Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Laudi
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LIBRO PRIMO - MAIA

1 - Laus vitae

XVII.

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XVII.

 

Chi fu che mangiò gli escrementi

su la piazza publica, in pani?

Ezechiele, il profeta

belluino, figliuol d'uomo,

il vate dei carmi ruggenti.

E dalle sue labbra immani

irte di pél selvaggio e lorde

proruppe un divino

fiume di poesia

che scrosciò su le nazioni

sorde, travolse i re vani,

sommerse i popoli spenti.

O città di sangue e di lucro,

di magnificenze e d'obbrobrio,

di sacrificii e d'amore,

mangerà gli escrementi

su le vostre piazze sonore

colui che vorrà far giudicii

per esaltarvi nell'inno,

per abominarvi nell'ira,

per stringervi in patto di pace?

 

Egli sarà segnato

della profonda ruga,

ma avrà nella carne un cuor novo.

Foggerà egli il fango?

Smoverà il letame?

Metterà in fuga i sogni

d'infermo e i delirii palustri?

Caccerà la fame

e chiamerà il frumento

e lo cernerà nel suo vaglio?

Aprirà gli antichi sepolcri

intorno a cui danzare

ai solstizii d'estate

potranno sotto lo sguardo

materno i fanciulli robusti?

Il Presente è in travaglio.

Afflitto io non dissi a me stesso:

«I giorni saran prolungati

e ogni visione è perita».

Ma sì bene: «I giorni e la fiamma

d'ogni libertà son da presso».

E non Ezechiele, il Caldeo

dal capo bendato, che stringe

il rotolo ond'ei pascer deve

il suo ventre e le interiora

sue riempire, e si volge

impetuosamente

nel fuoco dell'alito eterno

col petto già gonfio di canto;

né la Sibilla di Persia,

decrepita in suo chiuso manto,

che leva le mani rugose

e china la fronte longeva

a deciferare con gli occhi

velati da secolo tanto

l'angusto quaderno ovstretta

la somma di tutte le cose;

non quegli non questa rispose

a me dalla volta profonda

nell'ora mia quando supino

sul pavimento mi giacqui

con l'anima mia furibonda.

 

Ma ritrovai vénti fratelli,

m'ebbi uno stuolo gagliardo

di vénti fratelli nell'alto,

che mi risposero in coro

e in disparte, col grido

e col silenzio, con lo sguardo

e col gesto, nel grande

sacrario sonoro. O Sistina,

rifugio più solitario

che le vette eccelse dei monti

ove l'aquile hanno lor nido,

altitudine senza fonti

per la sete di chi sale,

dominio di violenza

e di dolore immortale,

sublimità del Male,

rapimento carnale

degli spiriti verso novelli

cieli di potenza e di gloria,

in te ritrovai miei fratelli

disperato della vittoria.

 

Per venire a te primamente,

passai sopra il sangue ferino.

Persiste ancor nella selce

dell'Aurelia Via la vermiglia

macchia e al sole è splendente

come nella mia rimembranza?

Oh meriggio di primavera!

Le taverne eran piene

di carradori feroci,

di rauche voci, di bestemmie

crude, di oscene canzoni.

E un odor maligno di vino,

di timo, d'ànace, d'aglio,

di sudori, d'olio fortigno

occupava la via romana.

Ma dalla campagna lontana

venìa sul vento a quando a quando

il profumo dell'asfodèlo

e l'aroma del pino.

In un silenzio anèlo

dolorava il cielo latino.

 

Aurelia Via, l'erma è bifronte,

mistica e bestiale,

che ti guarda e a me t'apre.

La tua selce rintrona

alle ruote e s'assorda

allo scalpiccìo delle capre.

Fra la turpe caupona

e la mole papale,

fra crete e fornaci, urli e taci

lorda di lordure e di sangue.

Gialla tu sei sotto il sole

e lucida di festuche,

or bianca or cerula a luna

che cresce o che langue;

mentre il carrador nello strame

de' suoi giumenti, ne' velli

de' suoi castrati ronfia o canta

d'amor canto infame

e l'urto del carro sciaborda

il vin nei barili cerchiati,

il latte nei vasi di rame.

 

Stanco dei sorridenti

uomini vestiti di frode

con labbra dipinte su falsi

denti, mellìflui e grassi

come le meretrici,

stanco di scoprir ne' lor passi

l'ernie nascoste e le varici

e le inconfessabili piaghe

e le vèrtebre fiacche,

stanco di lor colpi bassi

e di lor ferite vigliacche,

io cercai nell'antica

via la stirpe sanguinaria

che maneggia il coltello

dal mànico di corno

e dalla lama fissa.

Vagai d'intorno aspettando

il primo clamor della rissa,

l'ingiuria arrochita dal vino.

Fiutai negli odori dell'aria

l'odore del sangue ferino.

 

Una forza selvaggia e sacra,

come quella che indura

la fronte ed affoca la coglia

dell'arìete pugnace,

pareva addensarsi nei torvi

bovari, nei bùtteri armati

d'un'asta ch'è un tirso cui tolta

fu la bassarica foglia.

fulva ebber certo la barba,

ebber villoso il torace

gli antichi predoni del Lazio.

E le lor femmine (Roma

ne impresse l'effigie nell'oro

imperiale) dal collo

pesante, dal ventre mai sazio,

dalla chioma lucida e folta

come la lana dei neri

capretti, le femmine belle

e lente ai copiosi pasti

infuriavano i maschi

col fortore delle ascelle.

 

Quivi l'animale umano

amai, che divora, s'accoppia,

urla, combatte, uccide,

inconsapevole e vero.

Quivi divinai la divina

bestialità che facea

resistente la forza

di Roma dal tardo pensiero.

Meglio che tra gli spadoni

e le spìntrie, il mio dolore

e il mio desiderio inespressi

quivi respirarono, fatti

più forti perché più carnali.

Il pregio e il mistero del sangue

sentii mirando su le lastre,

nel solco dei carri, brillare

il fiotto vermiglio sgorgato

dalle ferite mortali.

O selva d'arbori eguali,

pronao d'un tempio senz'inni,

teco all'ombra io vidi l'Erinni.

 

Tutti eguali in ordine i pini,

quasi eletti a un rito solenne,

sorgevan dall'erba infinita.

Ogni traccia era disparita

della belva e dell'uomo:

sol v'era il silenzio del cielo.

E vi fiorìa l'asfodèlo

a piè dei tronchi scagliosi,

e l'anèmone violetto

ch'è il rapido fiore del vento.

E come un palagio d'argento

di dai tronchi, multiforme

e tacito, era il Vaticano;

un ermo candore lontano

era il Soratte solitario;

i cipressi del Monte Mario

erano un fùnebre serto

per non so qual lutto sereno.

E un profumo di fieno

e di libertà, quasi un fiato

pànico, venia dal deserto.

 

O selva d'arbori eguali,

tra l'Urbe e l'Agro ordinata,

ove dormii sonni veggenti

e meditai le mie sorti

e favellai con l'Erinni,

tu m'appari nella memoria

come il vestibolo vivo

della formidabile cella;

perché pieno de' tuoi fatali

murmuri l'anima, gli occhi

pieno dei movimenti

fieri che su l'antica via

agitavan gli uomini forti,

ebro dell'amore di Roma

e sitibondo di gloria,

io v'entrai seguendo mia stella.

E, come su l'erba novella

che inazzurravano l'ombre

de' tuoi colonnati, io vi giacqui

supino per contemplare.

E dove giacqui, rinacqui.

 

Che son mai le ambasce supreme

del combattente caduto

nella vertigine immensa

della morte, col viso

rivolto al ciel muto ed eterno,

quand'ei più non sente il nemico

che senza riscatto gli preme

con le ginocchia lo sterno

ma sol sente l'anima forte

che l'abbandona e nell'atto

di partirsi infinita

col peso di tutta la vita

gli pesa e di tutta la morte?

Che è mai la sua visione

solitaria in mezzo al deserto

ruggente della guerra,

quand'ei non sa la cagione

ma vede che certo è soltanto

il dolore e giusta è la terra

poiché foglie e pianto e ogni carne

più sanguinosa raccoglie?

 

Le grida le risa gli oltraggi

umani duravano in me;

e i dardi della luce

ancor mi dolevano; e i raggi

e il tumulto erano in me

una sola vertigine truce;

e parevami esser demente

e ardere fino alla midolla

come tra vampe di fenile

che ribolla in afa di nembo

imminente; e nel tenebrore

febrile scintille io vedeva

come di selci percosse,

ché gli occhi m'eran nelle fosse

dell'orbite veracemente

come a urto di focile

selci nell'ordigno d'acciaio

che le attanaglia. E io era

come colui che muore

di sùbita morte solare,

al limite della battaglia.

 

O ruota d'Issione!

Rivolgeasi tutta la volta

come ruota sopra di me,

e il dolor mio n'era l'asse

stridente e risfavillante.

Tutto quel ciel disperato

di bellezza sopra di me

era come ruota di ferro

trattata da un'ira gigante.

E come le festuche e le scorze

e il timo e la polve e la melma

d'intorno alle ruote dei plàustri

nella carraia romana,

così d'intorno a quell'una

amore odio eccidio spavento

sacrifizio supplizio

delirio dell'anima umana

tutti i mali e tutte le colpe

e tutte le cieche speranze

trascinati erano e franti

nell'inesorabile giro.

 

E io dissi morendo:

«Anima mia, vedo te?

vedo le tue speranze

le tue colpe i tuoi mali

nell'inesorabile giro?

Anima mia, vedo in te

le larve delle parole,

i sogni pulverulenti,

le credenze inferme o morte,

i giorni senza bellezza,

le tracce dei crudi flagelli,

le reliquie del mio martìro?».

Supino giacente il mio corpo

non avea più ombra nel mondo.

L'immobilità del dolore

era la mia sola grandezza.

Come in nero marmo, sepolto

nell'orrore de' miei pensieri,

io sentii venire di lunge,

sorgere sentii dal profondo

il pianto che agli occhi non giunge.

 

E quel pianto era pianto,

entro di me, sopra di me,

da creature che forse

vivevano oltre la vita

ma non beverate nel Lete

né di papaveri cinte,

anzi chiuse in un vestimento

d'impenetrabile ardore

che allo stillar dell'onda

amara qual rogo alla piova

crepitava senza perire.

Ed elle cantavano un canto,

entro di me, sopra di me,

più forte che tuono di lire,

forte di sì alto lamento

che toccava le più segrete

stelle nel cuore del Cielo

e tremar facea di nova

pietade il cuor della Terra

e discolorava la faccia

dell'Ocèano anèlo.

 

«Luce del dolore» io dissi

«ti bevo! Luce del dolore,

a cui si precipita ignaro

dalla notte bruta l'infante

che sforza la porta sanguigna

del grembo materno col capo

proteso, con chiuse le pugna;

Luce del dolore,

a cui si volge l'estremo

battito della palpèbra

senile priva di cigli

ove all'acredine del sale

la pupilla s'è fatta

più opaca e dura dell'ugna;

Luce del dolore, ti bevo

a gran sorsi come bevvi

dalla mammella il latte,

la voluttà dalla bocca

amata, la melodìa

dalla sera d'aprile,

l'odio dalla ferrea pugna.

 

Di te m'inebrio. Tu m'inondi.

Non v'è ombra in me se non quanta

può coprirne con agio

il calice riverso

d'un giglio! E di questa io farò

un solitario zaffìro;

con quest'ombra che resta

una gemma io sublimerò

più cerula che il cielo

d'Agrigento, per la fronte

della mia compagna diletta

E la ruota s'arrestò

di sùbito nel suo giro,

come il supplizio s'arresta

per il comandamento

del tiranno malvagio

cui tediano i gridi

delle vittime attorte

infrante nelle sue pressure.

E io vidi le creature

tra la vita e la morte.

 

Vidi i fanciulli i giovinetti

i vegliardi le madri

le vergini i guerrieri

i sacerdoti i patriarchi

gli utensìli e gli armenti,

tutte le carni dolenti

e tutti gli strumenti

della colpa e del castigo,

i letti i libri i roghi le are,

e l'inerzia della terra

e la furia delle acque

e l'impeto dei vènti

e l'ingombro delle nubi,

la spada la mensa il fardello,

il teschio dell'arìete,

il festone di quercia,

la medaglia superba;

e quegli sguardi e quei gesti,

anima mia, quelle pupille

che ti guatavano dal fondo

dell'infinito terrore!

 

E quivi tutto era più grande

e più grave, e senza patria,

e d'immemorabile etade,

e sotto il flagello

d'inconoscibili numi.

Colei che avea generato

stanca era d'una immensa

maternità, come

se dal suo ventre escito fosse

il peso delle nazioni

maledette, con un travaglio

orrendo; e le sue mammelle

eran come l'urne dei fiumi.

Profondato nell'oscuro

sonno era il dormiente,

come un monte sotto i silenzii

dei mari primordiali

onde sorgerà in un giorno

del più remoto Futuro,

come nessun corpo giammai

profondato fu nella morte.

 

E tutta la gioia feroce

degli uccisori nati

di donna, da che il primo sangue

umano abbeverò la terra

ancor del diluvio melmosa,

tutta gravava nel pugno

di colui ch'era in atto

di recidere il capo

al vinto nemico; e quel ferro

tagliente pareva levato

dall'eterna minaccia

d'un dio su l'orizzonte

immobile della paura

terrena; e in quell'abbattuto,

che invano pontava la palma

il cùbito e il ginocchio

sul suolo ch'ei dovea

di sé far vermiglio, penava

il lamentabile sforzo

di tutti gli uomini vinti

da che l'uomo è lupo per l'uomo.

 

E fatalità spaventose

si propagavano pel mondo,

mosse da un gesto, dal lampo

d'uno sguardo, dal reclinare

d'un vólto, dal lembo agitato

d'un manto, dal volgersi ratto

d'un pargolo verso la poppa,

dal ripiegarsi d'un corpo

senile nell'ultima sosta.

E sventure senza nome,

desolazioni senza voce

e senza pianto, lutti

accecati dall'amarore

delle lacrime esauste,

tormenti non conosciuti

dagli antichi tiranni

né dagli esuli iddii,

enormità di doglia

e di follìa smisurate

pesavano nella stanchezza

d'una pallida mano.

 

E tutte le membra, come

la mano, erano carche

di patimento mortale

e s'accasciavano al suolo

con ossature di piombo;

o, risvegliate dal rombo

della morte improvviso,

balzavano nel terrore

protese verso lo scampo,

erette contra il periglio,

contratte sotto la minaccia;

e i muscoli nelle braccia

le vèrtebre nelle schiene

le còstole nel torace

le arterie nel collo

i tendini alle calcagna

erano come le bestemmie

le implorazioni e le grida

opposte ai fati avversi,

eran come le bocche urlanti,

gli irti crini, gli occhi riversi.

 

E, come su mare notturno

s'ode talor clamore

di naufragio lontano,

venìa dallo spazio incurvo

da quel gorgo soprano

la voce di tanto dolore

confusamente, e fioca e forte.

E talor si facea

di repente un silenzio

più crudo che tutte le grida;

ma durava nel vano,

come il bronzo che vibra,

il rombo eternal della morte.

E alcuna delle creature

accosciate nell'ombra,

sotto l'invisibile mola

ond'era premuta

continuamente, con voce

rimasta per secoli muta

disse l'antica parola:

«Perché siamo nati?».

 

E io sussultai di paura

sul pavimento che freddo

era come pietra di tomba,

sentendomi l'ossa corrose.

Con pallidi occhi, vacillanti

nell'orbite fatte più larghe,

cercai per la volta profonda

gli eroi fra le genti dogliose.

Dominavano la sventura

e la colpa, chiarosonanti

come squilli di tromba,

le Volontà meravigliose.

«Perché siamo natidicea

la creatura del fango

con la bocca sua piena d'ombra

come la fàuce del bove

è piena di strame.

«Simile al bove che rumina,

simile al capro che copula

è l'uomo, con la lussuria

la strage il servaggio e la fame

 

E una Volontà risplendente

«Taci» gridò «taci, bestia

da macello e da soma!

Porta su le tue schiene il peso

di colui che ti doma

e poi senza gemito spira

sotto il coltello tagliente.

Silenzio! Silenzio! Sol degno

è che parli innanzi alla notte

chi sforza il Mondo

a esistere e magnificato

l'afferma nelle sue lotte

e l'esalta su la sua lira.

Taci tu, cosa da mercato,

ingombro gemebondo

E ogni lagno si tacque,

ogni vil bocca ebbe il bavaglio.

E come croscio d'acque

possenti era la forza

dei Giovini, grave

di bellezze in travaglio.

 

E, dalla fronte nuda

al pollice del piè contratto,

fremito di sùbiti canti

mi corse. Correre sentii

nelle mie vene i corsieri

anelanti dell'Atto,

scosso dai miei spiriti il peso

delle ore infruttuose.

E, ridivenuti guerrieri,

gli spiriti verso gli eroi

gridarono: «O nostri fratelli,

soli fra le genti dogliose

ricchi d'opre per la dimane

come gli arbori novelli

di gemme, noi su la terra

mescere vorremmo la vostra

immortalità con la nostra

morte per vincere il Fato!».

E il coro inerme ed armato

«Sursum cordarispose,

traendoli all'alta sua guerra.

 

E allora io cercai le Sibille

per desìo d'un'alta compagna.

E dissi alla Libica: «I piedi

tuoi son come le ali

della colomba, poggiàti

sul pollice fiero, e tu sei

per chiudere il vasto volume

e per librarti a volo uscendo

dal tuo vestimento, o Sibilla,

come da un vincolo duro

affinché l'oro e l'azzurro

soli ti cingano come

l'orbita cinge la pupilla

umida di visioni

infinite e la tua bellezza

fatidica pàlpiti

di libertà sopra il vento.

Ignuda le spalle e le braccia

e la nuca, luoghi di gaudio,

ecco, dalla tua cintura

t'involi e dal tuo vestimento.

 

Ma il tuo seno, che tu mi celi,

non è forse profondo

come un fior numeroso?

E la treccia che sfugge

alla benda delle tue tempie

non ha forse il misterioso

potere del corno sul fronte

di Pan che conduce nei cieli

le melodìe del Mondo?

E il tuo fianco fecondo

non è fatto pel seme

del vincitore? Ah chi mai

saprà il colore degli occhi

tuoi sotto le pàlpebre chine?

Quando mi guarderai?

Orfeo sono, senza ghirlande,

che più non attende alle porte

dell'Ade quella che due volte

perdette! E tu sei troppo grande,

o Libica: sul cor tuo forte

soffocar puoi anche la Morte».

 

All'Eritrèa dissi: «Non m'odi,

se parlo. Sei anche più grande!

La Saggezza e la Forza

lavarono i tuoi piedi scalzi.

Tu sdegni i troni. Se t'alzi,

tu mi sembri una torre munita.

Signora della Vita

tu sdegni le chiuse corone.

Pallade ha l'elmo corintio

col duplice occhio e il nasale.

Intorno al tuo capo regale

tu serri il pìleo dei nàuti

con treccia che gira due volte

simile a ceràste divelta

dalla chioma della Gorgóne.

Pallade ha il suono dei flauti

e il canto delle mille teste

pei giuochi della nazione.

Tu nelle tue vaste orchestre

hai tutte le voci, dal rombo

dell'ape al fragor del ciclone.

 

Che mai raccoglie il tuo braccio

con la man cava (che resse

forse per una notte i chiostri

del Cielo tolti al sostegno

d'Atlante e forse la clava

brandì ad uccidere mostri)

che mai raccoglie il tuo braccio

dall'ombra di quella gran piega

che ti fa nel manto il ginocchio

sovrapposto all'altro in riposo?

Le pieghe del tuo spazioso

vestimento son piene

d'invisibili tesori

e di mistero infinito.

E, se tu volgi col dito

il foglio del libro verace

or che il Genio con la sua face

t'accende la lucerna,

qual tirannide crolla,

nasce qual novo mito,

qual puro eroe s'eterna?».

 

Ma dissi alla Delfica: «Te

amerò, tra due vènti avversi

nata dall'onda marina

esule Oceànide, te

che i lombi non anche detersi

hai dall'amarezza salina.

Chiusa nella tunica grave

or sei, nella lana cui morde

la fibula sotto l'ascella;

ma ti gonfia il vento del mare

dall'òmero al pòplite il manto

ampio quasi trevo in procella.

Tu svolgi dalla sinistra

mano il tuo ròtolo santo

che come vela quadra

s'inarca alla banda contraria;

e così vigile assisa

mi pari su cassero forte

di nave che navighi i tempi,

sicura tra i due vènti avversi,

fresca Virtù solitaria.

Io ben so che l'onda natale

crea questa tua giovinezza

e il cristallo de' tuoi grandi occhi.

Tuo latte fu il fiore del sale,

e il cerulo gorgo tua cuna.

Fra le mammelle e i ginocchi,

a traverso il tuo vestimento,

io vedo raggiar la bianchezza

del grembo tuo, virginale

come la più labile spuma.

E sento, a traverso la benda

che dalla fronte alla nuca

ti copre, l'odore dell'ulva

e dell'alga, l'odore

d'un vascello che porti

nardo e mirra nella sua stiva,

l'odore d'un'isola australe.

O bendata, e ben ti so fulva

come il fuco tratto alla riva.

So che nella destra ti dura

il segno del tuo governale.

 

Navigatrice sei,

Thalassia nomata per me!

I rematori adusti

dalle cinture di sparto

e dai lanuti galèri,

curvi su gli scalmi nel canto

disteso che gonfie facea

le vene dei colli robusti,

disser le tue lodi con me.

Sul litorale i trevieri

misurando e tagliando

le vele in canape aspra,

le lor donne i lunghi aghi acuti

nell'ordito spignendo

con la palma armata di piastra,

per giugner vivagni di ferzi

acconciar guaine a ralinghe

e rinforzi e ritrosi e suppunti

ben saldi contro fortuna,

via via di costura in costura

disser le tue lodi con me.

 

I costruttori di navi

segnando a rigore di frasca

i garbi dei fianchi e dei ponti

per vincer con lor misurate

armonie la cieca burrasca,

i mastri d'ascia segando

a fil di sinopia il legname

squadrando chiodando impernando

dallo scafo alla tuga il fasciame,

i calafati la scussa

carena con maglio e scalpello

stoppando per l'ugner di pece

e di sevo a fuoco di stipa

e spalmar di bianca cerussa,

i cordai filando dai mazzi

la canape splendida ai soli

novi o torcendo nei trasti

i fili e alla pigna i legnuoli,

tutte in alterno cantare

le maestranze del mare

disser le tue lodi con me.

 

O Thalassia, Sibilla

di grandi oceaniche sorti,

divinatrice serena

di turbini e di naufragi,

Euploia, esulata in ambagi

ove impera il dio molle

che dalla bellissima argilla

separò gli spirti e li volle

infermi di nera vergogna,

odimi. Io ti chiedo: Che guardi?

L'occhio tuo fisso non sogna

pensa, ma vede

come nessun altro mai vide.

Non lacrimasorride:

vede meravigliosamente.

Che guardi? Una cosa fuggente,

o una che giunge dai mari

onde tu stessa venisti?

Scendere su i popoli tristi

le ceneri crepuscolari,

o sorgere l'albe cruente?

 

Che guardi? Un Liberatore

inchiodato a una quercia

alta mille volte cinquanta

cùbiti, come l'Agageo

Haman figliuol di Hammedata

che laggiù grandeggia in aspetto

di Titano più grande

del Galileo crocifisso?

Una gente nata del suolo

sacro all'Olivo e a Minerva,

che alfin ritrovò la sua gioia

perduta e goder sa nei giorni

la beltà senza fasto

il piacere senza mollezza

e comporre sa le sue feste

divine con lievi corone?

Ma forse l'occhio tuo fisso

contempla l'Ombra di Roma

che regge l'antico timone,

quale effigiata ancor regna

nella medaglia di Nerva.

 

Andiamo, andiamo! Se ancóra

sonvi nel mondo azioni

da compiere belle

come le più belle promesse

dei sogni virili, se ancora

sonvi da vincere mostri,

da sciogliere enigmi,

da purificare carnai,

da costringere petti

umani a gridi d'amore

e d'orgoglio verso la Vita,

andiamo, andiamo! Se ancóra

sonvi giardini profondi

ove favellare si possa

co' i saggi e gli aedi, se fonti

vi sono per tergersi dopo

le lotte, colline silenti

che sostengano anfiteatri

di marmo sacri ai tragèdi,

se inni, se musiche pure,

se ancor vi son lauri, andiamo!

 

Per udire il grido d'un maschio,

per vedere un braccio levato

a percuoter forte il rivale,

per sentir l'odore del sangue

sparso e dell'ebrezza brutale,

per ingannar la mia sete

di vivere in atti ed in opre,

o fresca Oceànide, innanzi

ch'io venissi a te, disperato

vagai per l'antica

via strepitosa di carri

lorda d'escrementi e d'avanzi

accecante di luce dura.

E su quella lordura

l'anima mia ne' miei sensi

crudeli perdutamente

aspirò il divino fiato

che venìa dagli immensi

deserti dell'Agro fiorente

d'anèmoni e d'asfodèli;

trascorse al confino de' cieli.

 

Cammino senza impedimento,

fatto dai balzi impetuosi,

quello cui l'anima mia

è pronta se tu l'accompagni!

Disgusto dei rigagni

putridi la tiene; disgusto

dei lascivi amori mendaci

che non sanno che sia

l'innocenza nel desiderio,

la profonda innocenza

cui non giova altro guanciale

pel sonno d'un'alba ignota

se non il sopposto alla gota

suo braccio robusto.

La tiene disgusto mortale

dei giacigli acri ove il sudore

del combattimento carnale

fa insana la cóltrice come

la materia libidinosa

che serpentina s'ammassa

e luccica, e attossica l'ombra.

 

Una venefica polpa

fu data ai miei denti per pane.

Assaporai una schiuma

più salsa che quella del mare.

Congiunto fui alla colpa

come la vèrtebra è congiunta

alla vèrtebra nella schiena

che rabbrividisce di gelo

fùnebre alla carezza acuta.

Non lasciai la bocca morduta

sinché la saliva

non ebbe il sapor della vena.

Bevvi a una a una le stille

su la bianchezza del petto

che i rovi avean flagellato.

Vidi nelle aperte pupille

uno sguardo più fiso

che il ferreo sguardo del Fato.

E le labbra nel mio viso

non potean più ridere e gli occhi

non potean più piangere, o Amore!

 

E conobbi l'attesa

nella stanza che s'oscura

al giorno che declina;

quando la lama tagliente,

tratta dalla guaina

silenziosamente,

è posta nella piega

impura del lenzuolo,

per la vana vendetta;

e sul cuor solo che aspetta

sfacendosi in ascolto,

e su le mani e sul vólto,

su tutte le misere carni,

passan gli uomini e i carri,

scroscia l'onta della via;

e la melancolìa

delle cose ha l'odore

della veglia notturna

tra il cadavere e i ceri;

e quel che fu ieri

non sarà più, per sempre.

 

Ahimè, non la bianca pruina,

non la rugiada tremante,

né la scaturigine chiara,

né il bosco con l'umido sguardo

dell'ombra sotto le verdi

sue pàlpebre, né il giovinetto

vento con gli anèmoni in bocca,

né il fiato dei gelsomini

quando a vespro piove su gli orti,

né alcuna gelida cosa

poteva guarire il mio male;

perché maculato io era

più profondamente che il nato

della pantera. E la fredda

e santa corona, ond'io cinto

aveva il mio spino

promettendolo alla Bellezza,

inaridita s'era a foglia

a foglia. E l'oscuro giacinto

del mio desiderio fioriva

ai piedi del Crimine irto.

 

Ma un dio nudrito di fuoco

e d'amarezza era in me,

che divinamente sentiva

i preludii della Notte,

e il dolore delle lune

in travaglio, e il pianto

delle Pleiadi, e il pianto

delle Iadi, e il lutto figliale

d'Erigone, e in dune deserte

la disperanza del mare;

e tutte le cose di fiamma

in travaglio, ch'erran pei cieli

del silenzio dolentemente,

e quelle che sono già spente

e sembran arder tuttavia;

e la melancolìa

delle fiumane tortuose

ove scorre l'acqua che stilla

dalle clessidre del Tempo,

cui venenò l'Amore

e appesantì la Morte.

 

Ahimè, tra due vènti avversi

nata dall'onda marina

esule Oceànide, fresca

Virtù solitaria, che sai

tu del mio male? Non m'odi,

se chiamo. Non torci lo sguardo

dalla visione che vedi,

e ch'io non veggo né mai

vedrò. La tua bocca socchiusa

è da me più lontana

che la perlìfera conca

in fondo all'Oceano australe.

Eterna sei , simulando

col rotolo tuo dispiegato

l'imagine nautica, Euploia,

per acerbare la pena

del naufrago che ti si volge,

per eccitare l'ardore

del buon piloto che t'ama;

ché necessario è navigare,

vivere non è necessario».

 

E stetti quivi giacente

ne' miei pensieri a guatarla,

in me medesmo sepolto.

E più e più biancheggiare

il teschio d'arìete vidi,

risplendere più di quel vólto.

E vidi presso nell'ombra

la madre affannata col figlio

stretto al seno, e l'uomo abbattuto

in un sonno cupo d'angoscia;

e dall'altra banda presso

l'ucciso guerriero sul letto,

levato ancor la gran coscia

nel violento sussulto;

e carca del crimine occulto

e ancor bagnata dal seme

del maschio la femmina in atto

di ricuoprire il mozzo

capo, sanguinante nel piatto

con tal pondo di alto valore

che l'ancella èrane curva.

 

E, come il mio sguardo sgomento

salì a cercare la coppia

degli eroi pùberi, scorsi

che l'effigie dell'uno

era distrutta dal Tempo

irreparabile e l'altro

bello era e triste di bellezza

e di tristezza gorgónee

quasi nato fosse del sangue

di Medusa anguicrinita

per un destino funesto.

Ma tutte quelle errònee

forze tra la Morte e la Vita

penanti per entro quel turbo,

tutte parean cieche al confronto

del gesto con cui quell'eroe

pensoso reggeva la zona

a sostener la medaglia

di conio titanico, pronto

per conquistar la corona

a scagliarsi nella battaglia.

 

E io gli dissi: «Fra tutti

i tuoi fratelli sei solo,

sei senza il compagno a riscontro,

o figlio di Medusa

che forse porti per sempre

nel centro dell'anima chiusa

come in un'ègida ardente

il fatale vólto materno.

E, se pure discerno

l'ombra del tuo pari, ell'è infusa

di leteo làtice e oblìa

le sue fiere speranze

che avean già rostro ed artiglio

come aquilette bienni.

Ond'io, che divenni

solo come te presso un'ombra

ferale, vorrei ne' giorni

e nell'opre averti compagno;

ché troppo è talor cosa dura

non poter la man fida porre

su l'òmero dell'eguale».

 

E così parlò la paura

della solitudine in me

per la mia fiacchezza. L'eroe

fisso era in ben altra rancura.

«Sii solo» rispose egli a me

«sii solo della tua specie,

e nel tuo cammino sii solo,

sii solo nell'ultima altura.

Il cuore è il compagno più forte.

Tre volte i guerrieri son pari:

liberi davanti al dolore,

liberi davanti al periglio,

liberi davanti alla morte.

E ciascuno è pronto a sé stesso,

ciascuno a sé stesso è fedele:

un arco che ama il suo dardo,

un dardo che brama il suo segno,

un segno che è sempre lontano.

E la libertà è lo squillo

d'oro, il clangore che incendia

il cielo antelucano

 

«Ben so, ben so questo che insegni»,

io dissi. «Udii già tal sentenza

fendermi come spada

gli orecchi, nel vento del mare;

e il cuor mi balzava nel petto

come ai Coribanti dell'Ida

per una virtù furibonda

e il fegato acerrimo ardeva.

Ma oggi il cuore m'aggreva

fattura di Circe omicida,

di Circe dalle molt'erbe

che inganna con voce soave.

Battermi tentò con la verga

ella e spogliato dell'armi

nel solido stabbio serrarmi.

Tu l'erba salùbre mi dài,

ed eccomi sano alla lotta

Rividi la concava nave

nelle acque di Leucade, il grande

piloto eversore di mura

tenére nel pugno la scotta.

 

E, in verità, fu quella

l'ultima volta che il cuore

mi vacillò di fiacchezza

e d'ebrezza torbida; quello

fu l'ultimo mio smarrimento,

e l'ultimo affanno

della solitudine verso

l'amore; e fu l'ultimo indugio,

e l'insegnamento supremo.

Onde il mio poter, fatto scemo

dalla frode dal dubbio

e dal disgusto, risorse

in plenitudine nova

su l'orlo dei baratri cupi.

Oleastri d'Itaca, rupi

di Delo divina,

cielo della Sistina,

luci della mia conoscenza,

da voi mi venne sentenza

dura per vivere in terra

e voi siete i miei luoghi santi.

 

Tutte le colpe e i castighi

e le minacce e i vaticinii

si oscurarono allora

ai miei occhi; e la immane

latèbra si fece sonora

di quel peane che udito

avea nell'isola d'Aiace.

E vidi in carne verace

le gioventù sovrumane

(non tale era Achille sul punto

di partirsi da Sciro

e Patroclo Actòride prima

che agli òmeri suoi rivestisse

l'armi funeste?) irraggiare

lo spazio con lo splendore

d'una nudità che, construtta

di ossa di nervi di vene

di muscoli e di tutta

la potenza carnale,

splendeva su l'anima come

spirital bellezza grande.

 

Tra la luce d'Omero

e l'ombra di Dante

pareano vivere e sognare

in concordia discorde

quei giovini eroi del Pensiero,

fra la certezza e il mistero

librati, fra l'atto presente

e la parola futura.

Ciascuno la sua ossatura

creato avea dall'interno

del suo spirto, artefice ardente

del suo simulacro vitale;

e dal tarso allo sterno,

dal cùbito al ginocchio,

dall'occìpite al tallone,

dalle vèrtebre alle falangi

la compagine era eloquente

come uno spirto che parli

di sé con un fremito d'ale;

sì che il triste pondo animale

in verbo mutavasi eterno.

 

Quale fra tutti il migliore?

Poggiato la palma sul dado

marmoreo, l'uno era assorto

in un pensierobello

che volgevagli in suso i capegli

a guisa di diadema

per occupar solo la fronte

e farne a sé luogo di luce.

Inclito come Polluce,

l'altro piegavasi in dietro

gridando, quasi a lanciare

di da ogni fine raggiunto

un disco di ferro in cui fosse

inciso un decreto del Fato.

In fiera allegrezza, agitato

pareva da pirrica danza

l'altro; e col levar delle braccia

con l'alterno urto dei piedi

con la brevità degli accenti

segnava i ritmi veementi

dell'anima sua predatrice.

 

E chi, flesso il pòplite, lieve

sedea su la gamba sopposta;

e chi raccolto, in una sosta

dell'ardore, co' piè giunti,

con la zona sul capo

a guisa di benda, sognava

un suo sogno severo;

e chi reclinavasi altiero

a trar con la destra la zona

che fermata area col calcagno

mentre incoronarsi del lembo

estremo parea con la manca;

e chi, piegato su l'anca,

col capo riverso nel triplo

avvolgimento d'un drappo

fremebondo, avea la sembianza

del vento Vulturno;

e chi, quasi genio notturno,

nascosto le mani profuse

di soporiferi semi,

tenera le pàlpebre chiuse.

 

Ed altri guatava diritto

all'ombra del braccio levato

in atto d'opporre difesa

a erculeo colpo di clava;

altri dall'alto guatava

obliquo con crude pupille

come avverso ricca rapina,

contratto i muscoli al balzo,

quasi leopardo che sia

per frangere tergo di toro.

E tutto pareva sonoro

dell'alto peane lo spazio,

però che in ogni atto dei corpi

si rivelasse una fiamma

di volontà e d'ardire

qual sola proruppe, toccando

a sommo dell'etra gli dèi,

dalle battaglie sacre

ch'eran primavere cruente

d'un popolo nato a fiorire

il fiore de' suoi Propilèi.

 

Ma qual fra gli eroi fu l'eletto

della tua speranza, o rinata

anima mia? Qual più ti piacque?

Qual tu volesti assemprare

nel vittorioso avvenire?

Quello che ti parve fra tutti

il più libero, cinto

di libertà come d'un serto

diàfano, per aver vinto.

Quello che ti parve fra tutti

il più sereno, sospeso

in serenità d'oro, certo

qual dio, per avere compreso.

Instrutto ma non leso

dalla vita, bello e gagliardo,

poggiato il cùbito destro

sul festone silvestro

e sul ginocchio la mano,

ei guarda con limpido sguardo

il compagno oppresso dal peso,

il forte che ancor non s'affranca.

Sotto di lui sta, quasi mole

di granito e d'umo fecondo,

con le gambe conserte

assiso il titanico veglio

che sembra l'antico parente

di quella forza novella.

Quali comprime parole

nella vasta mascella

barbata il veglio con essa

la sua mano venata

di duro aratore che seppe

entrar profondo col dente

nel grembo d'una terra inerte

e strapparle sacra promessa

d'abondanza per la sua prole?

E le due donne sole,

che stannogli quivi alle spalle,

perché sono tristi? Rimpianto

le tiene dell'esule prole

che nudrirono alternamente

nella cuna della sua valle?

 

Io vidi in quel veglio lo spirto

del mio suolo natale,

il generator venerando

della mia sostanza più forte,

il testimone solenne

della mia fatica vitale,

il giudice e il custode

futuro della mia morte.

«Uomo» dissi a me «la melode

che ti pregò buona la sorte

nella cuna di rovere

tu non obliare giammai;

ché in ella è un indomito nerbo.

Forse su quelle povere

note un giorno tu comporrai

l'inno tuo più superbo;

quando, sopra il vinto dolore

assiso come il sereno

eroe che nell'alto contempli,

cantar tu potrai dal tuo pieno

petto i tuoi dii ne' tuoi templi

 

 


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