XVII.
Chi fu che
mangiò gli escrementi
su la
piazza publica, in pani?
Ezechiele,
il profeta
belluino,
figliuol d'uomo,
il vate
dei carmi ruggenti.
E dalle
sue labbra immani
irte di
pél selvaggio e lorde
proruppe
un divino
fiume di
poesia
che
scrosciò su le nazioni
sorde,
travolse i re vani,
sommerse i
popoli spenti.
O città di
sangue e di lucro,
di
magnificenze e d'obbrobrio,
di
sacrificii e d'amore,
mangerà
gli escrementi
su le
vostre piazze sonore
colui che
vorrà far giudicii
per
esaltarvi nell'inno,
per
abominarvi nell'ira,
per
stringervi in patto di pace?
Egli sarà
segnato
della
profonda ruga,
ma avrà
nella carne un cuor novo.
Foggerà
egli il fango?
Smoverà il
letame?
Metterà in
fuga i sogni
d'infermo
e i delirii palustri?
Caccerà la
fame
e chiamerà
il frumento
e lo
cernerà nel suo vaglio?
Aprirà gli
antichi sepolcri
intorno a
cui danzare
ai
solstizii d'estate
potranno
sotto lo sguardo
materno i
fanciulli robusti?
Il
Presente è in travaglio.
Afflitto
io non dissi a me stesso:
«I giorni
saran prolungati
e ogni
visione è perita».
Ma sì
bene: «I giorni e la fiamma
d'ogni
libertà son da presso».
E non
Ezechiele, il Caldeo
dal capo
bendato, che stringe
il rotolo
ond'ei pascer deve
il suo
ventre e le interiora
sue
riempire, e si volge
impetuosamente
nel fuoco
dell'alito eterno
col petto
già gonfio di canto;
né la
Sibilla di Persia,
decrepita
in suo chiuso manto,
che leva
le mani rugose
e china la
fronte longeva
a
deciferare con gli occhi
velati da
secolo tanto
l'angusto
quaderno ov'è stretta
la somma
di tutte le cose;
non quegli
non questa rispose
a me dalla
volta profonda
nell'ora
mia quando supino
sul pavimento
mi giacqui
con
l'anima mia furibonda.
Ma
ritrovai vénti fratelli,
m'ebbi uno
stuolo gagliardo
di vénti
fratelli nell'alto,
che mi
risposero in coro
e in disparte,
col grido
e col
silenzio, con lo sguardo
e col
gesto, nel grande
sacrario
sonoro. O Sistina,
rifugio
più solitario
che le
vette eccelse dei monti
ove
l'aquile hanno lor nido,
altitudine
senza fonti
per la
sete di chi sale,
dominio di
violenza
e di
dolore immortale,
sublimità
del Male,
rapimento
carnale
degli
spiriti verso novelli
cieli di
potenza e di gloria,
in te
ritrovai miei fratelli
disperato
della vittoria.
Per venire
a te primamente,
passai
sopra il sangue ferino.
Persiste
ancor nella selce
dell'Aurelia
Via la vermiglia
macchia e
al sole è splendente
come nella
mia rimembranza?
Oh
meriggio di primavera!
Le taverne
eran piene
di
carradori feroci,
di rauche
voci, di bestemmie
crude, di
oscene canzoni.
E un odor
maligno di vino,
di timo,
d'ànace, d'aglio,
di sudori,
d'olio fortigno
occupava
la via romana.
Ma dalla
campagna lontana
venìa sul
vento a quando a quando
il profumo
dell'asfodèlo
e l'aroma
del pino.
In un
silenzio anèlo
dolorava
il cielo latino.
Aurelia
Via, l'erma è bifronte,
mistica e
bestiale,
che ti
guarda e a me t'apre.
La tua
selce rintrona
alle ruote
e s'assorda
allo
scalpiccìo delle capre.
Fra la
turpe caupona
e la mole
papale,
fra crete
e fornaci, urli e taci
lorda di
lordure e di sangue.
Gialla tu
sei sotto il sole
e lucida
di festuche,
or bianca or cerula a luna
che cresce
o che langue;
mentre il
carrador nello strame
de' suoi
giumenti, ne' velli
de' suoi
castrati ronfia o canta
d'amor
canto infame
e l'urto
del carro sciaborda
il vin nei
barili cerchiati,
il latte
nei vasi di rame.
Stanco dei
sorridenti
uomini
vestiti di frode
con labbra
dipinte su falsi
denti,
mellìflui e grassi
come le
meretrici,
stanco di
scoprir ne' lor passi
l'ernie
nascoste e le varici
e le
inconfessabili piaghe
e le
vèrtebre fiacche,
stanco di
lor colpi bassi
e di lor
ferite vigliacche,
io cercai
nell'antica
via la
stirpe sanguinaria
che
maneggia il coltello
dal mànico
di corno
e dalla
lama fissa.
Vagai
d'intorno aspettando
il primo
clamor della rissa,
l'ingiuria
arrochita dal vino.
Fiutai
negli odori dell'aria
l'odore
del sangue ferino.
Una forza
selvaggia e sacra,
come
quella che indura
la fronte
ed affoca la coglia
dell'arìete
pugnace,
pareva
addensarsi nei torvi
bovari,
nei bùtteri armati
d'un'asta
ch'è un tirso cui tolta
fu la
bassarica foglia.
Sì fulva
ebber certo la barba,
sì ebber
villoso il torace
gli
antichi predoni del Lazio.
E le lor
femmine (Roma
ne
impresse l'effigie nell'oro
imperiale)
dal collo
pesante,
dal ventre mai sazio,
dalla
chioma lucida e folta
come la
lana dei neri
capretti,
le femmine belle
e lente ai
copiosi pasti
infuriavano
i maschi
col
fortore delle ascelle.
Quivi
l'animale umano
amai, che
divora, s'accoppia,
urla,
combatte, uccide,
inconsapevole
e vero.
Quivi
divinai la divina
bestialità
che facea
sì
resistente la forza
di Roma dal
tardo pensiero.
Meglio che
tra gli spadoni
e le
spìntrie, il mio dolore
e il mio
desiderio inespressi
quivi
respirarono, fatti
più forti
perché più carnali.
Il pregio
e il mistero del sangue
sentii
mirando su le lastre,
nel solco
dei carri, brillare
il fiotto
vermiglio sgorgato
dalle
ferite mortali.
O selva
d'arbori eguali,
pronao
d'un tempio senz'inni,
teco
all'ombra io vidi l'Erinni.
Tutti
eguali in ordine i pini,
quasi
eletti a un rito solenne,
sorgevan
dall'erba infinita.
Ogni
traccia era disparita
della
belva e dell'uomo:
sol v'era
il silenzio del cielo.
E vi
fiorìa l'asfodèlo
a piè dei
tronchi scagliosi,
e
l'anèmone violetto
ch'è il
rapido fiore del vento.
E come un
palagio d'argento
di là dai
tronchi, multiforme
e tacito,
era il Vaticano;
un ermo
candore lontano
era il
Soratte solitario;
i cipressi
del Monte Mario
erano un fùnebre
serto
per non so
qual lutto sereno.
E un
profumo di fieno
e di
libertà, quasi un fiato
pànico,
venia dal deserto.
O selva
d'arbori eguali,
tra l'Urbe
e l'Agro ordinata,
ove dormii
sonni veggenti
e meditai
le mie sorti
e favellai
con l'Erinni,
tu
m'appari nella memoria
come il
vestibolo vivo
della
formidabile cella;
perché
pieno de' tuoi fatali
murmuri
l'anima, gli occhi
pieno dei
movimenti
fieri che
su l'antica via
agitavan
gli uomini forti,
ebro
dell'amore di Roma
e
sitibondo di gloria,
io
v'entrai seguendo mia stella.
E, come su
l'erba novella
che
inazzurravano l'ombre
de' tuoi
colonnati, io vi giacqui
supino per
contemplare.
E là dove
giacqui, rinacqui.
Che son
mai le ambasce supreme
del
combattente caduto
nella
vertigine immensa
della
morte, col viso
rivolto al
ciel muto ed eterno,
quand'ei
più non sente il nemico
che senza
riscatto gli preme
con le
ginocchia lo sterno
ma sol
sente l'anima forte
che
l'abbandona e nell'atto
di
partirsi infinita
col peso
di tutta la vita
gli pesa e
di tutta la morte?
Che è mai
la sua visione
solitaria
in mezzo al deserto
ruggente
della guerra,
quand'ei
non sa la cagione
ma vede
che certo è soltanto
il dolore
e giusta è la terra
poiché
foglie e pianto e ogni carne
più
sanguinosa raccoglie?
Le grida
le risa gli oltraggi
umani
duravano in me;
e i dardi
della luce
ancor mi
dolevano; e i raggi
e il
tumulto erano in me
una sola
vertigine truce;
e parevami
esser demente
e ardere
fino alla midolla
come tra
vampe di fenile
che
ribolla in afa di nembo
imminente;
e nel tenebrore
febrile
scintille io vedeva
come di
selci percosse,
ché gli
occhi m'eran nelle fosse
dell'orbite
veracemente
come a
urto di focile
selci
nell'ordigno d'acciaio
che le
attanaglia. E io era
come colui
che muore
di sùbita
morte solare,
al limite
della battaglia.
O ruota
d'Issione!
Rivolgeasi
tutta la volta
come ruota
sopra di me,
e il dolor
mio n'era l'asse
stridente
e risfavillante.
Tutto quel
ciel disperato
di
bellezza sopra di me
era come
ruota di ferro
trattata
da un'ira gigante.
E come le
festuche e le scorze
e il timo
e la polve e la melma
d'intorno
alle ruote dei plàustri
là nella
carraia romana,
così
d'intorno a quell'una
amore odio
eccidio spavento
sacrifizio
supplizio
delirio
dell'anima umana
tutti i
mali e tutte le colpe
e tutte le
cieche speranze
trascinati
erano e franti
nell'inesorabile
giro.
E io dissi
morendo:
«Anima
mia, vedo te?
vedo le
tue speranze
le tue
colpe i tuoi mali
nell'inesorabile
giro?
Anima mia,
vedo in te
le larve
delle parole,
i sogni
pulverulenti,
le
credenze inferme o morte,
i giorni
senza bellezza,
le tracce
dei crudi flagelli,
le
reliquie del mio martìro?».
Supino
giacente il mio corpo
non avea
più ombra nel mondo.
L'immobilità
del dolore
era la mia
sola grandezza.
Come in
nero marmo, sepolto
nell'orrore
de' miei pensieri,
io sentii venire
di lunge,
sorgere
sentii dal profondo
il pianto
che agli occhi non giunge.
E quel
pianto era pianto,
entro di
me, sopra di me,
da
creature che forse
vivevano
oltre la vita
ma non
beverate nel Lete
né di
papaveri cinte,
anzi
chiuse in un vestimento
d'impenetrabile
ardore
che allo
stillar dell'onda
amara qual
rogo alla piova
crepitava
senza perire.
Ed elle
cantavano un canto,
entro di
me, sopra di me,
più forte
che tuono di lire,
forte di
sì alto lamento
che
toccava le più segrete
stelle nel
cuore del Cielo
e tremar
facea di nova
pietade il
cuor della Terra
e
discolorava la faccia
dell'Ocèano
anèlo.
«Luce del
dolore» io dissi
«ti bevo!
Luce del dolore,
a cui si
precipita ignaro
dalla
notte bruta l'infante
che sforza
la porta sanguigna
del grembo
materno col capo
proteso,
con chiuse le pugna;
Luce del
dolore,
a cui si
volge l'estremo
battito
della palpèbra
senile
priva di cigli
ove
all'acredine del sale
la pupilla
s'è fatta
più opaca
e dura dell'ugna;
Luce del
dolore, ti bevo
a gran
sorsi come bevvi
dalla
mammella il latte,
la voluttà
dalla bocca
amata, la
melodìa
dalla sera
d'aprile,
l'odio
dalla ferrea pugna.
Di te m'inebrio.
Tu m'inondi.
Non v'è
ombra in me se non quanta
può
coprirne con agio
il calice
riverso
d'un
giglio! E di questa io farò
un
solitario zaffìro;
con
quest'ombra che resta
una gemma
io sublimerò
più cerula
che il cielo
d'Agrigento,
per la fronte
della mia
compagna diletta.»
E la ruota
s'arrestò
di sùbito
nel suo giro,
come il
supplizio s'arresta
per il
comandamento
del
tiranno malvagio
cui
tediano i gridi
delle
vittime attorte
infrante
nelle sue pressure.
E io vidi
le creature
tra la
vita e la morte.
Vidi i
fanciulli i giovinetti
i
vegliardi le madri
le vergini
i guerrieri
i
sacerdoti i patriarchi
gli
utensìli e gli armenti,
tutte le
carni dolenti
e tutti
gli strumenti
della
colpa e del castigo,
i letti i
libri i roghi le are,
e
l'inerzia della terra
e la furia
delle acque
e l'impeto
dei vènti
e
l'ingombro delle nubi,
la spada
la mensa il fardello,
il teschio
dell'arìete,
il festone
di quercia,
la
medaglia superba;
e quegli
sguardi e quei gesti,
anima mia,
quelle pupille
che ti
guatavano dal fondo
dell'infinito
terrore!
E quivi
tutto era più grande
e più
grave, e senza patria,
e
d'immemorabile etade,
e sotto il
flagello
d'inconoscibili
numi.
Colei che
avea generato
stanca era
d'una immensa
maternità,
come
se dal suo
ventre escito fosse
il peso
delle nazioni
maledette,
con un travaglio
orrendo; e
le sue mammelle
eran come
l'urne dei fiumi.
Profondato
nell'oscuro
sonno era
il dormiente,
come un
monte sotto i silenzii
dei mari
primordiali
onde
sorgerà in un giorno
del più
remoto Futuro,
come
nessun corpo giammai
profondato
fu nella morte.
E tutta la
gioia feroce
degli
uccisori nati
di donna,
da che il primo sangue
umano
abbeverò la terra
ancor del
diluvio melmosa,
tutta
gravava nel pugno
di colui
ch'era in atto
di
recidere il capo
al vinto
nemico; e quel ferro
tagliente
pareva levato
dall'eterna
minaccia
d'un dio
su l'orizzonte
immobile
della paura
terrena; e
in quell'abbattuto,
che invano
pontava la palma
il cùbito
e il ginocchio
sul suolo
ch'ei dovea
di sé far
vermiglio, penava
il
lamentabile sforzo
di tutti
gli uomini vinti
da che
l'uomo è lupo per l'uomo.
E fatalità
spaventose
si
propagavano pel mondo,
mosse da
un gesto, dal lampo
d'uno
sguardo, dal reclinare
d'un
vólto, dal lembo agitato
d'un
manto, dal volgersi ratto
d'un
pargolo verso la poppa,
dal
ripiegarsi d'un corpo
senile
nell'ultima sosta.
E sventure
senza nome,
desolazioni
senza voce
e senza
pianto, lutti
accecati
dall'amarore
delle
lacrime esauste,
tormenti
non conosciuti
dagli
antichi tiranni
né dagli
esuli iddii,
enormità
di doglia
e di
follìa smisurate
pesavano
nella stanchezza
d'una
pallida mano.
E tutte le
membra, come
la mano,
erano carche
di
patimento mortale
e
s'accasciavano al suolo
con
ossature di piombo;
o,
risvegliate dal rombo
della
morte improvviso,
balzavano
nel terrore
protese
verso lo scampo,
erette
contra il periglio,
contratte
sotto la minaccia;
e i
muscoli nelle braccia
le
vèrtebre nelle schiene
le còstole
nel torace
le arterie
nel collo
i tendini
alle calcagna
erano come
le bestemmie
le
implorazioni e le grida
opposte ai
fati avversi,
eran come
le bocche urlanti,
gli irti
crini, gli occhi riversi.
E, come su
mare notturno
s'ode
talor clamore
di
naufragio lontano,
venìa
dallo spazio incurvo
da quel
gorgo soprano
la voce di
tanto dolore
confusamente,
e fioca e forte.
E talor si
facea
di repente
un silenzio
più crudo
che tutte le grida;
ma durava
nel vano,
come il
bronzo che vibra,
il rombo
eternal della morte.
E alcuna
delle creature
accosciate
nell'ombra,
sotto
l'invisibile mola
ond'era
premuta
continuamente,
con voce
rimasta
per secoli muta
disse
l'antica parola:
«Perché
siamo nati?».
E io
sussultai di paura
sul
pavimento che freddo
era come
pietra di tomba,
sentendomi
l'ossa corrose.
Con
pallidi occhi, vacillanti
nell'orbite
fatte più larghe,
cercai per
la volta profonda
gli eroi
fra le genti dogliose.
Dominavano
la sventura
e la
colpa, chiarosonanti
come
squilli di tromba,
le Volontà
meravigliose.
«Perché
siamo nati?» dicea
la
creatura del fango
con la
bocca sua piena d'ombra
come la
fàuce del bove
è piena di
strame.
«Simile al
bove che rumina,
simile al
capro che copula
è l'uomo,
con la lussuria
la strage
il servaggio e la fame.»
E una
Volontà risplendente
«Taci»
gridò «taci, bestia
da macello
e da soma!
Porta su
le tue schiene il peso
di colui
che ti doma
e poi
senza gemito spira
sotto il
coltello tagliente.
Silenzio!
Silenzio! Sol degno
è che
parli innanzi alla notte
chi sforza
il Mondo
a esistere
e magnificato
l'afferma
nelle sue lotte
e l'esalta
su la sua lira.
Taci tu,
cosa da mercato,
ingombro
gemebondo!»
E ogni
lagno si tacque,
ogni vil
bocca ebbe il bavaglio.
E come
croscio d'acque
possenti
era la forza
dei Giovini,
grave
di
bellezze in travaglio.
E, dalla
fronte nuda
al pollice
del piè contratto,
fremito di
sùbiti canti
mi corse.
Correre sentii
nelle mie
vene i corsieri
anelanti
dell'Atto,
scosso dai
miei spiriti il peso
delle ore
infruttuose.
E,
ridivenuti guerrieri,
gli
spiriti verso gli eroi
gridarono:
«O nostri fratelli,
soli fra
le genti dogliose
ricchi
d'opre per la dimane
come gli
arbori novelli
di gemme,
noi su la terra
mescere
vorremmo la vostra
immortalità
con la nostra
morte per vincere
il Fato!».
E il coro
inerme ed armato
«Sursum
corda!» rispose,
traendoli
all'alta sua guerra.
E allora
io cercai le Sibille
per desìo
d'un'alta compagna.
E dissi alla
Libica: «I piedi
tuoi son
come le ali
della
colomba, poggiàti
sul
pollice fiero, e tu sei
per
chiudere il vasto volume
e per
librarti a volo uscendo
dal tuo
vestimento, o Sibilla,
come da un
vincolo duro
affinché
l'oro e l'azzurro
soli ti
cingano come
l'orbita
cinge la pupilla
umida di
visioni
infinite e
la tua bellezza
fatidica
pàlpiti
di libertà
sopra il vento.
Ignuda le
spalle e le braccia
e la nuca,
luoghi di gaudio,
ecco,
dalla tua cintura
t'involi e
dal tuo vestimento.
Ma il tuo seno,
che tu mi celi,
non è
forse profondo
come un
fior numeroso?
E la
treccia che sfugge
alla benda
delle tue tempie
non ha
forse il misterioso
potere del
corno sul fronte
di Pan che
conduce nei cieli
le melodìe
del Mondo?
E il tuo
fianco fecondo
non è
fatto pel seme
del
vincitore? Ah chi mai
saprà il
colore degli occhi
tuoi sotto
le pàlpebre chine?
Quando mi
guarderai?
Orfeo
sono, senza ghirlande,
che più
non attende alle porte
dell'Ade
quella che due volte
perdette!
E tu sei troppo grande,
o Libica:
sul cor tuo forte
soffocar
puoi anche la Morte».
All'Eritrèa
dissi: «Non m'odi,
se parlo.
Sei anche più grande!
La
Saggezza e la Forza
lavarono i
tuoi piedi scalzi.
Tu sdegni
i troni. Se t'alzi,
tu mi
sembri una torre munita.
Signora
della Vita
tu sdegni
le chiuse corone.
Pallade ha
l'elmo corintio
col
duplice occhio e il nasale.
Intorno al
tuo capo regale
tu serri
il pìleo dei nàuti
con
treccia che gira due volte
simile a
ceràste divelta
dalla
chioma della Gorgóne.
Pallade ha
il suono dei flauti
e il canto
delle mille teste
pei
giuochi della nazione.
Tu nelle
tue vaste orchestre
hai tutte
le voci, dal rombo
dell'ape
al fragor del ciclone.
Che mai
raccoglie il tuo braccio
con la man
cava (che resse
forse per
una notte i chiostri
del Cielo
tolti al sostegno
d'Atlante
e forse la clava
brandì ad
uccidere mostri)
che mai
raccoglie il tuo braccio
dall'ombra
di quella gran piega
che ti fa
nel manto il ginocchio
sovrapposto
all'altro in riposo?
Le pieghe
del tuo spazioso
vestimento
son piene
d'invisibili
tesori
e di
mistero infinito.
E, se tu
volgi col dito
il foglio
del libro verace
or che il
Genio con la sua face
t'accende
la lucerna,
qual
tirannide crolla,
nasce qual
novo mito,
qual puro
eroe s'eterna?».
Ma dissi
alla Delfica: «Te
amerò, tra
due vènti avversi
nata
dall'onda marina
esule
Oceànide, te
che i lombi
non anche detersi
hai
dall'amarezza salina.
Chiusa
nella tunica grave
or sei,
nella lana cui morde
la fibula
sotto l'ascella;
ma ti
gonfia il vento del mare
dall'òmero
al pòplite il manto
ampio
quasi trevo in procella.
Tu svolgi
dalla sinistra
mano il
tuo ròtolo santo
che come
vela quadra
s'inarca
alla banda contraria;
e così
vigile assisa
mi pari su
cassero forte
di nave
che navighi i tempi,
sicura tra
i due vènti avversi,
fresca
Virtù solitaria.
Io ben so
che l'onda natale
crea
questa tua giovinezza
e il
cristallo de' tuoi grandi occhi.
Tuo latte
fu il fiore del sale,
e il
cerulo gorgo tua cuna.
Fra le
mammelle e i ginocchi,
a traverso
il tuo vestimento,
io vedo
raggiar la bianchezza
del grembo
tuo, virginale
come la
più labile spuma.
E sento, a
traverso la benda
che dalla
fronte alla nuca
ti copre,
l'odore dell'ulva
e
dell'alga, l'odore
d'un
vascello che porti
nardo e
mirra nella sua stiva,
l'odore
d'un'isola australe.
O bendata,
e ben ti so fulva
come il
fuco tratto alla riva.
So che
nella destra ti dura
il segno
del tuo governale.
Navigatrice
sei,
Thalassia
nomata per me!
I rematori
adusti
dalle
cinture di sparto
e dai
lanuti galèri,
curvi su
gli scalmi nel canto
disteso
che gonfie facea
le vene
dei colli robusti,
disser le
tue lodi con me.
Sul
litorale i trevieri
misurando
e tagliando
le vele in
canape aspra,
le lor
donne i lunghi aghi acuti
nell'ordito
spignendo
con la
palma armata di piastra,
per
giugner vivagni di ferzi
acconciar
guaine a ralinghe
e rinforzi
e ritrosi e suppunti
ben saldi
contro fortuna,
via via di
costura in costura
disser le
tue lodi con me.
I
costruttori di navi
segnando a
rigore di frasca
i garbi
dei fianchi e dei ponti
per vincer
con lor misurate
armonie la
cieca burrasca,
i mastri
d'ascia segando
a fil di
sinopia il legname
squadrando
chiodando impernando
dallo
scafo alla tuga il fasciame,
i calafati
la scussa
carena con
maglio e scalpello
stoppando
per l'ugner di pece
e di sevo
a fuoco di stipa
e spalmar
di bianca cerussa,
i cordai
filando dai mazzi
la canape
splendida ai soli
novi o
torcendo nei trasti
i fili e
alla pigna i legnuoli,
tutte in
alterno cantare
le
maestranze del mare
disser le
tue lodi con me.
O
Thalassia, Sibilla
di grandi
oceaniche sorti,
divinatrice
serena
di turbini
e di naufragi,
Euploia,
esulata in ambagi
ove impera
il dio molle
che dalla
bellissima argilla
separò gli
spirti e li volle
infermi di
nera vergogna,
odimi. Io
ti chiedo: Che guardi?
L'occhio
tuo fisso non sogna
né pensa,
ma vede
come
nessun altro mai vide.
Non
lacrima né sorride:
vede
meravigliosamente.
Che
guardi? Una cosa fuggente,
o una che
giunge dai mari
onde tu
stessa venisti?
Scendere
su i popoli tristi
le ceneri
crepuscolari,
o sorgere
l'albe cruente?
Che
guardi? Un Liberatore
inchiodato
a una quercia
alta mille
volte cinquanta
cùbiti,
come l'Agageo
Haman figliuol
di Hammedata
che laggiù
grandeggia in aspetto
di Titano
più grande
del
Galileo crocifisso?
Una gente
nata del suolo
sacro
all'Olivo e a Minerva,
che alfin
ritrovò la sua gioia
perduta e
goder sa nei giorni
la beltà
senza fasto
il piacere
senza mollezza
e comporre
sa le sue feste
divine con
lievi corone?
Ma forse
l'occhio tuo fisso
contempla
l'Ombra di Roma
che regge
l'antico timone,
quale
effigiata ancor regna
nella
medaglia di Nerva.
Andiamo,
andiamo! Se ancóra
sonvi nel
mondo azioni
da
compiere belle
come le
più belle promesse
dei sogni
virili, se ancora
sonvi da
vincere mostri,
da
sciogliere enigmi,
da
purificare carnai,
da
costringere petti
umani a
gridi d'amore
e
d'orgoglio verso la Vita,
andiamo,
andiamo! Se ancóra
sonvi
giardini profondi
ove
favellare si possa
co' i
saggi e gli aedi, se fonti
vi sono
per tergersi dopo
le lotte,
colline silenti
che
sostengano anfiteatri
di marmo
sacri ai tragèdi,
se inni,
se musiche pure,
se ancor
vi son lauri, andiamo!
Per udire
il grido d'un maschio,
per vedere
un braccio levato
a
percuoter forte il rivale,
per sentir
l'odore del sangue
sparso e
dell'ebrezza brutale,
per
ingannar la mia sete
di vivere
in atti ed in opre,
o fresca
Oceànide, innanzi
ch'io
venissi a te, disperato
vagai per
l'antica
via
strepitosa di carri
lorda
d'escrementi e d'avanzi
accecante
di luce dura.
E su
quella lordura
l'anima
mia ne' miei sensi
crudeli
perdutamente
aspirò il
divino fiato
che venìa
dagli immensi
deserti
dell'Agro fiorente
d'anèmoni
e d'asfodèli;
trascorse
al confino de' cieli.
Cammino
senza impedimento,
fatto dai
balzi impetuosi,
quello cui
l'anima mia
è pronta
se tu l'accompagni!
Disgusto
dei rigagni
putridi la
tiene; disgusto
dei
lascivi amori mendaci
che non
sanno che sia
l'innocenza
nel desiderio,
la
profonda innocenza
cui non
giova altro guanciale
pel sonno
d'un'alba ignota
se non il
sopposto alla gota
suo
braccio robusto.
La tiene
disgusto mortale
dei
giacigli acri ove il sudore
del
combattimento carnale
fa insana
la cóltrice come
la materia
libidinosa
che
serpentina s'ammassa
e luccica,
e attossica l'ombra.
Una
venefica polpa
fu data ai
miei denti per pane.
Assaporai
una schiuma
più salsa
che quella del mare.
Congiunto
fui alla colpa
come la
vèrtebra è congiunta
alla
vèrtebra nella schiena
che
rabbrividisce di gelo
fùnebre
alla carezza acuta.
Non
lasciai la bocca morduta
sinché la
saliva
non ebbe
il sapor della vena.
Bevvi a
una a una le stille
su la
bianchezza del petto
che i rovi
avean flagellato.
Vidi nelle
aperte pupille
uno
sguardo più fiso
che il
ferreo sguardo del Fato.
E le
labbra nel mio viso
non potean
più ridere e gli occhi
non potean
più piangere, o Amore!
E conobbi
l'attesa
nella
stanza che s'oscura
al giorno
che declina;
quando la
lama tagliente,
tratta
dalla guaina
silenziosamente,
è posta
nella piega
impura del
lenzuolo,
per la
vana vendetta;
e sul cuor
solo che aspetta
sfacendosi
in ascolto,
e su le
mani e sul vólto,
su tutte
le misere carni,
passan gli
uomini e i carri,
scroscia
l'onta della via;
e la
melancolìa
delle cose
ha l'odore
della
veglia notturna
tra il
cadavere e i ceri;
e quel che
fu ieri
non sarà
più, per sempre.
Ahimè, non
la bianca pruina,
non la
rugiada tremante,
né la
scaturigine chiara,
né il
bosco con l'umido sguardo
dell'ombra
sotto le verdi
sue
pàlpebre, né il giovinetto
vento con
gli anèmoni in bocca,
né il
fiato dei gelsomini
quando a
vespro piove su gli orti,
né alcuna
gelida cosa
poteva
guarire il mio male;
perché
maculato io era
più
profondamente che il nato
della
pantera. E la fredda
e santa
corona, ond'io cinto
aveva il
mio spino
promettendolo
alla Bellezza,
inaridita
s'era a foglia
a foglia.
E l'oscuro giacinto
del mio
desiderio fioriva
ai piedi
del Crimine irto.
Ma un dio
nudrito di fuoco
e
d'amarezza era in me,
che
divinamente sentiva
i preludii
della Notte,
e il
dolore delle lune
in
travaglio, e il pianto
delle
Pleiadi, e il pianto
delle
Iadi, e il lutto figliale
d'Erigone,
e in dune deserte
la
disperanza del mare;
e tutte le
cose di fiamma
in
travaglio, ch'erran pei cieli
del
silenzio dolentemente,
e quelle
che sono già spente
e sembran
arder tuttavia;
e la
melancolìa
delle
fiumane tortuose
ove scorre
l'acqua che stilla
dalle
clessidre del Tempo,
cui venenò
l'Amore
e
appesantì la Morte.
Ahimè, tra
due vènti avversi
nata
dall'onda marina
esule
Oceànide, fresca
Virtù
solitaria, che sai
tu del mio
male? Non m'odi,
se chiamo.
Non torci lo sguardo
dalla
visione che vedi,
e ch'io
non veggo né mai
vedrò. La
tua bocca socchiusa
è da me
più lontana
che la
perlìfera conca
in fondo
all'Oceano australe.
Eterna sei
là, simulando
col rotolo
tuo dispiegato
l'imagine
nautica, Euploia,
per
acerbare la pena
del
naufrago che ti si volge,
per
eccitare l'ardore
del buon
piloto che t'ama;
ché
necessario è navigare,
vivere non
è necessario».
E stetti
quivi giacente
ne' miei
pensieri a guatarla,
in me
medesmo sepolto.
E più e
più biancheggiare
il teschio
d'arìete vidi,
risplendere
più di quel vólto.
E vidi lì
presso nell'ombra
la madre
affannata col figlio
stretto al
seno, e l'uomo abbattuto
in un
sonno cupo d'angoscia;
e
dall'altra banda lì presso
l'ucciso
guerriero sul letto,
levato
ancor la gran coscia
nel
violento sussulto;
e carca
del crimine occulto
e ancor
bagnata dal seme
del
maschio la femmina in atto
di
ricuoprire il mozzo
capo,
sanguinante nel piatto
con tal
pondo di alto valore
che
l'ancella èrane curva.
E, come il
mio sguardo sgomento
salì a
cercare la coppia
degli eroi
pùberi, scorsi
che
l'effigie dell'uno
era
distrutta dal Tempo
irreparabile
e l'altro
bello era
e triste di bellezza
e di
tristezza gorgónee
quasi nato
fosse del sangue
di Medusa
anguicrinita
per un
destino funesto.
Ma tutte
quelle errònee
forze tra
la Morte e la Vita
penanti
per entro quel turbo,
tutte parean
cieche al confronto
del gesto
con cui quell'eroe
pensoso
reggeva la zona
a sostener
la medaglia
di conio
titanico, pronto
per
conquistar la corona
a
scagliarsi nella battaglia.
E io gli
dissi: «Fra tutti
i tuoi
fratelli sei solo,
sei senza
il compagno a riscontro,
o figlio
di Medusa
che forse
porti per sempre
nel centro
dell'anima chiusa
come in
un'ègida ardente
il fatale
vólto materno.
E, se pure
discerno
l'ombra
del tuo pari, ell'è infusa
di leteo
làtice e oblìa
le sue
fiere speranze
che avean
già rostro ed artiglio
come
aquilette bienni.
Ond'io,
che divenni
solo come
te presso un'ombra
ferale,
vorrei ne' giorni
e
nell'opre averti compagno;
ché troppo
è talor cosa dura
non poter
la man fida porre
su l'òmero
dell'eguale».
E così
parlò la paura
della
solitudine in me
per la mia
fiacchezza. L'eroe
fisso era
in ben altra rancura.
«Sii solo»
rispose egli a me
«sii solo
della tua specie,
e nel tuo
cammino sii solo,
sii solo
nell'ultima altura.
Il cuore è
il compagno più forte.
Tre volte
i guerrieri son pari:
liberi
davanti al dolore,
liberi
davanti al periglio,
liberi
davanti alla morte.
E ciascuno
è pronto a sé stesso,
ciascuno a
sé stesso è fedele:
un arco
che ama il suo dardo,
un dardo
che brama il suo segno,
un segno
che è sempre lontano.
E la
libertà è lo squillo
d'oro, il
clangore che incendia
il cielo
antelucano.»
«Ben so,
ben so questo che insegni»,
io dissi.
«Udii già tal sentenza
fendermi
come spada
gli
orecchi, nel vento del mare;
e il cuor
mi balzava nel petto
come ai
Coribanti dell'Ida
per una
virtù furibonda
e il
fegato acerrimo ardeva.
Ma oggi il
cuore m'aggreva
fattura di
Circe omicida,
di Circe
dalle molt'erbe
che
inganna con voce soave.
Battermi
tentò con la verga
ella e
spogliato dell'armi
nel solido
stabbio serrarmi.
Tu l'erba
salùbre mi dài,
ed eccomi
sano alla lotta.»
Rividi la
concava nave
nelle acque
di Leucade, il grande
piloto
eversore di mura
tenére nel
pugno la scotta.
E, in
verità, fu quella
l'ultima
volta che il cuore
mi vacillò
di fiacchezza
e
d'ebrezza torbida; quello
fu
l'ultimo mio smarrimento,
e l'ultimo
affanno
della
solitudine verso
l'amore; e
fu l'ultimo indugio,
e
l'insegnamento supremo.
Onde il
mio poter, fatto scemo
dalla
frode dal dubbio
e dal
disgusto, risorse
in
plenitudine nova
su l'orlo
dei baratri cupi.
Oleastri
d'Itaca, rupi
di Delo
divina,
cielo
della Sistina,
luci della
mia conoscenza,
da voi mi
venne sentenza
dura per
vivere in terra
e voi
siete i miei luoghi santi.
Tutte le
colpe e i castighi
e le
minacce e i vaticinii
si
oscurarono allora
ai miei
occhi; e la immane
latèbra si
fece sonora
di quel
peane che udito
avea
nell'isola d'Aiace.
E vidi in
carne verace
le
gioventù sovrumane
(non tale
era Achille sul punto
di
partirsi da Sciro
e Patroclo
Actòride prima
che agli
òmeri suoi rivestisse
l'armi
funeste?) irraggiare
lo spazio
con lo splendore
d'una
nudità che, construtta
di ossa di
nervi di vene
di muscoli
e di tutta
la potenza
carnale,
splendeva
su l'anima come
spirital
bellezza grande.
Tra la luce
d'Omero
e l'ombra
di Dante
pareano
vivere e sognare
in
concordia discorde
quei
giovini eroi del Pensiero,
fra la
certezza e il mistero
librati,
fra l'atto presente
e la
parola futura.
Ciascuno
la sua ossatura
creato
avea dall'interno
del suo
spirto, artefice ardente
del suo
simulacro vitale;
e dal
tarso allo sterno,
dal cùbito
al ginocchio,
dall'occìpite
al tallone,
dalle
vèrtebre alle falangi
la
compagine era eloquente
come uno
spirto che parli
di sé con
un fremito d'ale;
sì che il
triste pondo animale
in verbo
mutavasi eterno.
Quale fra
tutti il migliore?
Poggiato
la palma sul dado
marmoreo,
l'uno era assorto
in un
pensiero sì bello
che volgevagli
in suso i capegli
a guisa di
diadema
per
occupar solo la fronte
e farne a
sé luogo di luce.
Inclito
come Polluce,
l'altro
piegavasi in dietro
gridando,
quasi a lanciare
di là da
ogni fine raggiunto
un disco
di ferro in cui fosse
inciso un
decreto del Fato.
In fiera
allegrezza, agitato
pareva da
pirrica danza
l'altro; e
col levar delle braccia
con
l'alterno urto dei piedi
con la
brevità degli accenti
segnava i
ritmi veementi
dell'anima
sua predatrice.
E chi,
flesso il pòplite, lieve
sedea su
la gamba sopposta;
e chi
raccolto, in una sosta
dell'ardore,
co' piè giunti,
con la
zona sul capo
a guisa di
benda, sognava
un suo
sogno severo;
e chi
reclinavasi altiero
a trar con
la destra la zona
che
fermata area col calcagno
mentre
incoronarsi del lembo
estremo
parea con la manca;
e chi,
piegato su l'anca,
col capo
riverso nel triplo
avvolgimento
d'un drappo
fremebondo,
avea la sembianza
del vento
Vulturno;
e chi,
quasi genio notturno,
nascosto
le mani profuse
di
soporiferi semi,
tenera le
pàlpebre chiuse.
Ed altri
guatava diritto
all'ombra
del braccio levato
in atto
d'opporre difesa
a erculeo
colpo di clava;
altri
dall'alto guatava
obliquo
con crude pupille
come
avverso ricca rapina,
contratto
i muscoli al balzo,
quasi
leopardo che sia
per
frangere tergo di toro.
E tutto
pareva sonoro
dell'alto
peane lo spazio,
però che
in ogni atto dei corpi
si
rivelasse una fiamma
di volontà
e d'ardire
qual sola
proruppe, toccando
a sommo
dell'etra gli dèi,
dalle
battaglie sacre
ch'eran primavere
cruente
d'un
popolo nato a fiorire
il fiore
de' suoi Propilèi.
Ma qual
fra gli eroi fu l'eletto
della tua
speranza, o rinata
anima mia?
Qual più ti piacque?
Qual tu
volesti assemprare
nel
vittorioso avvenire?
Quello che
ti parve fra tutti
il più
libero, cinto
di libertà
come d'un serto
diàfano,
per aver vinto.
Quello che
ti parve fra tutti
il più
sereno, sospeso
in
serenità d'oro, certo
qual dio,
per avere compreso.
Instrutto
ma non leso
dalla
vita, bello e gagliardo,
poggiato
il cùbito destro
sul
festone silvestro
e sul
ginocchio la mano,
ei guarda
con limpido sguardo
il
compagno oppresso dal peso,
il forte
che ancor non s'affranca.
Sotto di
lui sta, quasi mole
di granito
e d'umo fecondo,
con le
gambe conserte
assiso il
titanico veglio
che sembra
l'antico parente
di quella
forza novella.
Quali
comprime parole
nella vasta
mascella
barbata il
veglio con essa
la sua
mano venata
di duro
aratore che seppe
entrar
profondo col dente
nel grembo
d'una terra inerte
e
strapparle sacra promessa
d'abondanza
per la sua prole?
E le due
donne sole,
che
stannogli quivi alle spalle,
perché
sono tristi? Rimpianto
le tiene
dell'esule prole
che
nudrirono alternamente
nella cuna
della sua valle?
Io vidi in
quel veglio lo spirto
del mio
suolo natale,
il
generator venerando
della mia
sostanza più forte,
il
testimone solenne
della mia
fatica vitale,
il giudice
e il custode
futuro
della mia morte.
«Uomo»
dissi a me «la melode
che ti
pregò buona la sorte
nella cuna
di rovere
tu non
obliare giammai;
ché in
ella è un indomito nerbo.
Forse su
quelle povere
note un
giorno tu comporrai
l'inno tuo
più superbo;
quando,
sopra il vinto dolore
assiso
come il sereno
eroe che
nell'alto contempli,
cantar tu
potrai dal tuo pieno
petto i
tuoi dii ne' tuoi templi.»