Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
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LIBRO PRIMO - MAIA

1 - Laus vitae

XIX.

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XIX.

 

Certo, una inattesa bellezza

balenar talora mi parve

nella chimerosa figura

del popolo unanime intenta;

e l'ingluvie sua flatulenta

e il vociar suo forsennato

e l'enormità del suo dosso,

la caudale giuntura

delle sue mille e mille

vertebre che traversa, come

fólgore, l'insano sussulto;

e il Pànico, l'occulto

suo dio che gli schiaccia la coglia;

e la sua furia e la sua doglia

e la sua miseria infinita,

tra le inesorabili mura,

mi diedero fremiti avversi.

E talor discopersi

in alcun vólto infoscato

dalla filiggine o adusto

l'armonia del bronzo vetusto.

 

Ma, dopo, il Deserto di sabbia

inospite fu la mia gioia

sublime, fu il mio rapimento.

E tedio mi prese del verde

albero, e il solco del novo

grano mi fu a noia

per la memoria dell'uomo;

e ogni vestigio di piede

umano mi parve lordura.

E l'immensa aridità pura

del Deserto senza vie

e senza òasi, il suo fiore

ineffabile che illude

la sete nudrito di brace,

le sue mammelle nude

e sterili che fanno

di bassura in bassura

ombre d'inganno, il muto

tremar del suo vento focace

quasi battito di febbre,

furono il mio rapimento.

 

E la luce m'entrò pei pori

della pelle, m'impregnò d'oro

le vene le ossa e le midolle,

mi fece il cuore lucente

come il quarzo e lo schisto.

E ogni umor tristo

fu inaridito, riarsa

ogni sovrabbondanza molle,

ogni pesantezza alleggiata,

ogni ingombro distrutto.

E nel mio corpo asciutto

la felicità del mio spirto

fu più agile che fiamma

appresa ad arbusto di mirto.

E tutti i miei pensieri

furon come corde di cetra

aridi; e le volontà belle

sonarono in me constrette

come le aguzze asticelle

dei dardi a quattro alette

suonano nella faretra.

 

E la mia coscia nervosa

aderì così forte

al fianco del mio caval sauro

ch'io divenni il mostro biforme,

lo snello centauro

d'ugne senza ferro,

di levità senza orme.

E ne' miei occhi umani

sentii la bellezza dei grandi

ardenti umidi occhi inumani

del corsiere d'Arabia

che parea sangue di pardo.

Ed ebbi così nel mio sguardo

l'inconsapevolezza

della purità bestiale,

in me ebbi tutto il Deserto.

E, scendendo in corsa le dune

verso la bassura fallace

d'aereo incantamento,

correre credetti alla Nube

materna vestito di vento.

 

Delirio dei profeti

saziàti di locuste

e beveràti con l'acqua

lotosa dell'otre sozzo,

visione di dolore

e d'orrore innanzi alla Morte,

il mio delirio fu più forte,

la mia visione più bella.

Dov'era il dio di procella

che seccò il mare, le acque

del grande abisso? che ridusse

le profondità del mare

in un cammino di fuoco

per i dromedarii di Efa

e per i cammelli di Seba

carichi del suo incenso?

Quivi, nel fuoco immenso,

non era alcun che gridasse

per la giustizia né alcuno

che per la verità facesse

lite e contesa e digiuno.

 

Fin l'ossa dei dromedarii

su la sabbia eran più monde

di tal giustizia e più pure

di tal verità, sotto il Sole.

E non v'eran parole

se non quelle del vento

incorruttibile, che è il Messo

della Libertà per i prodi

e per i solitarii, quivi.

E il vento dicea: «Tu che vivi,

guarda il mio palpito incessante

d'amore su i corpi che foggio!

Il Mar glauco, il Deserto roggio

io li travaglio d'amore

indefesso e li trasfiguro

in bellezza infinita

che una pare e sempre disvaria.

O Vita! Non odi nell'aria

clangor delle mie mille trombe?

Or ora laggiù seppellita

ho la Sfinge presso le tombe».

 

Seppellita ho anch'io la mia Sfinge

co' suoi enigmi nodosi,

e seppelliti anco gli avelli

con la lor putredine inclusa.

Risa di fanciulli, effusa

gioia puerile, croscianti

risa d'innocenza selvaggia

furono l'inno funerale

alla covatrice di tombe,

risa volubili come

avvolgimenti d'aura, roche

di troppa allegrezza talora

come i canti delle colombe,

come i murmuri dei ruscelli.

Volontà, Vittoria senz'ale

in me ferma sempre! Nudrita

di rai, Voluttà, calda e ascosa

come sotto il pampino l'uva!

Orgoglio, uccisor dispietato!

Istinto, fratello del Fato,

dio certo nel tempio carnale!

 

Volontà, Voluttà,

Orgoglio, Istinto, quadriga

imperiale mi foste,

quattro falerati corsieri,

prima di trasfigurarvi

in deità operose

come le Stagioni, che fanno

le danze lor circolari

e compagne son delle Grazie

e delle Parche in ricondurre

Prosèrpina ai giorni sereni:

quadriga che con freni

difficili resse l'auriga,

con rèdini tese nei pugni

ove serpeggiava la fiamma

del sangue sagliente pei fermi

cùbiti ai bicìpiti duri:

quadriga negli Atti più puri

coniata come l'antica

nel rovescio del tetradramma,

segno di potenza ai futuri.

 

Con quanto ardimento

trapassammo i termini d'ogni

saggezza e corremmo su l'orlo

dei precipizii, lungh'essi

gli alti argini delle fiumane

vorticose, in vista

del duplice abisso

pel crinale aguzzo dei monti

ove la vertigine afferra

subitamente colui

che crede al pericolo, e senza

scampo lo sbatte sul sasso,

gli spezza la nuca e la schiena!

O ebrietà d'ogni vena,

occhio gelido e chiaro

nella faccia ardente!

A levante, a ponente,

per ovunque guardai

quell'adamàntina cima

del rischio, e sempre mi chiesi:

«Ove debbo ancóra salire?».

 

Ma il meridiano delirio

nel Deserto l'oblìo

d'ogni cima più perigliosa

mi diede e d'ogni demenza

più lucida e d'ogni divieto

abbattuto. E l'alta quadriga

e lo sforzo dei freni

e la chiara audacia e la lunga

esperienza dei mali

e la gioia immite del rischio,

tutta l'opra d'odio e d'amore

dietro di me sparve, fu come

sabbia ventosa, fu nulla.

E l'anima mia dalla culla

dell'eternità parve alzata

in quell'ora, con l'innocenza

dell'elemento, nova

e pur compiuta da un'arte

più fiera che qualsìa nostr'arte.

E corsero a lei d'ogni parte

moltitudini di bellezze.

 

Ed ella taceva, profonda

del suo più profondo silenzio.

Ma parole erano dette

in lei, alla gran luce

del mezzodì, chiare parole

che non pur nel già fatto

vespero furon mormorate

mai dal timor delle labbra

né mai nel mistero notturno.

E il suo coraggio taciturno

le suggeva cupidamente

come il fanciullo vorace

che sugge gli acini gonfii

di miel solare e inghiotte

la pelle che il sol fece d'oro

e trita i fiòcini e il raspo,

ché tutto gli piace.

E quel ch'è angoscia spavento

miseria tra gli uomini, quello

le si trasmutò pel Deserto

in felicità senza nome.

 

Felicità, non ti cercai;

ché soltanto cercai me stesso,

me stesso e la terra lontana.

Ma nell'ora meridiana

tu venisti a me d'improvviso,

coi piedi scalzi e col viso

velato d'un velo tessuto

di quei fili che talora

brillano impalpabili all'aere

opere d'aeree fusa.

Ed ecco tu torni! E la Musa

t'ode mentre tu t'avvicini,

se bene i tuoi piedi

sien più delicati

del guaime che nasce

nei prati dopo la falce,

più tenui delle prime

foglie che spuntan nel salce,

e più lievi sieno i tuoi passi

che scorrer di talpa sotterra

o di lucertola in sassi.

 

Tu torni e tu tornerai,

come l'aura intermessa

che manca perché va più lungi,

forse sopra un letto di musco,

forse in una tremula stanza

di capelvenere, forse

dietro una cortina rosata

di madreselva, a vestirsi

di freschezza novella

da recare a colui che l'ama.

Il mio cor non ti chiama

né ti attende. Tu repentina

entri e mi guardi con occhi

negri d'un negrore velluto

come quel degli occhi onde occhiuto

è il fior della fava nel mese

di marzo tra pioggia e chiarìa.

E tu m'assempri l'iddia

parrasia, Carmenta dai lunghi

riccioli, che portava

ghirlande di foglie di fava.

 

Tu sei visibile, tu hai

la specie divina e selvaggia,

il primo odore del campo

di marzo, i denti di brina.

Ti guardo; e la prima peluria

della mandorla nova

è men dolce della tua guancia.

Ti guardo; e le tue dita chiuse

son come lo spicanardo

che chiuso è in mazzi pei forzieri

colmi di nivei lenzuoli;

e i petali dei giaggiuoli

nel piegarsi non han la grazia

de' tuoi capelli che piega

su le tue tempie il favonio;

e come il nido alcionio

che palpita a fiore del sale

col palpito lento e infinito

di tutto il mare placato,

e il tuo sen verginale

mosso dal profondo tuo fiato.

 

Di cose fugaci e segrete

sei fatta, di silenzii

e di murmuri, lieve

come i frutti piumosi

della viorna, come

le lane del cardo argentino,

o Felicità del cor prode.

Ed ecco tu torni a me! T'ode

la Musa; e il suo vólto divino

nel volgersi ti rassomiglia,

se non che tra le ciglia

sembra ell'abbia il fiore del lino

ma in vero è il colore marino

che rimasto è per sempre

nel suo sguardo amico dei flutti.

Che ci porti? Quali bei frutti

di paradiso insulare

per invogliarci a largare

novamente le vele

umide ancor di tempesta?

Che ascondi nella tua vesta?

 

Noi abbiamo un canto novello

perché tu l'oda, questo grande

Inno che edificar ci piacque

a simiglianza d'un tempio

quadrato cui demmo per ogni

lato cento argute colonne

tutto aperto ai vènti salmastri.

Ai raggi del sole e degli astri

notturni l'artefice insonne

operò con puro fervore,

quasi fosse questa l'estrema

opera di sé morituro,

il monumento al suo spirto

liberato e liberatore.

Ei le materie sonore

con ìmpari numero, oscuro

e inimitabile, vinse.

Le sette Pleiadi ardenti

e le tre Càriti leni,

le stelle dell'Orsa e le Parche,

in rapido giro costrinse.

 

Tre volte sette: la strofe

qual triplicata sampogna

di canne ineguali risuona

con l'arte di Pan meriggiante.

Io tagliai le canne lungh'essi

i fiumi, sovr'esse le fonti

frigide, nel loto febbroso

delle paludi, sul ciglio

dei botri, nelle ruine

delle città venerande.

Per giugnerle insieme, la cera

separai dal nettare flavo

con la mia bocca ingorda

ma non sì che non rimanesse

nella masticata sostanza

l'odor del cefisio narcisso.

Trassi il refe da una sagena

logora per lungo esplorare

i fondi pescosi, ancor lorda

di scaglie, pregna di salso,

esperta del tacito abisso.

 

Il Dèmone dai mille nomi,

il vagabondo Orgiaste,

il Dio circolare, il Maestro

delle visioni, l'Amico

dei suoni, Colui che conduce

la melodìa del Tutto,

m'insegnò quest'arte nascosta.

Ebbi acuto l'orecchio

al rombo del ponto remoto,

allo sciame lene strepente,

al vado pulsare del sangue,

ai movimenti segreti

dell'anima vigile, a ogni

dimanda, a ogni risposta.

Il suono si fece acque foglie

glebe rupi nuvole marmi,

scroscio di doglienza, sorriso

di pace, grido di brama,

combattimento ordinato,

danza revoluta, solenne

coro, sicìnnide incomposta.

 

Ah, che mai sanno gli schiavi

faticosi intenti a mestare

con lor mestole ed assi

ne' vecchi truoghi di pietra

consunta lor polte ed imbratti,

come i ciechi servi di Scizia

posti in buon ordine ai vasi

della mungitura, or che sanno

eglino della potenza

e dello splendore dei suoni?

O parole, mitica forza

della stirpe fertile in opre

e acerrima in armi, per entro

alle fortune degli evi

fermata in sillabe eterne;

parole, corrotte da labbra

pestilenti d'ulceri tetre,

ammollite dalla balbuzie

senile, o italici segni,

rivendicarvi io seppi

nella vostra vergine gloria!

 

Io vi trassi con mano

casta e robusta dal gorgo

della prima origine, fresche

come le corolle del mare

contràttili che il novo lume

indicibilmente colora.

Io vi disposi nei modi

dell'arte così che la vita

vostra rivelò le segrete

radici, le innùmere fibre

che legano tutta la stirpe

alla Natura sonora.

Io feci apparire tra l'una

e l'altra sillaba i mille

vólti del Passato tremendi

come sembianze di morti

che un'anima sùbita inondi.

Io dal vostro cozzo faville

sprigionai, baleni d'amore

che illuminarono l'ombra

del Futuro pregna di mondi.

 

Splendete e sonate, o parole,

in questo Inno che è il vasto

preludio del mio novo canto.

Converse io v'ho novamente

in sostanza umana, in viva

polpa, in carne della mia carne,

in vene di sangue e di pianto.

Splendete come l'aurora

su l'alpe nutrice di fiumi,

onde scese al suo messaggero

Euretria la Decima Musa.

Risonate come le trombe

del vento che avea seppellito

laggiù nelle sabbie di fuoco

l'ancìpite Sfinge camusa.

Ma, prima che l'ora sia chiusa,

io voglio al Maestro sublime

alzare il saluto figliale;

poi, colcato sopra la terra

munifica, gli ultimi vóti

volgere alla Madre immortale.

 

 


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