèdone v'ebbe

la stoa tetràgona, insigne

di seggi e di statue. Nicia

v'entrò sopra un ponte splendente

di ori, con un popolo bianco

di musici. I Tolomei

dall'immensità sepolcrale

vennero, offerte recando

ismisurate. La rosa

della Republica ròdia

vi fiorì di porpora. In pace

vi stette la Lupa di Roma.

 

E nessuno vi nacque

da utero umano, e nessuno

vi morì in carne corrotta.

L'isola mondata fu d'ogni

putredine. Il dio luminoso

vi diffondea col respiro

un'armonia sempre eguale.

Le sue corone i suoi vasi

le sue vesti eran di tanto

lume che il perìbolo sacro

mai non conobbe la notte.

Il disco del lago specchiava

la faccia indicibile. Intorno

all'ara dei Corni la danza

fingea con ambagi infinite

il Laberinto cretese.

L'efebo e la vergine i ricci

recisi avvolgeano ai virgulti

e ai fusi per quelli deporre

sopra le tombe nel tempio

d'Artèmide nata gemella.

 

«Delo» io pregai nel mio cuore

«sterilità più bella

che tutta la fronda di Tempe,

la forza dell'anima ellèna

in ogni tua pietra m'appare

chiusa qual seme in gleba,

sì che alcuna delle perfette

forme contemplate con gioia

ne' luoghi famosi, o febèa,

non mi ammaestra come

la tua solitudine inulta.

Deh fa che sempre io ti veda,

con gli occhi dell'anima invitta,

fa che io ti veda qual sei,

immobile ignuda e fatale

su le quattro ardue colonne

sorte dagli abissi del ponto

per sostenerti, e ch'io veda

Leto abbracciare la palma

pontare i ginocchi sul prato

per partorirti il bel dio!

 

Ecco, noi sciogliamo le vele

a dipartirci. Il periplo

è compiuto. Navigheremo

verso Messàna falcata,

verso la vorace Caribdi.

Da questa patria a un'altra

patria ch'è pur sacra agli iddii

veleggeremo, colmi

di vita i precordii, spumanti

e traboccanti d'ebrezza,

pronti a combattere, certi

di vincere, poi che apprendemmo

a cantare il peana

nelle acque di Salamina,

nei piani di Maratona,

e a correre dando l'assalto.

Vivemmo, divinamente

vivemmo! All'antica mammella

ci abbeverammo, ancor piena.

La bestia inferma uccidemmo

nel nostro fango penoso.

 

Come per osservare

l'oracolo gli Ateniesi

purgarono tutto il tuo suolo,

noi anche disseppellimmo

i nostri cadaveri informi

e li scagliammo all'abisso,

e dietro di loro gittammo

pietre pesanti ed obbrobrio

per consegnarli all'abisso.

Or tu, nella mia dipartita,

o Rupe, da tutta la tua

nudità cui più non fa velo

il fumo delle ecatombi,

ripeti a me l'unica legge

cui voglio obbedire: SII PURO.

T'obbedirò nella luce

t'obbedirò nell'ombra,

Delìaca Legge, che splendi

su l'Ellade come il suo cielo

pudico. In segreto e in palese,

per sempre sarò tuo fedele.

Vertice del Cinto, e sovente

io ti manderò sacri doni.

Narravano i Delii che a quando

a quando sacri doni,

involti in paglia di grano,

giungessero dal paese

degli Iperborei in Iscizia;

e che dalla Scizia, trasmessi

di popolo in popolo, verso

occidente, fosser recati

sul Golfo Adriatico e poi

ad austro, primieramente

raccolti in Dodona da Ellèni,

scendessero nell'Eubea

e quindi sino a Caristo;

e che dai Caristii, lasciata

da banda l'isola di Andro,

recati fossero a Teno

e ultimamente dai Tenii

consegnati fossero a Delo,

involti in paglia di grano.

 

Ovunque io mi sia, nelle terre

distanti, in liete sorti o in dure,

in guerra o in pace, miei doni

ti manderò similmente

involti in paglia di grano,

ché non so custodia più monda.

Ma il mio primo dono

ti verrà forse dal luogo

che ti successe in potenza

quando passato fu sopra

i tuoi granai e le tue stoe

il turbine di Mitridate:

da Ostia romana, ov'Enea

del sangue di Dàrdano prese

la terra (accolto l'avevi

già tu su le concave navi

construtte coi pini dell'Ida)

e sotto l'arbore assiso

col bel Iulo e coi primi duci

mangiò per fame le adòree

mense e disse: «Qui è la patria!».

 

Ivi trovar voglio il fascio

cereale dei culmi biondi

per chiudere il dono mio primo.

Conosco il luogo; e, s'io penso

che lo rivedrò, mi s'allevia

la tristezza del dipartire

perché già riodo il Ponente

che su la via de' Sepolcri,

sul tempio della Magna Madre,

verso la selva laurèntia

soffia traendo la morte

e la vita, la memoria

e la speranza. Ivi un giorno,

dalla soglia d'africo marmo

dinanzi alla cella di rosso

mattone spogliata ma grande,

vidi tra gli stìpiti eretti

della Porta Marina

mirabili spiche ondeggiare

non certo nate da semi

cui sparsi avesse man d'uomo.

 

Non lungi era il Tevere torvo

fra deserti argini; e le negre

navi dalle cùbie dipinte

di minio, cariche di molte

botti, navigavano contro

corrente per ormeggiarsi

all'ombra del Sasso Aventino;

e venìa sul soffio il cantare

dei marinai di Sicilia

e dei garzonetti campàni

dal crin di viola, che belli

son forse come i fanciulli

danzanti il gèrano intorno

ai tuoi turìferi altari.

O Delo, forse le spiche

di sé medesime nate

tra que' due stipiti eretti

della Porta Marina

ritroverò, per mandarti

involto in quel misterioso

frumento il mio primo dono

 

Così pregai nel mio cuore;

e ciascun dei dolci compagni

forse anche pregò nel suo cuore

segreto, perché non s'udiva

parola. Ed èramo tutti

a poppa raccolti, in silenzio.

Ed uno di noi, che taceva

con fronte ostinata, era sacro

a morte precoce, più caro

d'ogni altro agli iddii come eletto

a perir giovine e in atto

di compier l'impresa cui s'era

devoto con anima salda.

Or quegli nella memoria

più fortemente mi vive;

e lui vedo presso la ruota

del timone in quel punto,

fitto su le gambe sue snelle

e nervose di corritore

del lungo stadio, guatare

con gli occhi chiarissimi il solco.

In verità, fra i compagni

egli era il più pallido. Quasi

esangue appariva il suo vólto;

ma i suoi biondi capelli

sorgevano senza mollezza

su la robusta ossatura

della fronte nata a cozzare

contra l'impedimento;

e di virtuoso rilievo

su' chiarissimi occhi era l'arco

dei sopraccigli, sobria

la bocca e di netto discorso,

agile il collo se bene

la nucaferma paresse

ch'io le comparai la cervice

d'Eràcle che l'Etra sostiene

tra la bella Espèride e Atlante

nella metòpe d'Olimpia.

Ei ne sorrise. Ma certo

gli sovrastava continua

l'imagine immensa d'un cielo.

 

Veduto avea splendere nuove

stelle in un cielo incurvato

su selve più vaste che tutta

l'Ellade, su fiumi più larghi

che gli ellesponti e gli euripi,

nel Continente australe,

tra fosche incognite stirpi

dall'anima ancóra constretta

nell'inviluppo terrestre

come gli iddii primitivi

dell'Ellade erano ancor misti

agli elementi del Cosmo.

Condotto avea su le notturne

correntie la spaziosa

rate carica di tronchi

centenni e mirato il volume

infinito dell'acque

palpitar d'astri qual cielo

irriguo e l'alba levarsi

dai silenzii possente

come per un giorno eternale.

 

Un Ulisside egli era.

Perpetuo desìo della terra

incognita l'avido cuore

gli affaticava, desìo

d'errare in sempre più grande

spazio, di compiere nuova

esperienza di genti

e di perigli e di odori

terrestri. Come le schiave

di Bitinia o di Frigia

recavano in letto corintio

l'indelebile aroma

natale, così le sue patrie

remore nell'anima sua

voluttuosamente

odoravano. Ei sorridea

dinanzi all'olivo d'Atena

pensando la smisurata

fronda opulenta di fiori

di frutti di piume che tutti

vincono i monili di Serse.

 

L'Ilisso e il Cefìso ruscelli

sassosi pareangli, che varca

il salto d'un uomo; l'Imetto,

un alveare declive;

il Pentèlico, un tempio

dal lungo tìmpano, senza

intercolunnii; tutta

l'Attica pareagli dal cinto

aureo di Afrodite conclusa.

O dolce compagno, ebro e folle

d'immensità, ti rivedo

àlacre all'alba sul ponte,

il primo ai risvegli e ai lavacri

mattutini, vigile come

il gallo, sempre operoso,

Ulissìde! Il tuo piede scalzo

rivedo sul nitido ponte,

il piè dalla pianta ampia e certa,

dal maschio e divergente

pollice, il piè corritore

del lungo stadio, o Ulissìde.

 

Tu eri il più sobrio e il più casto;

e, se il compagno avea sete,

perché quegli bevesse

tu non bevevi, contento.

E nei polverosi cammini,

per l'erte difficili, amavi

portare l'ingombro dei pesi,

né per ciò mutavi il tuo passo

espedito; ché il tuo bel corpo

era immune d'adipe ignavo,

come l'ottime spiche

arente sotto il mai curvo

tuo capo d'oro, Ulissìde.

Intento a disciplinarti

eri sempre, anco ne' piaceri

fugaci, e ad apprendere molto,

ad essere industre tu solo

come uomini molti; e sapevi

apprestarti il tuo cibo

e rimendar la tua veste

come la tua vela, Ulissìde.

 

Compagno diletto, che mai

mi fosti grave e mai con l'ombra

tua mi togliesti il mio sole,

non più dunque presso il timone

seduto su fascio di corde

io ti leggerò l'avventura

del Re di tempeste Odisseo

che dopo le nove giornate

ventose approdò nella terra

dei mangiatori di loto,

che mangiano il fiore del loto

che fa obliare il ritorno

a chi la dolcezza ne prova?

Ahimè, ti scordasti il ritorno

tu anche, ma non per quel fiore

soave, e mai più tornerai

col tuo passo certo e leggero

verso di noi che t'attendemmo

lungamente e sperammo

di udir la tua limpida voce

narrar la conquista lontana!

 

Sotto la clava del selvaggio

predone cadesti, senza

vìndici, nell'umida ombra;

mentre tu, svelto odiatore

di salmerìe e di scorte

con silenzioso ardimento

t'addentravi nella foresta

letale, obbedendo al tuo fato

che ti spingea senza tregua

più oltre più oltre nel nuovo.

Prono cadesti, e il tuo sangue

ottimo, il sangue del capo,

bagnò l'erbe e i fiori dell'umo

di dall'ultima orma

che stampata avevi col piede

veloce; sicché procombendo

andasti pur sempre più oltre:

il tuo corpo, ove spegneasi

il pronto vigore latino,

occupar valse anco un tratto

di terra ignota, o Ulissìde.

 

Gloria a te! Ricordato

sarai se non muoia il mio canto

fra l'itala gente. A te gloria!

E ti rivedo, sul Mare

Mirtòo, presso la ruota

del timone in quel punto,

ritto su le gambe tue snelle

e nervose di corritore

del lungo stadio, guatare

con gli occhi chiarissimi il solco.

E t'era non molto discosto

un altro compagno di stirpe

migrante, dei vizii umani

esperto e del valore,

e degli odii, duro in oprare

e combattere, aspro in trattare

la pelle infetta dei greggi,

occhio aguzzo, collo taurino,

fermo pugno, pensier destro

a ogni lotta come compiuto

atleta al pancrazio e al pentàtlo.

 

E questi avea seco, qual pegno

d'amore, la sferza untuosa

tagliata nel cuoio ferrigno

del pachidermo fiumale,

fatta untuosa dai dorsi

negri stillanti di sevo

fetido. E amava d'amore

anch'egli una terra lontana,

la terra ignìta ove la Sfinge

all'urto dell'uomo ritratta

s'è dalle sabbie del Nilo

ad altre piagge crudeli

e in silenzio attende l'audace

per farsi alla gola una torque

di candidi ossi novella.

E certo anch'egli in quel punto

travagliato era dal suo

grande amor periglioso;

ché tutti avevamo una febbre

di sogni nel sangue e donata

l'anima a grandezze lontane.

 

Il Sol declinando, caduto

era ogni soffio come

tra Itaca aspra di rupi

e Same irta di cipressi

sul Ionio Mare nel giorno

memorabile. In cerchio

sorgeano dall'acque serene

le belle Cicladi, d'oro

e d'avorio come le ricche

statue foggiate col fiore

della preda di guerra.

Più d'ogni altro monte splendeva

il Marpesso, onde gli Ellèni

tratto avean la candida carne

de' loro iddii. Lungi, l'Eubea

l'Attica il Peloponneso

tutta l'Ellade santa

era invisibile ai nostri

occhi ma presente in eterno.

Anche una volta ascoltammo

l'ora della vita sublime.

E dai campi delle battaglie

terribili, da Mantinèa

da Platèa da Cheronèa

da Potidèa da Leuctra,

da tutti i campi sacri

alle grandi stragi di genti,

sorse per entro quell'aere

melodioso un clamore

discorde: il lagno dei vinti,

lo scherno dei vincitori,

il canto amebèo della guerra.

Ebri d'antiche bellezze

e di nuove, dalle soglie

del venerabile Olimpo

ardentemente protesi

verso primavere ed estati

future, avidi di dominio

e di gloria, pel nostro amore

pronti ad ogni più disperato

combattimento, ascoltammo

con intimo fremito il canto.

 

Diceano i vinti: «O iddii,

o iddii, proteggete la nostra

terra se mai v'offerimmo

in sacrificio il bianco

e nero fiore dei greggi,

le primizie degli orti!

Spavento, sciagura, vergogna

si precipitano sopra

la stirpe che amaste, cui foste

per sì lungo tempo benigni.

Ah! Ah! Udite, udite

lo scalpito dei cavalli

dietro la polve messaggera

di morte, lo stridor degli assi

nei mozzi, l'urto dei clìpei

e delle gambiere di bronzo.

L'etere è tutto irto di lance.

Le catenelle dei freni

induriti col fuoco, ecco, ecco,

tintinnano nelle bocche

schiumanti. Ecco l'ultima strage!».

 

I vincitori: «Gli iddii

son coi vittoriosi!

Pascere Ares noi vogliamo

con la vostra carne cruenta.

Zeus non v'ode, non v'ode

l'ippico Re, non Apollo.

La spada a due tagli l'estrema

luce fa su gli occhi del vinto.

La Necessità vi tien presa

la strozza come noi l'elsa

d'argento tegnamo nel pugno

e la coróne dell'arco

e della frombola il cappio

per forarvi il cuore tremante,

per fendervi il cranio curvato,

per frangervi ambo i ginocchi.

A terra! A terra! Gli iddii

non v'odono. La città vostra,

con l'oro la porpora i vasi

di vino i bei letti e le donne,

alla nostra fame è promessa».

 

Diceano i vinti: «Sciagura!

Gli iddii disertano i templi!

Pur quegli che sorse dal suolo

onde noi nascemmo, ci lascia!

Ah per questo nascemmo,

per esser calpesti, premuti

come il grano sotto la mola

come nel frantoio l'oliva

come l'uva nel tino,

per esser pan d'ossa trite,

olio di midolle, vin rosso

di vene al banchetto feroce!

Gli iddii son co' vittoriosi

anche vili. Il cielo è su noi

come clipeo nemico

che porti nell'ònfalo il capo

gorgóneo per impietrarci.

E quante ecatombi v'offrimmo,

o Zeus, o figlia di Leto,

o Cipride madre di nostra

gente, per quest'onta nefanda!».

 

I vincitori: «Molesto

è agli iddii l'odore fumoso

delle ecatombi offerte

da femmine imbelli. Tacete!

Vociferar contra gli iddii

non vi giova. Le lingue

loquaci vi strapperemo

noi dalle fauci per darle

in pasto alle cagne e alle scrofe.

Voliamo, voliamo, cavalli

di belle criniere, voliamo,

carri dall'aureo timone,

su i petti e su i dorsi dei vinti!

La polvere, la sitibonda

sorella del fango, ha bevuto

un fiume di sangue ed è nera.

Meglio è segnar nuovi solchi

di ruote sul tramite umano,

su i vivi e su i morti prostesi.

A terra! A terra! Voi siete

la via su cui passano i carri».

 

Diceano i vinti: «Eccoci a terra,

eccoci proni, prostesi

davanti all'unghie dei vostri

cavalli. Se gli iddii

non odono, udite la nostra

preghiera voi, uomini, nati

dell'uman seme come noi

ne nascemmo in giorno nefasto!».

E i vincitori: «Non siete

voi uomini, sì siete cose

da noi possedute, men buone

dei vestimenti, dei vasi,

dei letti. Noi dalle vostre

viscere trarremo le corde

adatte alle frombole e agli archi;

e le serberemo pel giorno

in cui ci bisogni domare

novamente insania di schiavi

se qualche rampollo risorga

dal tronco che abbiamo reciso.

Ma non lasceremo radici».

 

«Ecco, ecco, siamo la via

palpitante sotto il galoppo

di ferro. Ma il cuore vi tocchi

pianto di vergini, vagito

di pargoli, ululo di madri!

Ardete le case, abbattete

le torri, struggete dall'imo

la città, le ceneri ai vènti

date e i nostri corpi agli uccelli

voraci, ma fate che il gregge

misero lasci le mura

e lungi nasconda il suo lutto

«Le vostre vergini molli

le soffocheremo nel nostro

amplesso robusto. Sul marmo

dei ginecei violati

sbatteremo i pargoli vostri

come cuccioli. Il grembo

delle madri noi scruteremo

col fuoco, e non rimarranno

germi nelle piaghe fumanti

 

«Ah, non avete sorelle

che a' telai vi tessano vesti

soavi aspettando il ritorno

«Già corse il Messo. Ora annunzia

che vincemmo. Ed elle infiammate

gittano le spole e «Sien grandi»

sclàmano «la strage e le prede

«Non mogli avete che appeso

rèchino alla mammella un dolce

figliuolo e gli càntino il sonno

«Elle ne' lor seni hanno latte

di leonessa e al figliuolo

dicono: «Se il germe rinasca

malvagio, tu crescimi forte

e schiantalo ancóra e per sempre!.»

«Non madri avete al focolare

«L'arme pesarono ammonendo:

«Non ti stancar mai di ferire.

Sia l'ultimo colpo il più crudo».

Voliamo voliamo, cavalli

di fuoco, sul fango dei vinti

 

 


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