Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
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LIBRO PRIMO - MAIA

1 - Laus vitae

XX.

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XX.

 

Enotrio, in memoria dell'ora

santa che versò d'improvviso

il fuoco pugnace de' tuoi

spirti su la mia puerizia

imbelle, alle tue prime cune

io peregrinai santamente.

E purificai le mie mani

nelle acque alpestri che, irose

contra macigni superbi

più che marmi di simulacri,

schiumeggiano presso la casa

umile dove nascesti,

sorelle della corrente

Strophia dinanzi la porta

del re d'inni Pindaro in Tebe.

Duro è il Teumesso, e il suo sprone

è come ginocchio proteso

d'oplìte in resistere all'urto.

Ma il tuo Monte Gàbberi è duro

più del Teumesso, o mio padre;

è come un elmetto d'eroe.

 

Ha forma d'aulòpide, cara

a Pallade e a Pericle, il monte,

con la visiera e il nasale.

E l'aspra virtude apuana

sembra guatar per i fóri

le navi sul mar di Liguria

e noverare le forze

dell'arsenà che travaglia

il patrio ferro dell'Elba

dietro il promontorio lunense.

Certo nell'infanzia selvaggia

ei t'apprese il crudo cipiglio

onde tu guatasti i Bonturi

e i Fucci e i ladruncoli immondi

e l'altra genìa per le terre

che il vicin tuo grande esulato

stampò di suoi fiammei vestigi.

Ma l'alpe di Mommio ha una vesta

di glauco pallore, e la Culla

sta con Montéggioli bianca

sopra un dolce golfo d'ulivi.

 

Sicché nel cor mi sovvenne

della sacra Fòcide, e il Plisto

nel lapidoso Motrone

riveder mi parve, e spirare

sentii per le alture e le valli

il soffio dell'Ellade, il nume

di Pan nei vocali canneti

presente, che ancóra conduce

pe' tempi il Ritorno eternale.

Sostai nella selva palladia

attonito, e il ciel tra le frondi

era come il vergine sguardo

dell'occhicèrula Atena.

E quivi sedetti su l'erba

a meditare, o Maestro,

il fato del tuo nascimento.

E tu eri meco placato

nella tua divina vecchiezza;

e la santità degli ulivi

ti coronava d'immensa

corona la fronte sublime:

 

E io dissi: «Padre, il tuo grande

aspetto è come la terra

natale, tra l'Alpe di Luni

ove il Buonarroto ancor rugge

e il Tirreno Mar navigato

dalle prue dei Mille in eterno.

Prometèa materia è quest'alpe,

insonne altitudine alata,

carne delle statue chiare,

forza delle colonne, gloria

dei templi, inno senza favella,

sculta rupe che s'infutura.

L'aquila batte le penne

sul vertice aguzzo, il torrente

precipita al piè con fragore.

Da tutte le vene profonde

una volontà di bellezza

eroica s'agita e soffre

per sorgere in luce di forme.

O padre, qui son le tue cune

che Michelangelo seppe.

 

Degna è quest'alpe che gli occhi

tuoi di fanciul torvo guardata

l'abbiano quando la dolce

tua madre era ignara del tanto

peso ch'ella avea sostenuto

e non ascoltava il torrente

sonoro annunciar le tue sorti,

onde l'umil casa ancor trema.

Degna è che tu la contempli

nella tua sera solenne,

o eroe che tanto pugnasti

e tanta sementa spargesti

nei campi di guerra fenduti

dall'unco tuo vomere fatto

con l'acciaio delle me scuri.

Se un luogo v'è dove tu possa

grandemente spandere il fiato

del tuo coraggio ancor caldo

dalla titanica impresa,

ben questo è, che un dio formò quando

tutti gli iddii erano ellèni.

 

Qui forse tagliasti la prima

canna pel sufolo vano

e v'apristi i sette suoi fóri,

tu che sai perché Pan facesse

obliqui i calami eterni

e diritti Pallade Atena.

Or, se tu spiri il tuo vasto

soffio nella bùccina forte

che tra l'ignavia dei servi

chiamò i guerrieri festanti

alla suprema tua giostra,

da tutti gli echi dei monti

che il castigatore grifagno

vide fiammeggiare nel cielo

dell'ire sue conflagrato

vermigli come se di foco

usciti fossero e fece

d'essi le meschite infernali

da tutti gli echi dei monti

sola ti sarà ripercossa

voce di vittoria e di gloria».

 

Questo dal cor m'ebbi fervore

nel puro silenzio dell'alpe.

E dal ferreo Gàbberi al Ronco

roseo di grecchia, dai boschi

di Mommio argentei di pace

ai rugginosi gironi

della Ceràgiola ardente,

il tuo spirto ovunque diffuso

era nell'etrusca Versilia;

e conveniva con Dante

in Val di Magra, con Guido

a Sarzana, con l'Ariosto

di dalla Pania su l'aspra

Turrite, più lungi. E per tua

virtude risorsero quivi

gli antichi iddii della patria,

risorsero su le ruine

delle città disparite

i popoli spenti a cantare

le divine origini e i culti

degli avi e la forza dell'armi.

 

E come Erme, come Vergilio,

come il vicino tuo grande,

eri mediator fra due mondi.

Enotrio, ora e sempre laudato

sii tu fra gli uomini in terra,

perché veruna dell'alte

opere che tu operasti

eguaglia in altezza il tuo spirto,

presente ovunque un servaggio

si scuota, un'augusta memoria

risorga, una giusta potenza

si vendichi, un sogno lampeggi,

un desìo s'armi e combatta.

Enotrio, ora e sempre laudato

sii tu fra la gente latina,

perché tu superstite regio

del gentil sangue, tu vate

solare contra il nubiloso

barbarico ingombro esaltasti

le marmoree fronti degli Archi

di Trionfo sacre all'Azzurro.

 

Enotrio, ora e sempre laudato

sii tu fra l'italica gente,

e col lauro gianicolense

col cipresso del Palatino

col gattice d'Arno col salce

lombardo con le viole

liguri con le pestàne

rose con le sicule palme,

con tutte le nobili frondi

e con tutti i fiori soavi

dei campi espèrii ghirlande

di gloria ti sieno tessute

dalla giovinezza robusta,

perché tu solo, mentre in ogni

capo di strada era alzato

letto fornicario o pur banco

di baratto o pur falso altare

ad officii di vituperio,

tu sol ci serbasti nell'ampio

tuo petto il fuoco di Roma

per la terza vita d'Italia.

 

O padre, verrà quel gran giorno

che ci promise il tuo canto!

Ad ogni alba gli Archi dell'Urbe

sembrano vomire la notte

accidiosa che rempie

i loro vani come le bocche

delle cave maschere inerti

cui sospese il vecchio tragedo

per vóto a Diòniso muto.

Subitamente per entro

i loro vani sembra che parli

la magnificenza del giorno

geniale, con la concisa

forza delle inscritte parole

più fiera su i cuori virili

che getto di bronzo, più acre

che punta di stilo rovente.

E gli Archi, ecco, aspettano i nuovi

trionfi, perché tu cantasti:

«O Italia, o Roma! quel giorno

tonerà il cielo sul Fòro».

 

Tonerà il cielo sul Fòro

liberato d'ogni congerie

vile, d'ogni cenere e polve,

restituito per sempre

nella maestà de' suoi segni;

e dal fonte pio di Giuturna

scoppieranno le acque lustrali,

e da ogni luogo arido vene

di acque, e torrenti di vita

nelle solitudini prone

dell'Agro, nell'imperiale

deserto, da tutte le tombe;

e tutte le vèrtebre fosche

degli acquedotti saranno

Archi di Trionfo per mille

Volontà erette su carri;

e la croce del Galileo

di rosse chiome gittata

sarà nelle oscure favisse

del Campidoglio, e finito

nel mondo il suo regno per sempre.

 

E quella sua vergine madre,

vestita di cupa doglianza,

solcata di lacrime il vólto,

trafitta il cuore da spade

immote con l'else deserte,

si dissolverà come nube

innanzi alla Dea ritornante

dal florido mare onde nacque

pura come il fiore salino

portata dai zèfiri carchi

di pòlline e di melodìa

dove l'antico suo figlio

approdò coi fati di Roma

e disse: «Qui è la patria».

Tonerà il cielo sul Fòro.

I grandi Pensieri e le grandi

Opere saran coronati,

deità novelle, nell'Urbe.

Ed anche tu, vate solare,

assunto sarai nel concilio

dei numi indìgeti, o Enotrio.

 

 


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