XIX.
Certo, una
inattesa bellezza
balenar
talora mi parve
nella
chimerosa figura
del popolo
unanime intenta;
e
l'ingluvie sua flatulenta
e il
vociar suo forsennato
e
l'enormità del suo dosso,
la caudale
giuntura
delle sue
mille e mille
vertebre
che traversa, come
fólgore,
l'insano sussulto;
e il
Pànico, l'occulto
suo dio
che gli schiaccia la coglia;
e la sua
furia e la sua doglia
e la sua
miseria infinita,
tra le
inesorabili mura,
mi diedero
fremiti avversi.
E talor
discopersi
in alcun
vólto infoscato
dalla
filiggine o adusto
l'armonia
del bronzo vetusto.
Ma, dopo,
il Deserto di sabbia
inospite
fu la mia gioia
sublime,
fu il mio rapimento.
E tedio mi
prese del verde
albero, e
il solco del novo
grano mi
fu a noia
per la
memoria dell'uomo;
e ogni
vestigio di piede
umano mi
parve lordura.
E
l'immensa aridità pura
del Deserto
senza vie
e senza
òasi, il suo fiore
ineffabile
che illude
la sete
nudrito di brace,
le sue
mammelle nude
e sterili
che fanno
di bassura
in bassura
ombre
d'inganno, il muto
tremar del
suo vento focace
quasi
battito di febbre,
furono il
mio rapimento.
E la luce
m'entrò pei pori
della
pelle, m'impregnò d'oro
le vene le
ossa e le midolle,
mi fece il
cuore lucente
come il
quarzo e lo schisto.
E ogni
umor tristo
fu
inaridito, riarsa
ogni
sovrabbondanza molle,
ogni
pesantezza alleggiata,
ogni
ingombro distrutto.
E nel mio
corpo asciutto
la
felicità del mio spirto
fu più
agile che fiamma
appresa ad
arbusto di mirto.
E tutti i
miei pensieri
furon come
corde di cetra
aridi; e
le volontà belle
sonarono
in me constrette
come le
aguzze asticelle
dei dardi
a quattro alette
suonano
nella faretra.
E la mia
coscia nervosa
aderì così
forte
al fianco
del mio caval sauro
ch'io
divenni il mostro biforme,
lo snello
centauro
d'ugne
senza ferro,
di levità
senza orme.
E ne' miei
occhi umani
sentii la
bellezza dei grandi
ardenti
umidi occhi inumani
del
corsiere d'Arabia
che parea
sangue di pardo.
Ed ebbi
così nel mio sguardo
l'inconsapevolezza
della
purità bestiale,
in me ebbi
tutto il Deserto.
E,
scendendo in corsa le dune
verso la
bassura fallace
d'aereo
incantamento,
correre
credetti alla Nube
materna
vestito di vento.
Delirio
dei profeti
saziàti di
locuste
e beveràti
con l'acqua
lotosa
dell'otre sozzo,
visione di
dolore
e d'orrore
innanzi alla Morte,
il mio
delirio fu più forte,
la mia
visione più bella.
Dov'era il
dio di procella
che seccò
il mare, le acque
del grande
abisso? che ridusse
le
profondità del mare
in un
cammino di fuoco
per i
dromedarii di Efa
e per i
cammelli di Seba
carichi
del suo incenso?
Quivi, nel
fuoco immenso,
non era
alcun che gridasse
per la
giustizia né alcuno
che per la
verità facesse
lite e
contesa e digiuno.
Fin l'ossa
dei dromedarii
su la
sabbia eran più monde
di tal
giustizia e più pure
di tal
verità, sotto il Sole.
E non
v'eran parole
se non
quelle del vento
incorruttibile,
che è il Messo
della
Libertà per i prodi
e per i
solitarii, quivi.
E il vento
dicea: «Tu che vivi,
guarda il
mio palpito incessante
d'amore su
i corpi che foggio!
Il Mar
glauco, il Deserto roggio
io li
travaglio d'amore
indefesso
e li trasfiguro
in
bellezza infinita
che una
pare e sempre disvaria.
O Vita!
Non odi nell'aria
clangor
delle mie mille trombe?
Or ora
laggiù seppellita
ho la
Sfinge presso le tombe».
Seppellita
ho anch'io la mia Sfinge
co' suoi
enigmi nodosi,
e
seppelliti anco gli avelli
con la lor
putredine inclusa.
Risa di
fanciulli, effusa
gioia
puerile, croscianti
risa
d'innocenza selvaggia
furono
l'inno funerale
alla
covatrice di tombe,
risa
volubili come
avvolgimenti
d'aura, roche
di troppa
allegrezza talora
come i
canti delle colombe,
come i murmuri
dei ruscelli.
Volontà,
Vittoria senz'ale
in me
ferma sempre! Nudrita
di rai,
Voluttà, calda e ascosa
come sotto
il pampino l'uva!
Orgoglio,
uccisor dispietato!
Istinto,
fratello del Fato,
dio certo
nel tempio carnale!
Volontà,
Voluttà,
Orgoglio,
Istinto, quadriga
imperiale
mi foste,
quattro
falerati corsieri,
prima di
trasfigurarvi
in deità
operose
come le
Stagioni, che fanno
le danze
lor circolari
e compagne
son delle Grazie
e delle
Parche in ricondurre
Prosèrpina
ai giorni sereni:
quadriga
che con freni
difficili
resse l'auriga,
con rèdini
tese nei pugni
ove
serpeggiava la fiamma
del sangue
sagliente pei fermi
cùbiti ai
bicìpiti duri:
quadriga
negli Atti più puri
coniata
come l'antica
nel
rovescio del tetradramma,
segno di
potenza ai futuri.
Con quanto
ardimento
trapassammo
i termini d'ogni
saggezza e
corremmo su l'orlo
dei
precipizii, lungh'essi
gli alti
argini delle fiumane
vorticose,
in vista
del
duplice abisso
pel
crinale aguzzo dei monti
ove la
vertigine afferra
subitamente
colui
che crede
al pericolo, e senza
scampo lo
sbatte sul sasso,
gli spezza
la nuca e la schiena!
O ebrietà
d'ogni vena,
occhio
gelido e chiaro
nella
faccia ardente!
A levante,
a ponente,
per
ovunque guardai
quell'adamàntina
cima
del
rischio, e sempre mi chiesi:
«Ove debbo
ancóra salire?».
Ma il
meridiano delirio
nel Deserto
l'oblìo
d'ogni
cima più perigliosa
mi diede e
d'ogni demenza
più lucida
e d'ogni divieto
abbattuto.
E l'alta quadriga
e lo
sforzo dei freni
e la chiara
audacia e la lunga
esperienza
dei mali
e la gioia
immite del rischio,
tutta
l'opra d'odio e d'amore
dietro di
me sparve, fu come
sabbia
ventosa, fu nulla.
E l'anima mia
dalla culla
dell'eternità
parve alzata
in
quell'ora, con l'innocenza
dell'elemento,
nova
e pur
compiuta da un'arte
più fiera
che qualsìa nostr'arte.
E corsero
a lei d'ogni parte
moltitudini
di bellezze.
Ed ella
taceva, profonda
del suo
più profondo silenzio.
Ma parole
erano dette
in lei,
alla gran luce
del
mezzodì, chiare parole
che non
pur nel già fatto
vespero
furon mormorate
mai dal
timor delle labbra
né mai nel
mistero notturno.
E il suo
coraggio taciturno
le suggeva
cupidamente
come il fanciullo
vorace
che sugge
gli acini gonfii
di miel
solare e inghiotte
la pelle
che il sol fece d'oro
e trita i
fiòcini e il raspo,
ché tutto
gli piace.
E quel
ch'è angoscia spavento
miseria
tra gli uomini, quello
le si
trasmutò pel Deserto
in
felicità senza nome.
Felicità,
non ti cercai;
ché
soltanto cercai me stesso,
me stesso
e la terra lontana.
Ma
nell'ora meridiana
tu venisti
a me d'improvviso,
coi piedi
scalzi e col viso
velato
d'un velo tessuto
di quei
fili che talora
brillano
impalpabili all'aere
opere
d'aeree fusa.
Ed ecco tu
torni! E la Musa
t'ode
mentre tu t'avvicini,
se bene i
tuoi piedi
sien più
delicati
del guaime
che nasce
nei prati
dopo la falce,
più tenui
delle prime
foglie che
spuntan nel salce,
e più
lievi sieno i tuoi passi
che
scorrer di talpa sotterra
o di
lucertola in sassi.
Tu torni e
tu tornerai,
come
l'aura intermessa
che manca
perché va più lungi,
forse
sopra un letto di musco,
forse in
una tremula stanza
di
capelvenere, forse
dietro una
cortina rosata
di
madreselva, a vestirsi
di
freschezza novella
da recare
a colui che l'ama.
Il mio cor
non ti chiama
né ti
attende. Tu repentina
entri e mi
guardi con occhi
negri d'un
negrore velluto
come quel
degli occhi onde occhiuto
è il fior
della fava nel mese
di marzo
tra pioggia e chiarìa.
E tu
m'assempri l'iddia
parrasia,
Carmenta dai lunghi
riccioli,
che portava
ghirlande
di foglie di fava.
Tu sei
visibile, tu hai
la specie
divina e selvaggia,
il primo
odore del campo
di marzo,
i denti di brina.
Ti guardo;
e la prima peluria
della
mandorla nova
è men
dolce della tua guancia.
Ti guardo;
e le tue dita chiuse
son come
lo spicanardo
che chiuso
è in mazzi pei forzieri
colmi di
nivei lenzuoli;
e i petali
dei giaggiuoli
nel
piegarsi non han la grazia
de' tuoi
capelli che piega
su le tue
tempie il favonio;
e come il
nido alcionio
che
palpita a fiore del sale
col
palpito lento e infinito
di tutto
il mare placato,
e il tuo
sen verginale
mosso dal
profondo tuo fiato.
Di cose
fugaci e segrete
sei fatta,
di silenzii
e di
murmuri, lieve
come i
frutti piumosi
della
viorna, come
le lane
del cardo argentino,
o Felicità
del cor prode.
Ed ecco tu
torni a me! T'ode
la Musa; e
il suo vólto divino
nel
volgersi ti rassomiglia,
se non che
tra le ciglia
sembra
ell'abbia il fiore del lino
ma in vero
è il colore marino
che
rimasto è per sempre
nel suo sguardo
amico dei flutti.
Che ci
porti? Quali bei frutti
di
paradiso insulare
per
invogliarci a largare
novamente
le vele
umide
ancor di tempesta?
Che
ascondi nella tua vesta?
Noi
abbiamo un canto novello
perché tu
l'oda, questo grande
Inno che
edificar ci piacque
a
simiglianza d'un tempio
quadrato
cui demmo per ogni
lato cento
argute colonne
tutto
aperto ai vènti salmastri.
Ai raggi
del sole e degli astri
notturni
l'artefice insonne
operò con
puro fervore,
quasi
fosse questa l'estrema
opera di
sé morituro,
il
monumento al suo spirto
liberato e
liberatore.
Ei le
materie sonore
con ìmpari
numero, oscuro
e
inimitabile, vinse.
Le sette
Pleiadi ardenti
e le tre Càriti
leni,
le stelle
dell'Orsa e le Parche,
in rapido
giro costrinse.
Tre volte
sette: la strofe
qual
triplicata sampogna
di canne
ineguali risuona
con l'arte
di Pan meriggiante.
Io tagliai
le canne lungh'essi
i fiumi,
sovr'esse le fonti
frigide,
nel loto febbroso
delle
paludi, sul ciglio
dei botri,
nelle ruine
delle
città venerande.
Per
giugnerle insieme, la cera
separai
dal nettare flavo
con la mia
bocca ingorda
ma non sì
che non rimanesse
nella
masticata sostanza
l'odor del
cefisio narcisso.
Trassi il
refe da una sagena
logora per
lungo esplorare
i fondi
pescosi, ancor lorda
di
scaglie, pregna di salso,
esperta
del tacito abisso.
Il Dèmone
dai mille nomi,
il
vagabondo Orgiaste,
il Dio
circolare, il Maestro
delle
visioni, l'Amico
dei suoni,
Colui che conduce
la melodìa
del Tutto,
m'insegnò
quest'arte nascosta.
Ebbi acuto
l'orecchio
al rombo
del ponto remoto,
allo
sciame lene strepente,
al vado
pulsare del sangue,
ai
movimenti segreti
dell'anima
vigile, a ogni
dimanda, a
ogni risposta.
Il suono
si fece acque foglie
glebe rupi
nuvole marmi,
scroscio
di doglienza, sorriso
di pace,
grido di brama,
combattimento
ordinato,
danza
revoluta, solenne
coro,
sicìnnide incomposta.
Ah, che
mai sanno gli schiavi
faticosi
intenti a mestare
con lor
mestole ed assi
ne' vecchi
truoghi di pietra
consunta
lor polte ed imbratti,
come i
ciechi servi di Scizia
posti in
buon ordine ai vasi
della
mungitura, or che sanno
eglino
della potenza
e dello
splendore dei suoni?
O parole,
mitica forza
della
stirpe fertile in opre
e acerrima
in armi, per entro
alle
fortune degli evi
fermata in
sillabe eterne;
parole,
corrotte da labbra
pestilenti
d'ulceri tetre,
ammollite
dalla balbuzie
senile, o
italici segni,
rivendicarvi
io seppi
nella
vostra vergine gloria!
Io vi
trassi con mano
casta e
robusta dal gorgo
della
prima origine, fresche
come le
corolle del mare
contràttili
che il novo lume
indicibilmente
colora.
Io vi
disposi nei modi
dell'arte
così che la vita
vostra
rivelò le segrete
radici, le
innùmere fibre
che legano
tutta la stirpe
alla
Natura sonora.
Io feci
apparire tra l'una
e l'altra
sillaba i mille
vólti del
Passato tremendi
come sembianze
di morti
che
un'anima sùbita inondi.
Io dal
vostro cozzo faville
sprigionai,
baleni d'amore
che
illuminarono l'ombra
del Futuro
pregna di mondi.
Splendete
e sonate, o parole,
in questo
Inno che è il vasto
preludio
del mio novo canto.
Converse
io v'ho novamente
in
sostanza umana, in viva
polpa, in
carne della mia carne,
in vene di
sangue e di pianto.
Splendete
come l'aurora
su l'alpe
nutrice di fiumi,
onde scese
al suo messaggero
Euretria
la Decima Musa.
Risonate
come le trombe
del vento
che avea seppellito
laggiù
nelle sabbie di fuoco
l'ancìpite
Sfinge camusa.
Ma, prima
che l'ora sia chiusa,
io voglio
al Maestro sublime
alzare il
saluto figliale;
poi,
colcato sopra la terra
munifica,
gli ultimi vóti
volgere
alla Madre immortale.