Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
L'allegoria dell'autunno
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Per la Raccolta nazionale delle musiche italiane

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Per la Raccolta nazionale
delle musiche italiane

Intraprendere per le stampe una raccolta di antiche musiche in questa terza nostra primavera di guerra, mentre sul sanguigno mondo sta quell’ansia vertiginosa che precede il turbine dei turbini e le estreme sentenze del Destino, può forse parere impresa intempestiva. Ma non è se non uno di quegli indizii augurali che non hanno mai cessato di risplendere allo spirito umano in mezzo a questa uccisione e a questa devastazione senza confine e senza fine obbedienti tuttavia a un ordine condotto da un ritmo inconvertibile sebene ancóra indistinto per noi.

Sotto un libro di musica aperto fra vari strumenti fu scritto da un antico nostro Concordia discors. Concordia discorde è questo smisurato travaglio umano che di sotto al carnaio e alla rovina scava le forme necessarie della vita nuova.

Creazioni recondite e ineffabili a noi, nel senso divino della parola, accompagnano le distruzioni brute che compie una volontà meccanica servita da macchine di morte sempre più potenti e diverse. Un dio velato su ognuna delle nostre battaglie fangose lampeggia come nel campo di Omero.

Il barbaro con tutte le atrocità e tutte le ignominie ha cercato di abolire l’idea che, fino alla vigilia della lotta, l’uomo si faceva dell’uomo. Or ecco che noi ricominciamo a sperare nell’altezza dell’uomo.

Il barbaro moltiplica sopra gli innocenti e gli inermi gli strazii infami dell’odio, alternando un’impudenza senile con una stupidità belluina. Ora il viso dell’amore senza lacrime non fu mai più raggiante, perché l’amore non fu mai tanto amato.

Il barbaro ha propagginato l’eroismo, l’ha coricato sotterra, l’ha confitto nel putridume; ha abbattuto le cattedrali aeree dove culminava l’aspirazione dell’anima perenne; ha disfatto e arso le sedi della sapienza ornate dal fiore di tutte le arti; ha sconvolto i lineamenti del Cristo e lacerato il grembo della madre di Dio. Ora la bellezza precipita e trabocca sul mondo come un torrente di maggio. Non abbiamo petti abbastanza capaci per raccoglierla e contenerla.

La punta della baionetta penetra in una sensibilità che cinge come un recente alone l’astro della coscienza in travaglio. Una musica nuova, simile a una giovinezza impaziente, è sparsa nelle vene tumide della terra che si satolla e si abbevera. Il fragore degli obici e dei mortai c’impedisce di ascoltarla ma non di presentirla.

Che è mai al paragone quel soffio novello che passava su le dita di Francesco Cieco in punto di toccare l’organo portabile? o quell’asprezza primaverile che invigoriva una frottola una villanella uno strambotto di Marchetto Cara, di Michele Pesenti?

Si pensa alla voce della Lauda, che sorse dalla più vermiglia guerra fraterna, con la sua chiarezza tonale, col suo disegno simmetrico; ma per accrescere e muovere sopra il ricordo gracile del passato l’aspettazione del futuro.

Aspettazione maravigliosa come quella che precede l’avvento dei grandi Rivelatori e Redentori negli spazii dell’anima.

Tutte le arti ristanno, perplesse e immobili. Sembrano aver perduto la misura. Il cànone dell’imagine umana non è più quello di Policleto. Lo spettacolo d’una grandezza sempre più grande le soverchia e stupisce.

La materia sfugge alla mano imbelle; non è afferrata se non dalla violenza numerosa, non è domata se non da utensili giganteschi. La fornace il furore il clamore di Benvenuto a confronto non sono se non smanie di fanciullo bizzarro.

Le qualità stesse della materia si trasmutano. La sagacia dell’artista non più le riconosce, né più la sua maestria le signoreggia. Anch’esse militano, sono invase dal dèmone ostile, non si sottomettono se non alla necessità della lotta.

La pietra non soffre gradina e scarpello; ma il «centurione» accosciato sopra un’asse traversa, taciturno sotto l’elmetto bigio, in una bolgia dell’inferno carsico, intento da dieci ore a reggere con le due pugna il pistoletto percosso in ritmo dalla mazza di ferro che l’introna o a togliere col nettamine la polvere bianca dal calcare forato, dove non è se non aridità e periglio, dove non è se non maledizione e sete, par magnanimo come il Buonarroti che combatte contro il masso per liberare la creatura bella del suo dolore e della sua vendetta.

Il metallo cola altrove che nei rami di gitto bene ordinati dallo statuario. A fondere un bassorilievo funebre in onore d’un compagno eroico, noi dovemmo mendicarlo, massello per massello. Ma, sotto l’urto estremo delle sorti, non esiteremmo a strappare dal cippo la figura incastrata perché fosse rifusa nell’officina della resistenza. Così toglieremmo le croci di ferro dalle sepolture selvagge dei caduti, col consentimento dei morti e di Dio. Il fuoco del sacrificio mescola oggi una lega mille volte più ricca che il bronzo di Corinto.

I costruttori nuovi, mentre attendono che le rovine cessino di fumigare, vedono forse in sogno la faccia della città futura? Quella dell’antica è irriconoscibile come l’impronta umana cancellata da una scheggia di bomba, come un capo vuotato sino alla collottola e ridotto in poca buccia rossastra. I cani fedeli urlano intorno, avendo perduto la traccia e il sentore. Tutto quel che sorgeva, ora giace. Quel che era inalzato verso il cielo, è agguagliato alla terra. L’architettura s’inabissa, si piega verso il mondo di giù, come la nera fatica degli schiavi etruschi. Il cemento afforza la tana, la carneficina ingombra il laberinto. Gli uomini non esciranno di sotterra, al soffio della pace, con una volontà folle di scagliare torri e cupole e guglie verso l’azzurro? In sublimi quiescant.

La tavolozza è rasa, la pagina è bianca. Che valgono le mestiche e gli inchiostri davanti allo splendore perpetuo del sangue? Nessuno interpreterà le figure misteriose che il sangue disegna sprizzando contro la roccia, spargendosi al suolo, tingendo le fasce?

Triste quell’artefice senz’arte, non divorato dall’ansia di offrire interamente il suo alla più bella causa che abbia mai avuto un Latino per sacrificarsi, in tutti i secoli di Roma, dal giorno minaccioso in cui il patrizio armato si scagliò col cavallo nella voragine.

Ma l’immateriale musica è da per tutto presente, è da per tutto vivente, simile a uno spirito di novità e di libertà universo, non inscritta nel pentagramma, non conclamata dal coro, non consonata dall’orchestra, non espressa in toni modi ritmi cadenze e tuttavia intesa a svolgersi come se il genio umano ne ampliasse i limiti e ne moltiplicasse le forme nel presentimento dell’orecchio futuro.

La musica è oggi la sola fra le arti attiva. Non s’arresta, non si sperde, non si degrada, non s’imbarbarisce. Segue pur sempre la rapidità del suo divenire. Quando il nostro orecchio di guerrieri abbia riacquistato la delicatezza e l’attenzione, noi la ritroveremo a un tratto precipitata nello spirito di un artista sconosciuto la cui gloria ci parrà levarsi dal fondo dell’orizzonte lontano e dell’anima prossima.

Ella avrà così trapassato ogni segno, avrà superato le invenzioni dei più generosi novatori. Il dramma di Claudio Debussy, la tragedia d’Ildebrando da Parma – per non parlare se non dei nostri, poiché oggi è necessario elevare l’idea di patria perfino al sommo dell’accento musicale – saranno divenuti esemplari di sostegno «quasi plinti su cui posino fermamente le colonne del Teatro annunziato».

E si pensa che l’espressione convulsa del mondo non debba essere ricomposta se non dall’onnipossente Sinfonia.

Ben sembra che anche oggi ella accompagni i moti veloci o tardi delle profonde masse periture, la vacillazione immensa delle forze che si spostano e si mettono in cammino, l’apparizione vittoriosa dei grandi temi ideali sopra il furore e il fragore della barbarie? Nell’uomo che oggi porta una somma di doglia e di eroismo più vasta di quella accumulata da tutti i secoli umani, ella cercherà troverà rivelerà i frammenti superstiti del passato e i nascimenti dell’avvenire. Come v’è una decima Musa, v’è pure una decima Sinfonia di dall’ultima del fiammingo Beethoven.

Perché dunque, in tanta aspettazione, offriamo agli Italiani un florilegio di vecchie musiche, augurando redivivo un Ottaviano Petrucci stampatore delle novissime?

Non per tornare all’antico ma per riconoscerlo e per vendicarlo – nel nome del Monteverdi, del Frescobaldi, del Palestrina – contro un lungo secolo di oscuramento e di errore. Taluna di queste, tra le più remote, sembra nata della stagione medesima in cui le novissime son per fiorire. La lirica primavera ritorna negli anni, sempre con dissimili foglie ma con una purità eguale.

Così i combattenti del nostro sangue, i costruttori del domani, nel Carso e nell’Alpe, sobrii di colore e di gesto, semplici d’un sol lineamento tra elmetto e uosa, sembrano dalla più pura arte giottesca disegnati in eterno contro il sasso e contro la neve.

O canto notturno del pastore siciliano poggiato alla canna del suo fucile ancor tiepida, nella dolina tolta al nemico, ingombra di uccisi a mucchio dove non biancicava se non qualche nuda mano atteggiata all’arpeggio della morte!

Intorno era l’Ade carsico, il fisso inferno di pietre, avvolto nel velo del novilunio velato. E un silenzio forte come un cemento legava le pietre, legava alle pietre i cadaveri; ma la notte divorava il nero dei grumi. E, lontano, nella foschìa, in tutta la cerchia dell’orizzonte giùlio, infuriava la battaglia infernale.

Era come una battaglia sparente, nella caligine che balenava senza tregua. Era come un combattimento confuso di anime, una mischia di resuscitati. E pareva che i corpi stesi nella dolina fossero per levarsi e per accorrere, come accorrevano via via tutti quelli abbattuti nelle trincee.

La gran petraia, nel centro di quella furia circolare di spiriti e di fuochi, rimaneva più inerte più muta più fredda che una landa di Selene. E giù nella dolina funebre, dentro il cratere albicante, i soldati stracchi dormivano all’aperto avvolti nei mantelli grigi, informi come il mucchio dei vinti.

E all’improvviso, quasi corda toccata nella profondità dei tempi e nella tristezza di una carne fragile come la mia, il canto sorse tremò si assicurò, fendette il cemento del silenzio e il mio vivo cuore.

E la vita e la morte, la contemplazione e la battaglia, il fratello e il nemico, l’Italia sanguinante e il mistero dei nascituri, tutto si sublimò nel vertice di una speranza disperata.

La musica segreta della terra, della nostra terra, della nazione radicata nel suolo, abbarbicata al sasso e alla gleba, sorgeva in quella voce inconsapevole, come una scaturigine melodiosa da una di quelle pietre che avesse a un tratto percossa la verga di un divinatore.

E fu il primo canto sacro della guerra da me udito; il quale mi parve degno d’esser raccolto in quel libro religioso preposto ai prossimi riti della Patria, che dai vincitori latini sarà chiamato il vittoriale.

Marzo 1917.



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