Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
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LIBRO SECONDO - ELETTRA

6 - A Roma

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6 - A Roma

 

Aurea Roma, sia testimone

dal ciel di settembre la faccia

del Sole che mai cosa più grande

di te visitò nell'alterno Orbe;

sieno testimoni dal confino

dell'Agro il Soratte santo

apollineo con le sue corone

di nubi e il Cimino proclive

che dal Tevere al Mare

tende le sue cerulee braccia;

e testimoni sieno i Monti

d'Alba pampinei ridenti

al cielo dai profondi

occhi dei laghi; e il divino

Agro che tace, co' suoi armenti

irti, co' suoi pastori biformi

dall'aspetto umano ed equino,

l'erbifero sepolcro dei regni

sia oggi testimone al canto

che memora il detto sibillino.

 

«Manca la Madre» disse il carme

euboico al sacerdote.

O Roma, guerriera senz'arme,

ti manca l'universa Idea

che sorga, su l'ombre

oblique, su le forme vuote

di alito, su le cloache ingombre

di uomini, generatrice.

Manca la Grande Madre. Ti manca

il vergine eroe, il nepote

ultimo del magnanimo Enea,

che con la sua man pura

la tragga vivente alle tue mura

auguste e instituisca la Festa

nova e inizii la nova Epopea.

L'ancile di Marte è scodella

al mezzano; la meretrice

è addetta al fuoco di Vesta;

del tuo Campidoglio non resta,

o Roma, che la Rupe Tarpea.

 

Ma, sotto il ciel settembrale

che riversa il suo calice d'oro

ampio dal Celio al Viminale

dal Gianicolo al Vaticano

dall'Anfiteatro al Fòro,

nel fausto dell'alta conquista,

cantiamo l'avvento fatale,

su la torbida acqua corrotta

chiamando l'imagine prisca.

Contro l'un concistoro

che ciancia baratta confisca

e l'altro che munge il tesoro

di Pietro per l'anima ghiotta,

alziamo la statua ideale.

Sorse fervido il popolo quando

intese il responso canoro:

«Manca la Madre. O Romano,

che tu chieda la Madre io comando.

Com'ella venga, addotta

sia da una pura mano».

 

Venne la Magna Madre

su la nave alla foce del fiume

biondo; e nel limo ristette,

immota, incrollabile come

una rupe. I cavalieri,

il senato, la plebe di Roma,

le vergini del fuoco santo

accorsero in turba alla foce

del fiume incontro alla veneranda

Ospite. Ed era ne' cuori

letizia. Ma stava nel vado

limoso la carena immota

simile a una rupestre

isola. Legarono all'alta

prora una fune gli uomini forti

e fecero gran forza di braccia,

e con voci iterate

aiutavano eglino la vana

opera, a trarre la nave

dipinta nel Tevere biondo.

 

Ma sedeva la Magna Madre

incrollabile sopra la tolda,

con la sua corona di mura

su le chiome che fingono i flutti

del ponto e i solchi dell'agro,

con le sue mani invitte

benefiche di beni infiniti

prone su le ginocchia più salde

che le roveri annose nei monti;

al conspetto del popolo grande

sedeva la Madre dell'aurea

fecondità, la nutrice

dei mortali e degli immortali,

la donatrice delle semenze

ineffabili, la dea

che moltiplica il sangue

animoso, edifica le chiare

città, conduce i pensieri

i timoni gli aratri, errante

sonante in circoli immensi.

 

E la forza degli uomini forti

s'accrebbe di tutta la plebe

romana, s'accrebbe di tutti

i cavalieri romani. E tutti

le braccia davano alla fune

ritorta e iteravan le voci

al travaglio, ma indarno; ché stava

immota nel vado la dipinta

carena e il simulacro sublime

splendeva sopra la tolda

nell'aer salino tacente.

Attonita interruppe il conato

la moltitudine e tacque

pavida innanzi al prodigio

con supplice cuore. S'udiva

fluire il Tevere biondo,

addurre all'imperio del Mare

la maestà di Roma.

Tra il popolo supplice, allora

s'avanzò Claudia Quinta vestale.

 

Offendeva lei casta il sospetto

del volgo, iniquo rumore.

S'avanzò Claudia Quinta e con mani

pure attinse l'acqua del fiume;

tre volte il capo s'asperse,

tre volte levò al cielo le palme;

prona nel suo crine giacente,

invocò a gran voce la dea.

Quindi, alzata, legò il suo cinto

alla prora e con lene fatica

trasse la Magna Madre nel fiume,

trasse la Madre dell'eterna

fecondità verso l'arce eterna

dell'Urbe. Tonarono i petti

romani; sanguinò la bianca

giovenca dinanzi alla poppa

coronata. Sedente sul plaustro

de' buoi la Turrigera, addotta

da virtù di vergine pura,

entrò per la porta Capena.

 

Così, o Roma nostra, negli anni

verrà non dal Dindimo ululante,

non pietra esculta in nave dipinta

pel Mediterraneo Mare,

verrà dagli oceani lontani

ove la vita allaccia la vita

d'isola in isola per correnti

misteriose di voleri

umani e di sogni umani

che cercano le novelle forme,

verrà dai continenti

immensi ove ancóra dorme

la ricchezza nei misteri

delle montagne e delle lande

promessa agli insonni messaggeri,

verrà dai confini del mondo

con l'impeto degli elementi

e con l'ordine dei pensieri,

verrà dall'alto e dal profondo

la Potenza in cui sola tu speri.

 

Così, o Roma nostra, nei tempi

un vergine eroe di tua stirpe

così la trarrà alle tue mura.

Non carena immobile in sirte

limosa, non simulacro

già venerato in templi

estranei trarrà la man pura,

ma la Potenza umana, ma il sacro

spirito nato dal cuore

dei popoli in pace ed in guerra,

ma la gloria della Terra

nel divino fervore

della volontà che la scopre

e la trasfigura

per innumerevoli opre

di luce e d'ombra, d'amore

e d'odio, di vita e di morte,

ma la bellezza della sorte

umana, dell'uomo che cerca

il dio nella sua creatura.

 

Però che in te come in un'impronta

indistruttibile, debba

la Potenza dell'Uomo

assumere forma ed effigie,

instituita nel Campidoglio

e nel Fòro, di contro all'Onta

dell'Uomo, su le vestigie

della forza e dell'orgoglio

che chiesero la Grande Madre

alle montagne frigie

per lei custodir nelle tue sacre

mura che sole credevi

tu degne di chiudere l'altrice

universa quantunque sì brevi.

O Roma, o Roma, in te sola,

nel cerchio delle tue sette cime,

le discordi miriadi umane

troveranno ancor l'ampia e sublime

unità. Darai tu il novo pane

dicendo la nova parola.

 

Quel che gli uomini avranno pensato

sognato operato sofferto

goduto nell'immensa Terra,

tanti pensieri, tanti sogni,

tante opere, tanti dolori,

tante gioie, ed ogni

diritto riconosciuto ed ogni

mistero discoperto

ed ogni libro aperto

nel giro dell'immensa Terra,

tutte le speranze umane

volanti da porti sonori,

tutte le bellezze umane

cantanti per boschi d'allori,

vestiranno le forme sovrane,

appariranno alla luce eterna,

o Roma, o Roma, in te sola.

Ai liberi ai forti materna,

o dea, spezzerai tu il novo pane

dicendo la nova parola.

 

Aurea Roma, o donna dei regni,

sien testimoni all'augurale

Ode che canta oggi il tuo destino

le cose che portano i segni:

la nube che sul Palatino

sanguigna risplende

come porpora imperiale

tra gli ardui cipressi; il divino

silenzio del vespero che accende

i Diòscuri domitori

di cavalli sul Quirinale;

l'ombra spirante che occupa i Fòri

gli Archi le Terme taciturna;

la fonte di Giuturna

che dalla ruina risale;

la tavola delle Leggi sacre

che dalla polve riappare;

e la mia speranza, o Madre,

e il fior del mio sangue latino,

e il fuoco del mio focolare.

 

 

 


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