XVI.
O Vita, o
Vita
dono
terribile del dio,
come una spada
fedele,
come una
ruggente face,
come la
gorgóna,
come la
centàurea veste,
o Vita,
assai più crudele
è il canto
che nella pace
delle
città funeste
s'ode,
quando arde il bitume
o splende
la selce
sotto il
Cane vorace
nelle vie
diritte ove passa
il carro
che non ha timone
né giogo,
e non corsieri
splendenti
di sangue e di schiume
cui
prostesa l'onta soggiace,
ma
rapidità senz'acume
che bassa
scivola, immune
tra la
ferrea fune sospesa
e il
duplice ferro seguace.
Conosco la
ferita
che nella
via necessaria
fa la
rotaia lucente
agli occhi
della tristezza
smarrita
per quell'aria atroce,
quando non
ha più voce
la bocca
convulsa che occlude
la cenere
dei sogni
masticata
nel fiele
rigurgitante,
e dalle nude
mani pare
avulsa
l'ugna che
sapea ghermire,
e sola nel
collo
la
caròtide pulsa
come la
sbigottita
rondine
cui l'infantile
carnefice
strappa le piume
di
nascosto, e il cuore è frollo
come la
carogna vile
che sul
bitume
si matura
al sole d'agosto.
Ben vi so,
torridi giorni,
meriggi
funerei,
incontri
spaventosi
di cerei
vólti disfatti,
via chiusa
tra mura di forni,
tacita
piazza combusta,
sordo
asfalto, lastre roventi
su cui
l'ombra angusta
dell'uomo
è come bestia
di corte
gambe laida e obliqua
che il
tacco gli addenti ove il cuoio
rossigno
si torce sformato
dall'ignobile
passo
consueto.
Ombra, ombra del vinto
si trista
su le sporche mura,
trista
come la menzogna
callosa
ond'ei campa e lucra,
trista
come il suo vizio
segreto,
come il suo rimorso,
come la
sua paura,
come la
sua vergogna!
Manìe,
Manìe silenziose,
erranti
nell'inferno
della
città canicolare,
col passo
degli sciacalli
famelici,
tra le bucce
lùbriche
dei frutti e lo sterco
dei
cavalli coperto
d'insetti
che hanno il lucore
dell'acciaio
azzurrato,
io vi
guardai nelle pupille
contratte
dal dolore
della
luce, vi guardai
negli
occhi gialli di sanie
e di
cruore vermigli,
su cui
palpitavano i cigli
col
palpito disperato
che non ha
tregua nel sonno
poi che il
sonno fu ucciso;
vi guardai
fiso aspettando
che vi
scagliaste come doghi
a mordermi
i pugni e la gola.
Imagini
del delitto
mostruose
intravidi,
torcimenti
d'angosce
inumane ma
senza gridi,
anime come
sacchi flosce,
altre come
logori letti
di puttane
marce di lue,
altre come
piaghe orrende,
fatte
informi e nane
dal gran
taglio diritto,
simili al
combattente
ch'ebbe le
due cosce
recise
fino all'anguinaia
e tuttavia
rimane
mezz'uomo
sul suo tronco e cerca
con le
dita ancor vive
tra il
rosso flutto la radice
di
virilità ricacciata
in fondo
al ventre, là dov'era
prima
ch'egli escisse compiuto
maschio
dalla matrice.
Ma quelle
miserie e quei morbi
e quelle
follie,
insanabili,
al mio male
non eran
fraterni
se non per
il silenzio
e per la
sete,
perché
taceano e avean le labbra
della sete
mortale.
E cessai
di guardare.
Tenni gli
occhi inclinati
al
riverbero bianco
delle
selci, solo
con la mia
febbre errabonda.
E quando
il ginocchio stanco
sentii
flettere e pesarmi
il cuore
così che mi parve
quasi
dolce cader senz'armi
su
l'immonda via qual giumento
che più
non vuol trarre le some,
mi fermai
nel trivio deserto
e dissi al
mio cuore il mio nome.
E, in
quella guisa che il rude
cacciator
nella selva
sonora col
sibilo chiama
la muta
dei veltri dispersa,
radunai
con lo squillo
dell'orgoglio
tutte le forze
e le
vendette del gentile
mio sangue
sul trivio deserto.
E nel
vólto febrile
lo sguardo
mi ridivenne
gelido e
chiaro; l'osso
della
mascella fu saldo
e armato
per mordere; in tutti
i tèndini
il certo vigore
si
contrasse, pronto all'assalto.
Guardai il
nemico Dolore
con
stridor di denti
per
scagliarmigli addosso
e
stampargli segni cruenti
su la gota
pallida. Il cuore
sonò come
bronzo percosso.
O lastrico
accecante,
spigoli
crudi dei muri
coperti di
rabida lebbra;
consunta
pietra di scale,
innanzi le
porte sacre
al dio
della cenere, dove
il
mendicante ostenta
l'ulcera e
la man tesa;
cupa
finestra ove in attesa
di preda
sta la bagascia
spandendo
sul davanzale
le sue
mammelle come
pasta che
lièviti; lenta
discesa
dell'ombra
giù dalla
statua deforme
che
glorifica il demagogo
brutale; o
lastrico senz'orme,
oscenità
del luogo
publico,
lordume del trivio,
per voi
conobbi un'ebrezza
amara che
non ha l'eguale.
Sentii
l'odore d'un abisso
invisibile
e onnipresente,
il
pestifero fiato
d'un gran
mare torpente
ma pieno
di occulta
ferocia,
di vita vorace,
ove la
tristezza dell'uomo
era come
la nave
dalla prua
bene sculta
che con
l'elica guasta
è perduta
nel polipaio
immenso,
nell'immenso
tedio
dell'Oceano ardente
sotto il
Tropico, e non cammina
ma
sussulta, ancor pulsando
l'infermo
suo cuore d'acciaio
nella
vasta carena,
sinché
lentamente
muore nel
fetore
della sua
sentina
tetro che
l'avvelena.
Vesperi di
primavera,
crepuscoli
d'estate,
prime
piogge d'autunno
croscianti
su l'immondizia
polverosa
che nera
fermenta
sotto le suola
fendute
onde si mostra
il
miserevole piede
umano come
tòrta
radice di
dolore
divelta;
rigùrgito crasso
delle
cloache nell'ombra
della
divina Sera,
tumulto
della strada ingombra
ove tutte
le fami
e le seti
irrompono a gara
d'avidità
belluina
per la
forza che impera
e partisce
i beni col ferro,
da voi
sorgere io vidi
non so
quale orrida gloria.
Gloria
delle città
terribili,
quando a vespro
s'arrestano
le miriadi
possenti
dei cavalli
che per
tutto il giorno
fremettero
nelle vaste
macchine
mai stanchi,
e
s'accendono i bianchi
globi come
pendule lune
tra le
attonite file
dei
platani lungh'esse
le case
mostruose
dalle
cento e cento occhiaie,
e i carri
su le rotaie
stridono
carichi di scòria
umana
scintillando
d'una luce
più bella
che la
luce degli astri,
e ne'
cieli rossastri
grandeggiano
solitarie
le cupole
e le torri!
Orrore
delle città
terribili,
quando su le vie
arse
cadono i larghi lembi
violacei
della Sera
con un
odor molle di morte,
e
s'accendono su le porte
delle
taverne i fanali
rossi che
versano il sangue
luminoso
al limitare
ove
scoppierà la furente
rissa dopo
l'ingiuria,
e i fuochi
della lussuria
brillano
negli occhi senili
della grigia
larva che insegue
per
l'ombra la vergine impube
con nel
passo malfermo
l'indizio
del morbo dorsale,
e il
bardassa trae per le scale
già buie
il soldato che ride,
e la
libidine incide
l'enorme
priàpo sul muro!
Febbre
delle città
terribili,
quando il Sole
come un
mostro colpito
dal
tridente marino
palpita ai
limiti delle acque
in una
immensità di sangue
e di bile
moribondo,
e nel
duolo del ciel profondo
la gran
piaga persiste
livida di
cancrena,
e s'ode la
sirena
del
vascello che giunge
caldo di
più caldi mari,
e
s'accendono i fari
su l'alte
scogliere,
e le
ciurme straniere
si
precipitano all'orgia
frenetiche
come baccanti,
e il porto
suona di canti
di schemi
di sfide di colpi
di crapula
e d'oro!
Sonno
delle città
terribili,
quando dal fiume
accidioso
(ove si stempra
tra la
melma e il pattume
la polpa
dei suicidi
fosforescente
come
su i salsi
lidi il viscidume
delle
meduse morte)
sorgono le
larve diffuse
della
caligine tacente
con mille
tentacoli molli
che
sfiorano tutte le porte
e palpano
i miseri e i folli,
il ladro e
la venere vaga,
l'ebro
dalla bocca amara
l'orfano
dall'ossa contorte
assopiti
sopra la fogna,
mentre
s'amplia e s'arrossa
nei fumi
la chiara finestra
del
sapiente che indaga
e del
poeta che sogna!
Alba delle
città
terribili,
aurora che squilla
con mille trombe
di rame
sul
silenzio opaco dei tetti
chiamando
i dormenti a battaglia,
primo
dardo che il Sole scaglia
a fiedere
le sfere d'oro
su le
cupole ancor notturne
e le cime
ardue dei camini
emuli
delle torri e le bianche
statue
degli archi trionfali,
Speranza
volante su ali
recenti
come i fiori nati
sotto le
rugiade celesti,
passo
degli artefici dèsti
all'opere
sonoro come
scalpitìo
d'esercito grande,
rombo che
si spande dai mossi
congegni
pel vitreo duomo,
oh Alba,
oh risveglio dell'Uomo
eletto al
dominio del Mondo!