XVIII.
Or giunto
è quel giorno per l'uomo
audace e
paziente,
che vinse
il dolore e il disgusto
e la
stanchezza e sé stesso.
È giunto
il giorno promesso.
O
solstizio d'estate!
La man
ritrovò, come nido
nel cavo
del tronco vetusto,
le
ricchezze della sua gente;
e come le
uova lasciate
si
raccolgono, ella raccolse
il
retaggio della sua gente;
e non
s'udì muovere ala
né
pigolare nel nido
ma tutto era
luce calore
odor di
glebe odor d'erbe
fragranza
di miele selvaggio
e fremito
di biade
già
fulvide nella pianura.
O
solstizio d'estate,
annunzio
della mietitura!
Per
vincere il dolore,
io lo
cercai dovunque,
senza
tregua; e spezzato
me l'ebbi
a frusto a frusto.
Per
vincere il disgusto,
respirai
l'aria infetta,
il fetore
del fiato
plebeo,
l'afa della carogna,
il lezzo
della fogna,
la peste
della cloaca,
il rutto
della mala ebrezza.
Per
vincere la stanchezza,
volli cose
più pesanti
da portare
in sentieri
più
difficili e costrinsi
le mie
pàlpebre e i miei pensieri
a più
lunga vigilia.
Per esser
solo a me davanti,
come chi
sogna o s'esilia,
camminai nel
deserto
delle
moltitudini ansanti.
Camminai
per entro la folta
materia
delle agonie
e delle
resurrezioni,
misurandola
in silenzio
col
battito del mio sangue
aumentato
come nell'estro
furiale
dei ditirambi.
Credetti
vedere tra lampi
l'aspetto
terrestro
di Dionìso
effrenato,
la
mostruosa faccia
d'un dio
pandèmio agitato
da una
innumerevole danza
per un
rito impuro e cruento.
Sentii
tornare nel vento
l'antico
delirio d'Astarte
nel dì
d'Adonài germogliante
quando i
quadrivii e le piazze
sanguinavan
di stupri
sacri e la
città era tutta
una
prostituta schiumante.
O Strada,
adito orrendo
ove
apparir deve il dio
Ignoto,
ampia sì che con quattro
quadrighe
di fronte
vi possa
procedere un novo
Trionfo
latino,
angusta
tòrtile e sozza
come
budello bovino,
ardente
qual fiume di lava,
umida qual
catacomba,
frequente
qual molo d'approdo,
deserta
qual vacua tomba,
piena di
silenzii e di gridi,
tetra e
folle, fùnebre e vana,
non mai
così bella io ti vidi
come allor
che udendo la voce
della
rivolta lontana
guardai
fiso il tuo sbocco
irto di
baionette,
l'occlusa
tua tragica foce
all'émpito
delle vendette.
Io ho
portati i tuoi furori,
caricato
mi sono
delle tue
doglie, ingombrato
dei tuoi
lutti e dei tuoi misfatti.
Intera nel
cor tu mi fosti
con le
moltitudini cieche
con
l'enormità dei clamori
con la
veemenza degli atti.
Lo spirito
del tumulto
passava
sferzando la faccia
come la
raffica pregna
di fortore
salino.
Occhi
bianchi in teste riverse
e
dentature mordaci
brillavano
come le schiume
nascenti
del maricino.
Un che
d'aspro, un che di ferino
e di
primaverile
e di
volubile era nell'aria.
D'acuto
lucea riso ostile
l'ilarità
sanguinaria.
Con òmero
pugno e ginocchio
innanzi
spignea la carcassa
della sua
fame allegra,
più forte,
sempre più forte,
come la
ciurma che vara
la barca
giù per la sabbia
del lido e
spignendo la negra
carena dà
grido concorde.
Dalie gole
rauche un selvaggio
canto
rompea tra i palagi
senZa
echi, e le ingiurie
gli eran
compagnia di strumenti
con sibilo
di rotte corde,
gli eran
segnal di ripresa
il
precipitar dei cristalli
argentino
al colpo del sasso,
il
rimbombar dei battenti
urtati su
le chiuse porte;
e il canto
avea fatto lega
col
sepolcro, avea fatto patto
di
fèlicità con la morte.
E io vidi
allor sul crocicchio
l'edificator
di bordelli,
figliuolo
di non marzia lupa,
satollo di
vituperio,
che s'era
estrutto alto luogo
quivi a
tener sue concioni;
vidi il
gran demagogo,
nomato con
nomi di gloria
Prevaricator
sin dal ventre
e Sacco di
saggezza
escrementizia
e Frogia
mocciosa
della vacca Onta,
sedare il
clamore col gesto
per
iscagliar suo verbo
contro a
chiunque s'inalzi
e contro a
tutti gli alti monti
e contro a
tutti i colli ingenti
e contro a
ogni torre eccelsa
e contro a
ogni muro forte
e contro a
tutti i bei disegni
e contro a
tutti i buoni odori.
Ed errava
nelle parole
come
l'ubriaco di notte
va nel suo
vomito errando.
In luogo
di buoni odori
vi sarà la
sanie concreta,
e in luogo
di bella cintura
cordella
di sparto,
e
vittuaglia spartita
in luogo
di vana bellezza.
E una
ventrosa menzogna
sarà posta
in luogo di queste
vesciche
che abbiamo fendute,
per nostro
ricetto.
E tu,
sterile Plebe
che non
partorivi,
concepirai
pula
e
partorirai loppa.
E i cieli
si ripiegheranno
come non
più letto volume
su la
terra beata
di
fecondità strapossente.
O quanto
era bello
su la
bigoncia il torace
del
bertone, angelo di bene
e
messagger di salute,
che dicea:
«La Canaglia
succede
all'Uomo per sempre
e in pace
amministra le grasce!».
O quanto
era bella
intorno
all'imperatoria
pinguedine
del suo collo
stillante
incliti sudori
la porpora
della corvatta!
Egli era la
sanie coatta
in forma
di vafro macaco
nascosto
nei panni il verdiccio
pelo e le
chiappe callute.
E le
vociatrici boccute
l'adoravano.
Dal capo
alle
piante con gli avidi occhi
elle
parean tutto succiarlo
quasi ei
fosse tutto priàpo.
Ma, quando
l'umano
ingombro
riprese il cammino
verso la
muraglia equestre
irta di
lame e di lance
che laggiù
l'attendea,
(la
pioggia recente avea sparso
per le vie
l'odore terrestre,
calando il
sole accecato
tra nuvole
e cupole d'atro
piombo
gonfio ed immoto)
un che di
sacro e d'ignoto
sorse da
quell'immenso
miserabile
corpo
in balìa
del delirio
vespertino,
le cui mille
e mille
facce divampate
parean da
una fumida gloria.
E pietà mi
prese di lui
che
camminava ignaro
nell'eterna
sua debolezza
come nella
vittoria.
Uomini
fetidi e robusti,
altri
smorti e scarni
e curvi,
combusti
dal calore
dei forni
e delle
caldaie infernali,
inverditi
dai sali
del rame,
inazzurrati
dall'indaco,
arrossati
dalle
conce delle pelli,
inviscati
dai grumi
e dai
carnicci dei macelli,
corrosi
dagli acidi, morsi
dal
fosforo, fatti ciechi
dalle
polveri e dai fumi,
fatti
sordi dai fischi
del vapore
dilaceranti
o dai
tuoni iterati
dei
martelli giganti,
dai
fragori e dagli stridori
di tutto
il ferro attrito,
venian del
lavoro fornito.
Foschi di
carboni,
bianchi di
farine,
con lorde
le mani
d'argille
o d'inchiostri
di sevi o
di nitri,
con pregne
le vesti
di
tabacchi o di droghe
di
farmachi o di tòschi,
venian
delle fucine,
venian
degli opificii,
venian
delle fabbriche in opra,
dei
fondachi, delle fornaci,
di tutti i
supplicii e i servaggi,
con su i
vólti selvaggi
impresse
le impronte tenaci
della
materia bruta
cui li
asserviva il travaglio.
Ed ecco
era divenuta
la lor
pena diversa
una sola
rabbia, conversa
a
sollevare un sol maglio.
E la
volontà di morte
cessò dal
grido e dal canto:
subitamente
si fece
taciturna
e compatta
dinanzi
alla muraglia
equestre
che l'attendea.
S'udiva
tintinnire
l'acciaro
nella bocca
degli
inquieti cavalli,
ansar nei
petti inermi
s'udiva la
forza plebea.
Gli
squilli, gli urli, il galoppo,
il turbine
duro che passa,
la
vendemmia sotto l'ugne
ferrate,
le carni calpeste,
i cranii
fenduti, i cervelli
sgorganti,
l'orror consueto
della
rivolta disfatta
e rotta su
le pietre grige;
ma tra il
sangue un'ala ch'è intatta,
una fiamma
che vige l'idea.
Quale?
L'antica, l'eterna,
ch'ebbe
nei crepuscoli fulvi
dei secoli
tante ecatombi
di ribelli
invano rinati
dal
carnaio delle lor fosse.
Quella che
disse: «Vesti i lombi
degli
schiavi, o sacra Giustizia,
perché i
prigioni del prode
sien tolti
e le prede
del
possente sieno riscosse».
Nel
crepuscolo fulvo
nasceva il
delirio. La cieca
demenza
guidò la cresciuta
miriade
non più inerme
agli
abbattimenti e agli incendii,
sott'esso
il chiarore sublime
che ferìa
le pile dei ponti,
gli archi
di trionfo, le fronti
dei templi
su le colonne
superstiti,
gli anfiteatri
titanii,
l'erculee terme.
Le fauci
belluine
della
Folla s'erano aperte
dismisuratamente
per
divorar la possa
della
Città trionfale,
della
tirannica madre
con tutte
le sue opulenze
ed
abominazioni.
Come il
fiume contra i piloni
di granito,
fra la distretta
degli
argini, sotto la bassa
nuvola
melmoso, la massa
carnale
rigurgitava
schiumava
in capo d'ogni strada,
e alla
libidine atroce
ogni
strada era suburra.
Valanghe
d'ombra azzurra
si
precipitavan dal cielo,
ché
l'ombra parea più veloce
nel
vespero violento.
Le torce
ruggirono al vento.
E da
presso e da lungi
io udiva
il clamore,
io udiva
gli ululi e i lagni
orribili
della gran doglia
nella
Città millenaria.
E il
clamore era come
di femmina
partoriente
che si
torca in spasimo grande
e morda la
verde sua bava
e dia del
capo e dei pugni
nelle mura
e invochi soccorso
alla
doglia sua, vanamente,
negli
orrori suoi solitaria.
E dissi:
«Ah quanto ti torci,
misera, e
quanta fai bava
di
vituperii e d'ire
nelle tue
mascelle di ferro!
Ma dato
non t'è partorire
se non
l'aborto cionco e monco,
l'acèfalo
mostro che ha il tronco
di ciuco e
la coda di verro.
Ah chi
almeno un giorno
saprà
sollevar la tua fronte
chiomata
di crin leonino
verso la
bellezza
d'una vita
semplice e grande?
Chi ti
trarrà dalle lande
della
morte verso il bel monte
delle
sorgenti ove il destino
delle
stirpi s'immerge
e si
rinnovella? Un eroe
forse ti
verrà che ferrare
saprà de'
suoi duri pensieri
la
rapidità de' tuoi atti,
come
s'inchiodano i ferri
all'ugne
degli acri corsieri,
di là
dagli antichi riscatti».
Afflitto
io non dissi a me stesso:
«I giorni
saran prolungati
e ogni
visione è perita».
Ma sì
bene: «I giorni e la fiamma
d'ogni
libertà son da presso».
E dal
giorno di poi
l'ora
santa d'Eleusi
fu pallida
nella memoria
dinanzi
all'ora del pane.
La spica
mietuta in silenzio
nella
mistica ombra mi parve
men pura
che il pane addentato
dall'avidità
della fame.
O mattino
di primavera
su la via
lavata dall'acqua
del cielo!
Garrire e brillare
di rondini
nell'umidore
argentino!
Odor dell'eterno
frumento,
dell'aurea crosta
rotonda, della
mollica
soffice
occhiuta e leggera!
Selvaggio
sguardo materno
verso il
divino alimento!
Strida del
pargolo fioche
per
l'aderir della lingua
al palato
nell'alidore!
Le turbe
assalivano i forni
con
l'avidità della fame.
Abbattevan
le porte,
abbrancavano
il pane
ancor
caldo gonfio cricchiante.
Traevan
sul lastrico i sacchi
della
bianca farina,
del biondo
cruschello; e le donne
se
n'empievano il grembo
prendendone
col cavo
delle
palme fatto capace
dalla
bramosia come staio.
E
subitamente un gaio
fervore
invase le turbe.
E gli
uomini forti, i fanciulli,
le madri,
le vergini, i vecchi,
tutti
ridean con umidi occhi;
e tutti i
denti parean puri
nelle
bocche affamate
che
masticavano il dono
della
Terra nato nei solchi.
E un sapor
religioso
era certo
in quel pane
che tal
sacra ebrezza recava,
come nel
primissimo pane
che
intriso fu, cotto e mangiato
dal colono
poi che Demetra
di cerulo
peplo gli diede
l'ammaestramento
immortale.
E io
dissi: «L'uomo è l'eguale
dell'uomo
dinanzi alla spica
mietuta in
silenzio o con canti.
E questa è
la sola eguaglianza,
questo il
gran diritto terrestre
che
inscritto sta nella zolla».
E parvemi,
sopra la folla
sazia di
pane recente
carica di
pura farina,
intraveder
la divina
benignità
sorridente
della Dea
che è cittadina
per la sua
corona murale.
E un'altra
ora fu larga
alla mia
speranza; e fu l'ora
notturna
della mia Musa
quando
apparve in veste sanguigna
alla
moltitudine chiusa
nell'anfiteatro
profondo
che fremea
di fremito immane.
Quivi
rotto fu l'altro pane:
fu dato
all'unanime cuore
il bene
che supera tutti,
il cibo
più dolce dei frutti
nati di
radice terrena,
il rapido
oblìo della pena
assidua e
del duro bisogno,
il nepente
del sogno
che svela
nel lume d'un astro
novello il
prodigio del mondo:
quando il
buono Eroe biondo,
che tenne
la spada e il timone
l'ascia la
marra e il vincastro,
rivisse
nell'alta canzone.
Anima mia,
tu provasti
l'avversità
d'ogni vento
e d'ogni
vento la gioia,
tutte le
figure segrete
conoscesti
tu dell'abisso
marino da
poppa e da prora.
Ma quale
dei soffii più vasti
ti sollevò
come quello
spirante
dal vólto in te fisso?
e quale
figura d'abisso
ti parve
misteriosa
come
quella che ti guatava
e parea
farsi cava
alla voce
tua ripercossa?
Entrar
sentimmo una possa
ignota in
noi, crescere un'ala
terribile
al nostro ardimento,
un'ansia
d'interno titano
sforzare
l'angustia nostra,
distruggere
l'impedimento
della
corporea chiostra.
E la
materia sacra
della
stirpe, l'imperitura
sostanza
progenitrice
dei sangui,
l'originaria
virtù
della gente era innanzi
a noi
affocata
come il
masso del ferro
che posto
sarà su l'incude.
E noi con
le man nude
l'afferrammo
delirando
come chi è
pieno del dio
e travede
nel fuoco informe
l'imagine
che trarre
ei deve
alla vista di tutti.
L'afferrammo
e, instrutti
dal dio,
la foggiammo rovente,
e traemmo
il gran simulacro
dell'Eroe
disparito.
E tu
vedesti dal sacro
tuo fuoco,
o italica gente,
nascere il
novello tuo mito.
Bellezza
dei miti novelli
non anche
nata! Divine
trasfigurazioni
delle
forze operanti
nella
profondità segreta
della
stirpe dominatrice!
Fiammei
fiori della radice
innumerevole
che abbraccia
la sua
terra con fibre
inespugnabili!
Supreme
testimonianze
d'un sangue
animoso!
Gli olivi
che
fioriscono a specchio
del
Mediterraneo Mare
ancor
vedranno fumare
i roghi
accesi ai numi
indìgeti e
udranno il peana,
quando
restituita
su l'acque
sarà la più grande
cosa che
mai videro gli occhi
del Sole:
la Pace Romana.