Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
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LIBRO PRIMO - MAIA

1 - Laus vitae

XVIII.

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XVIII.

 

Or giunto è quel giorno per l'uomo

audace e paziente,

che vinse il dolore e il disgusto

e la stanchezza e sé stesso.

È giunto il giorno promesso.

O solstizio d'estate!

La man ritrovò, come nido

nel cavo del tronco vetusto,

le ricchezze della sua gente;

e come le uova lasciate

si raccolgono, ella raccolse

il retaggio della sua gente;

e non s'udì muovere ala

pigolare nel nido

ma tutto era luce calore

odor di glebe odor d'erbe

fragranza di miele selvaggio

e fremito di biade

già fulvide nella pianura.

O solstizio d'estate,

annunzio della mietitura!

 

Per vincere il dolore,

io lo cercai dovunque,

senza tregua; e spezzato

me l'ebbi a frusto a frusto.

Per vincere il disgusto,

respirai l'aria infetta,

il fetore del fiato

plebeo, l'afa della carogna,

il lezzo della fogna,

la peste della cloaca,

il rutto della mala ebrezza.

Per vincere la stanchezza,

volli cose più pesanti

da portare in sentieri

più difficili e costrinsi

le mie pàlpebre e i miei pensieri

a più lunga vigilia.

Per esser solo a me davanti,

come chi sogna o s'esilia,

camminai nel deserto

delle moltitudini ansanti.

 

Camminai per entro la folta

materia delle agonie

e delle resurrezioni,

misurandola in silenzio

col battito del mio sangue

aumentato come nell'estro

furiale dei ditirambi.

Credetti vedere tra lampi

l'aspetto terrestro

di Dionìso effrenato,

la mostruosa faccia

d'un dio pandèmio agitato

da una innumerevole danza

per un rito impuro e cruento.

Sentii tornare nel vento

l'antico delirio d'Astarte

nel d'Adonài germogliante

quando i quadrivii e le piazze

sanguinavan di stupri

sacri e la città era tutta

una prostituta schiumante.

O Strada, adito orrendo

ove apparir deve il dio

Ignoto, ampia sì che con quattro

quadrighe di fronte

vi possa procedere un novo

Trionfo latino,

angusta tòrtile e sozza

come budello bovino,

ardente qual fiume di lava,

umida qual catacomba,

frequente qual molo d'approdo,

deserta qual vacua tomba,

piena di silenzii e di gridi,

tetra e folle, fùnebre e vana,

non mai così bella io ti vidi

come allor che udendo la voce

della rivolta lontana

guardai fiso il tuo sbocco

irto di baionette,

l'occlusa tua tragica foce

all'émpito delle vendette.

Io ho portati i tuoi furori,

caricato mi sono

delle tue doglie, ingombrato

dei tuoi lutti e dei tuoi misfatti.

Intera nel cor tu mi fosti

con le moltitudini cieche

con l'enormità dei clamori

con la veemenza degli atti.

Lo spirito del tumulto

passava sferzando la faccia

come la raffica pregna

di fortore salino.

Occhi bianchi in teste riverse

e dentature mordaci

brillavano come le schiume

nascenti del maricino.

Un che d'aspro, un che di ferino

e di primaverile

e di volubile era nell'aria.

D'acuto lucea riso ostile

l'ilarità sanguinaria.

 

Con òmero pugno e ginocchio

innanzi spignea la carcassa

della sua fame allegra,

più forte, sempre più forte,

come la ciurma che vara

la barca giù per la sabbia

del lido e spignendo la negra

carena grido concorde.

Dalie gole rauche un selvaggio

canto rompea tra i palagi

senZa echi, e le ingiurie

gli eran compagnia di strumenti

con sibilo di rotte corde,

gli eran segnal di ripresa

il precipitar dei cristalli

argentino al colpo del sasso,

il rimbombar dei battenti

urtati su le chiuse porte;

e il canto avea fatto lega

col sepolcro, avea fatto patto

di fèlicità con la morte.

 

E io vidi allor sul crocicchio

l'edificator di bordelli,

figliuolo di non marzia lupa,

satollo di vituperio,

che s'era estrutto alto luogo

quivi a tener sue concioni;

vidi il gran demagogo,

nomato con nomi di gloria

Prevaricator sin dal ventre

e Sacco di saggezza

escrementizia e Frogia

mocciosa della vacca Onta,

sedare il clamore col gesto

per iscagliar suo verbo

contro a chiunque s'inalzi

e contro a tutti gli alti monti

e contro a tutti i colli ingenti

e contro a ogni torre eccelsa

e contro a ogni muro forte

e contro a tutti i bei disegni

e contro a tutti i buoni odori.

 

Ed errava nelle parole

come l'ubriaco di notte

va nel suo vomito errando.

In luogo di buoni odori

vi sarà la sanie concreta,

e in luogo di bella cintura

cordella di sparto,

e vittuaglia spartita

in luogo di vana bellezza.

E una ventrosa menzogna

sarà posta in luogo di queste

vesciche che abbiamo fendute,

per nostro ricetto.

E tu, sterile Plebe

che non partorivi,

concepirai pula

e partorirai loppa.

E i cieli si ripiegheranno

come non più letto volume

su la terra beata

di fecondità strapossente.

 

O quanto era bello

su la bigoncia il torace

del bertone, angelo di bene

e messagger di salute,

che dicea: «La Canaglia

succede all'Uomo per sempre

e in pace amministra le grasce!».

O quanto era bella

intorno all'imperatoria

pinguedine del suo collo

stillante incliti sudori

la porpora della corvatta!

Egli era la sanie coatta

in forma di vafro macaco

nascosto nei panni il verdiccio

pelo e le chiappe callute.

E le vociatrici boccute

l'adoravano. Dal capo

alle piante con gli avidi occhi

elle parean tutto succiarlo

quasi ei fosse tutto priàpo.

 

Ma, quando l'umano

ingombro riprese il cammino

verso la muraglia equestre

irta di lame e di lance

che laggiù l'attendea,

(la pioggia recente avea sparso

per le vie l'odore terrestre,

calando il sole accecato

tra nuvole e cupole d'atro

piombo gonfio ed immoto)

un che di sacro e d'ignoto

sorse da quell'immenso

miserabile corpo

in balìa del delirio

vespertino, le cui mille

e mille facce divampate

parean da una fumida gloria.

E pietà mi prese di lui

che camminava ignaro

nell'eterna sua debolezza

come nella vittoria.

 

Uomini fetidi e robusti,

altri smorti e scarni

e curvi, combusti

dal calore dei forni

e delle caldaie infernali,

inverditi dai sali

del rame, inazzurrati

dall'indaco, arrossati

dalle conce delle pelli,

inviscati dai grumi

e dai carnicci dei macelli,

corrosi dagli acidi, morsi

dal fosforo, fatti ciechi

dalle polveri e dai fumi,

fatti sordi dai fischi

del vapore dilaceranti

o dai tuoni iterati

dei martelli giganti,

dai fragori e dagli stridori

di tutto il ferro attrito,

venian del lavoro fornito.

 

Foschi di carboni,

bianchi di farine,

con lorde le mani

d'argille o d'inchiostri

di sevi o di nitri,

con pregne le vesti

di tabacchi o di droghe

di farmachi o di tòschi,

venian delle fucine,

venian degli opificii,

venian delle fabbriche in opra,

dei fondachi, delle fornaci,

di tutti i supplicii e i servaggi,

con su i vólti selvaggi

impresse le impronte tenaci

della materia bruta

cui li asserviva il travaglio.

Ed ecco era divenuta

la lor pena diversa

una sola rabbia, conversa

a sollevare un sol maglio.

 

E la volontà di morte

cessò dal grido e dal canto:

subitamente si fece

taciturna e compatta

dinanzi alla muraglia

equestre che l'attendea.

S'udiva tintinnire

l'acciaro nella bocca

degli inquieti cavalli,

ansar nei petti inermi

s'udiva la forza plebea.

Gli squilli, gli urli, il galoppo,

il turbine duro che passa,

la vendemmia sotto l'ugne

ferrate, le carni calpeste,

i cranii fenduti, i cervelli

sgorganti, l'orror consueto

della rivolta disfatta

e rotta su le pietre grige;

ma tra il sangue un'ala ch'è intatta,

una fiamma che vige l'idea.

 

Quale? L'antica, l'eterna,

ch'ebbe nei crepuscoli fulvi

dei secoli tante ecatombi

di ribelli invano rinati

dal carnaio delle lor fosse.

Quella che disse: «Vesti i lombi

degli schiavi, o sacra Giustizia,

perché i prigioni del prode

sien tolti e le prede

del possente sieno riscosse».

Nel crepuscolo fulvo

nasceva il delirio. La cieca

demenza guidò la cresciuta

miriade non più inerme

agli abbattimenti e agli incendii,

sott'esso il chiarore sublime

che ferìa le pile dei ponti,

gli archi di trionfo, le fronti

dei templi su le colonne

superstiti, gli anfiteatri

titanii, l'erculee terme.

 

Le fauci belluine

della Folla s'erano aperte

dismisuratamente

per divorar la possa

della Città trionfale,

della tirannica madre

con tutte le sue opulenze

ed abominazioni.

Come il fiume contra i piloni

di granito, fra la distretta

degli argini, sotto la bassa

nuvola melmoso, la massa

carnale rigurgitava

schiumava in capo d'ogni strada,

e alla libidine atroce

ogni strada era suburra.

Valanghe d'ombra azzurra

si precipitavan dal cielo,

ché l'ombra parea più veloce

nel vespero violento.

Le torce ruggirono al vento.

 

E da presso e da lungi

io udiva il clamore,

io udiva gli ululi e i lagni

orribili della gran doglia

nella Città millenaria.

E il clamore era come

di femmina partoriente

che si torca in spasimo grande

e morda la verde sua bava

e dia del capo e dei pugni

nelle mura e invochi soccorso

alla doglia sua, vanamente,

negli orrori suoi solitaria.

E dissi: «Ah quanto ti torci,

misera, e quanta fai bava

di vituperii e d'ire

nelle tue mascelle di ferro!

Ma dato non t'è partorire

se non l'aborto cionco e monco,

l'acèfalo mostro che ha il tronco

di ciuco e la coda di verro.

 

Ah chi almeno un giorno

saprà sollevar la tua fronte

chiomata di crin leonino

verso la bellezza

d'una vita semplice e grande?

Chi ti trarrà dalle lande

della morte verso il bel monte

delle sorgenti ove il destino

delle stirpi s'immerge

e si rinnovella? Un eroe

forse ti verrà che ferrare

saprà de' suoi duri pensieri

la rapidità de' tuoi atti,

come s'inchiodano i ferri

all'ugne degli acri corsieri,

di dagli antichi riscatti».

Afflitto io non dissi a me stesso:

«I giorni saran prolungati

e ogni visione è perita».

Ma sì bene: «I giorni e la fiamma

d'ogni libertà son da presso».

 

E dal giorno di poi

l'ora santa d'Eleusi

fu pallida nella memoria

dinanzi all'ora del pane.

La spica mietuta in silenzio

nella mistica ombra mi parve

men pura che il pane addentato

dall'avidità della fame.

O mattino di primavera

su la via lavata dall'acqua

del cielo! Garrire e brillare

di rondini nell'umidore

argentino! Odor dell'eterno

frumento, dell'aurea crosta

rotonda, della mollica

soffice occhiuta e leggera!

Selvaggio sguardo materno

verso il divino alimento!

Strida del pargolo fioche

per l'aderir della lingua

al palato nell'alidore!

 

Le turbe assalivano i forni

con l'avidità della fame.

Abbattevan le porte,

abbrancavano il pane

ancor caldo gonfio cricchiante.

Traevan sul lastrico i sacchi

della bianca farina,

del biondo cruschello; e le donne

se n'empievano il grembo

prendendone col cavo

delle palme fatto capace

dalla bramosia come staio.

E subitamente un gaio

fervore invase le turbe.

E gli uomini forti, i fanciulli,

le madri, le vergini, i vecchi,

tutti ridean con umidi occhi;

e tutti i denti parean puri

nelle bocche affamate

che masticavano il dono

della Terra nato nei solchi.

 

E un sapor religioso

era certo in quel pane

che tal sacra ebrezza recava,

come nel primissimo pane

che intriso fu, cotto e mangiato

dal colono poi che Demetra

di cerulo peplo gli diede

l'ammaestramento immortale.

E io dissi: «L'uomo è l'eguale

dell'uomo dinanzi alla spica

mietuta in silenzio o con canti.

E questa è la sola eguaglianza,

questo il gran diritto terrestre

che inscritto sta nella zolla».

E parvemi, sopra la folla

sazia di pane recente

carica di pura farina,

intraveder la divina

benignità sorridente

della Dea che è cittadina

per la sua corona murale.

 

E un'altra ora fu larga

alla mia speranza; e fu l'ora

notturna della mia Musa

quando apparve in veste sanguigna

alla moltitudine chiusa

nell'anfiteatro profondo

che fremea di fremito immane.

Quivi rotto fu l'altro pane:

fu dato all'unanime cuore

il bene che supera tutti,

il cibo più dolce dei frutti

nati di radice terrena,

il rapido oblìo della pena

assidua e del duro bisogno,

il nepente del sogno

che svela nel lume d'un astro

novello il prodigio del mondo:

quando il buono Eroe biondo,

che tenne la spada e il timone

l'ascia la marra e il vincastro,

rivisse nell'alta canzone.

 

Anima mia, tu provasti

l'avversità d'ogni vento

e d'ogni vento la gioia,

tutte le figure segrete

conoscesti tu dell'abisso

marino da poppa e da prora.

Ma quale dei soffii più vasti

ti sollevò come quello

spirante dal vólto in te fisso?

e quale figura d'abisso

ti parve misteriosa

come quella che ti guatava

e parea farsi cava

alla voce tua ripercossa?

Entrar sentimmo una possa

ignota in noi, crescere un'ala

terribile al nostro ardimento,

un'ansia d'interno titano

sforzare l'angustia nostra,

distruggere l'impedimento

della corporea chiostra.

 

E la materia sacra

della stirpe, l'imperitura

sostanza progenitrice

dei sangui, l'originaria

virtù della gente era innanzi

a noi affocata

come il masso del ferro

che posto sarà su l'incude.

E noi con le man nude

l'afferrammo delirando

come chi è pieno del dio

e travede nel fuoco informe

l'imagine che trarre

ei deve alla vista di tutti.

L'afferrammo e, instrutti

dal dio, la foggiammo rovente,

e traemmo il gran simulacro

dell'Eroe disparito.

E tu vedesti dal sacro

tuo fuoco, o italica gente,

nascere il novello tuo mito.

 

Bellezza dei miti novelli

non anche nata! Divine

trasfigurazioni

delle forze operanti

nella profondità segreta

della stirpe dominatrice!

Fiammei fiori della radice

innumerevole che abbraccia

la sua terra con fibre

inespugnabili! Supreme

testimonianze d'un sangue

animoso! Gli olivi

che fioriscono a specchio

del Mediterraneo Mare

ancor vedranno fumare

i roghi accesi ai numi

indìgeti e udranno il peana,

quando restituita

su l'acque sarà la più grande

cosa che mai videro gli occhi

del Sole: la Pace Romana.

 

 


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