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Ancóra dorme la città che ululò
d'amor selvaggio all'apparito Eroe
nel bel settembre. Emmanuele dorme
là nella reggia ove tanto tremò
l'erede esangue di Ferdinando. Implora
Dominedio Francesco di Borbone
chiuso in Gaeta con la sua fulva donna,
con l'aquiletta bavara che rampogna.
«Calatafimi! Marsala!» Chiama a nome
i suoi cavalli di guerra il Dittatore,
novo nell'alba, gli arabi suoi sul ponte
recalcitranti al vento che riscuote
il Golfo. Palpa le lor criniere ondose
che sanno ancor d'arsiccio, le lor froge
palpa, e le labbra frenate onde fioccò
la spuma come neve su i moribondi.
Ed ei li pensa lungi, franchi del morso,
per le ferrigne rupi; e dice: «Anche a voi
la libertà!». Quella divina voce
odono i due cavalli che hanno i nomi
delle Vittorie e lui guatan con occhi
di fanciul!i, ecco, obbedienti. Sorge
l'aurora. È pronta la nave. Il Dittatore
delle tempeste grida: «Salpa!». L'alta onda
nella memoria e nella voce. Scioglie
l'ultimo capo dell'ormeggio allor con
atto che par santo al devoto stuolo.
L'anima già per l'acque si diffonde
simile al dì. Ripete ei la parola
che consolò i suoi laceri prodi:
«A Roma, a Roma ci rivedremo! A Roma!».
Bello non è come il raggiante vólto
del donator di regni il novo Sole.