Enotrio,
in memoria dell'ora
santa che
versò d'improvviso
il fuoco
pugnace de' tuoi
spirti su
la mia puerizia
imbelle,
alle tue prime cune
io
peregrinai santamente.
E
purificai le mie mani
nelle
acque alpestri che, irose
contra
macigni superbi
più che
marmi di simulacri,
schiumeggiano
presso la casa
umile dove
nascesti,
sorelle
della corrente
Strophia
dinanzi la porta
del re
d'inni Pindaro in Tebe.
Duro è il
Teumesso, e il suo sprone
è come
ginocchio proteso
d'oplìte
in resistere all'urto.
Ma il tuo
Monte Gàbberi è duro
più del
Teumesso, o mio padre;
è come un
elmetto d'eroe.
Ha forma
d'aulòpide, cara
a Pallade
e a Pericle, il monte,
con la
visiera e il nasale.
E l'aspra
virtude apuana
sembra
guatar per i fóri
le navi
sul mar di Liguria
e noverare
le forze
dell'arsenà
che travaglia
il patrio
ferro dell'Elba
dietro il
promontorio lunense.
Certo
nell'infanzia selvaggia
ei
t'apprese il crudo cipiglio
onde tu
guatasti i Bonturi
e i Fucci
e i ladruncoli immondi
e l'altra
genìa per le terre
che il
vicin tuo grande esulato
stampò di
suoi fiammei vestigi.
Ma l'alpe
di Mommio ha una vesta
di glauco
pallore, e la Culla
sta con
Montéggioli bianca
sopra un
dolce golfo d'ulivi.
Sicché nel
cor mi sovvenne
della
sacra Fòcide, e il Plisto
nel
lapidoso Motrone
riveder mi
parve, e spirare
sentii per
le alture e le valli
il soffio
dell'Ellade, il nume
di Pan nei
vocali canneti
presente,
che ancóra conduce
pe' tempi il
Ritorno eternale.
Sostai
nella selva palladia
attonito,
e il ciel tra le frondi
era come
il vergine sguardo
dell'occhicèrula
Atena.
E quivi
sedetti su l'erba
a
meditare, o Maestro,
il fato
del tuo nascimento.
E tu eri
meco placato
nella tua
divina vecchiezza;
e la
santità degli ulivi
ti
coronava d'immensa
corona la
fronte sublime:
E io
dissi: «Padre, il tuo grande
aspetto è
come la terra
natale,
tra l'Alpe di Luni
ove il
Buonarroto ancor rugge
e il
Tirreno Mar navigato
dalle prue
dei Mille in eterno.
Prometèa
materia è quest'alpe,
insonne
altitudine alata,
carne
delle statue chiare,
forza
delle colonne, gloria
dei
templi, inno senza favella,
sculta
rupe che s'infutura.
L'aquila
batte le penne
sul
vertice aguzzo, il torrente
precipita
al piè con fragore.
Da tutte
le vene profonde
una
volontà di bellezza
eroica
s'agita e soffre
per
sorgere in luce di forme.
O padre,
qui son le tue cune
che
Michelangelo seppe.
Degna è
quest'alpe che gli occhi
tuoi di
fanciul torvo guardata
l'abbiano
quando la dolce
tua madre
era ignara del tanto
peso
ch'ella avea sostenuto
e non
ascoltava il torrente
sonoro
annunciar le tue sorti,
onde
l'umil casa ancor trema.
Degna è
che tu la contempli
nella tua
sera solenne,
o eroe che
tanto pugnasti
e tanta
sementa spargesti
nei campi
di guerra fenduti
dall'unco
tuo vomere fatto
con
l'acciaio delle me scuri.
Se un luogo
v'è dove tu possa
grandemente
spandere il fiato
del tuo
coraggio ancor caldo
dalla
titanica impresa,
ben questo
è, che un dio formò quando
tutti gli
iddii erano ellèni.
Qui forse
tagliasti la prima
canna pel
sufolo vano
e
v'apristi i sette suoi fóri,
tu che sai
perché Pan facesse
obliqui i
calami eterni
e diritti
Pallade Atena.
Or, se tu
spiri il tuo vasto
soffio
nella bùccina forte
che tra
l'ignavia dei servi
chiamò i
guerrieri festanti
alla
suprema tua giostra,
da tutti
gli echi dei monti
che il
castigatore grifagno
vide
fiammeggiare nel cielo
dell'ire
sue conflagrato
vermigli
come se di foco
usciti
fossero e fece
d'essi le
meschite infernali
da tutti
gli echi dei monti
sola ti
sarà ripercossa
voce di
vittoria e di gloria».
Questo dal
cor m'ebbi fervore
nel puro
silenzio dell'alpe.
E dal
ferreo Gàbberi al Ronco
roseo di
grecchia, dai boschi
di Mommio
argentei di pace
ai
rugginosi gironi
della
Ceràgiola ardente,
il tuo
spirto ovunque diffuso
era
nell'etrusca Versilia;
e
conveniva con Dante
in Val di
Magra, con Guido
a Sarzana,
con l'Ariosto
di là
dalla Pania su l'aspra
Turrite,
più lungi. E per tua
virtude
risorsero quivi
gli
antichi iddii della patria,
risorsero
su le ruine
delle
città disparite
i popoli
spenti a cantare
le divine
origini e i culti
degli avi
e la forza dell'armi.
E come
Erme, come Vergilio,
come il
vicino tuo grande,
eri
mediator fra due mondi.
Enotrio,
ora e sempre laudato
sii tu fra
gli uomini in terra,
perché
veruna dell'alte
opere che
tu operasti
eguaglia
in altezza il tuo spirto,
presente
ovunque un servaggio
si scuota,
un'augusta memoria
risorga,
una giusta potenza
si
vendichi, un sogno lampeggi,
un desìo
s'armi e combatta.
Enotrio,
ora e sempre laudato
sii tu fra
la gente latina,
perché tu
superstite regio
del gentil
sangue, tu vate
solare
contra il nubiloso
barbarico
ingombro esaltasti
le marmoree
fronti degli Archi
di Trionfo
sacre all'Azzurro.
Enotrio,
ora e sempre laudato
sii tu fra
l'italica gente,
e col
lauro gianicolense
col
cipresso del Palatino
col
gattice d'Arno col salce
lombardo
con le viole
liguri con
le pestàne
rose con
le sicule palme,
con tutte
le nobili frondi
e con
tutti i fiori soavi
dei campi
espèrii ghirlande
di gloria
ti sieno tessute
dalla
giovinezza robusta,
perché tu
solo, mentre in ogni
capo di
strada era alzato
letto
fornicario o pur banco
di baratto
o pur falso altare
ad officii
di vituperio,
tu sol ci
serbasti nell'ampio
tuo petto
il fuoco di Roma
per la
terza vita d'Italia.
O padre,
verrà quel gran giorno
che ci promise
il tuo canto!
Ad ogni
alba gli Archi dell'Urbe
sembrano
vomire la notte
accidiosa
che rempie
i loro
vani come le bocche
delle cave
maschere inerti
cui
sospese il vecchio tragedo
per vóto a
Diòniso muto.
Subitamente
per entro
i loro
vani sembra che parli
la
magnificenza del giorno
geniale,
con la concisa
forza
delle inscritte parole
più fiera
su i cuori virili
che getto
di bronzo, più acre
che punta
di stilo rovente.
E gli
Archi, ecco, aspettano i nuovi
trionfi,
perché tu cantasti:
«O Italia,
o Roma! quel giorno
tonerà il
cielo sul Fòro».
Tonerà il
cielo sul Fòro
liberato
d'ogni congerie
vile,
d'ogni cenere e polve,
restituito
per sempre
nella
maestà de' suoi segni;
e dal
fonte pio di Giuturna
scoppieranno
le acque lustrali,
e da ogni
luogo arido vene
di acque,
e torrenti di vita
nelle
solitudini prone
dell'Agro,
nell'imperiale
deserto,
da tutte le tombe;
e tutte le
vèrtebre fosche
degli
acquedotti saranno
Archi di
Trionfo per mille
Volontà
erette su carri;
e la croce
del Galileo
di rosse
chiome gittata
sarà nelle
oscure favisse
del
Campidoglio, e finito
nel mondo
il suo regno per sempre.
E quella
sua vergine madre,
vestita di
cupa doglianza,
solcata di
lacrime il vólto,
trafitta
il cuore da spade
immote con
l'else deserte,
si
dissolverà come nube
innanzi
alla Dea ritornante
dal
florido mare onde nacque
pura come
il fiore salino
portata
dai zèfiri carchi
di pòlline
e di melodìa
là dove
l'antico suo figlio
approdò
coi fati di Roma
e disse:
«Qui è la patria».
Tonerà il
cielo sul Fòro.
I grandi
Pensieri e le grandi
Opere
saran coronati,
deità
novelle, nell'Urbe.
Ed anche
tu, vate solare,
assunto
sarai nel concilio
dei numi
indìgeti, o Enotrio.