Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
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LIBRO SECONDO - ELETTRA

8 - La notte di Caprera

XII.

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XII.

 

Sotto l'immensa gloria chino la fronte,

il Dittatore onniveggente è immoto.

Nel sacco rude la sua mano s'affonda

e inerte sta, immemore dell'opra.

Or è interrotta l'opra del buon colono.

Ei più non vede rilucere pe' solchi

le sue semente, né ribatte le porche

ei con la marra in suo pensiero. Ascolta

il vento e il mare nella notte profonda.

Ascolta il rombo del suo spirito solo.

Non proferì la sua più gran parola

quando a quel re sopraggiunto donò

il regno e solo poi si ritrasse all'ombra

d'un casolare, lungi alla bella scorta,

sol con taluno de' suoi laceri prodi?

Triste è la bocca nella sua barba d'oro,

ché le sovvien del molto amaro sorso.

Era laggiù, presso Teano, incontro

ai foschi monti del Sannio, il donatore;

seduto all'ombra era, su vecchia botte

non più capace di contener la forza

del vin novello. Era l'autunno intorno;

ammutolito sul Volturno il cannone;

piegata e rotta la gente di Borbone

sul Garigliano; scomparso con la scorta

splendida il re sul suo cavallo storno,

andato a mensa. Era l'autunno intorno:

cadean le foglie dal tremolio dei pioppi;

i campi roggi fumigavano sotto

l'aratro antico tratto dai bianchi buoi

campani cui rauco urgeva il bifolco

fasciato le anche dal vello del montone,

coperto il bronzeo capo dal frigio corno.

Antiche e grandi eran le cose intorno;

antico e grande era il cuore dell'uomo

seduto in pace su la fenduta botte.

Ognun taceva al conspetto dell'uomo

meditabondo. Quasi era a mezzo il giorno:

era il meriggio muto come la notte.

Ognun taceva, ogni anima era prona

dinanzi a lui, col silenzio che adora

e riconosce: alta preghiera in ora

che parve a ognuno scorrere per ignota

profondità. E il forte elce nodoso,

che negreggiava quivi, fu santo come

i dolci olivi dell'orto ove pregò

tre volte un altro uomo di fulve chiome.

E il donatore, seduto su la doga

vile, crollò la testa di leone.

Calmo guardò pei fumi il campo roggio,

col calmo sguardo cerulo che soggioga

il rischio; udì l'anelito dei buoi

affaticati per quelle terre sode;

seguì un aratro che discendea da un poggio,

considerò se fosse dritto il solco

dietro l'attrito vomere. Anche ascoltò

la lodoletta che facea sua melode.

Venne per l'aria il suono d'un rintocco.

Allor fu quivi recato da un pastore

giovine irsuto di pelli, sopra un moggio,

al donator di regni un duro tozzo

di pane, e cacio stantìo, di grave odore.

Aveva ei seco il suo coltello a scrocco,

il suo coltello di marinaio, ancóra

raccomandato alla sua vecchia corda;

l'aperse pronto, con quello s'affettò

il pane e il cacio. Maciullando, guardò

l'aratro antico tratto dai bianchi buoi,

e giudicò del dritto solco; poi,

come il più duro non passava pel gozzo,

chiese da bere sorridendo al pastore.

Allor fu quivi recato in un orciuolo

al donator di regni acqua di pozzo.

Avido ei bevve, accostatosi il rozzo

vaso alla bocca, ma la bocca schifò.

L'acqua putiva, come d'un otro immondo.

Senza sdegnarsi ei versò l'acqua al suolo.

Poi s'asciugò, tranquillo; e disse: «Il pozzo

è infetto. Certo, v'è una carogna al fondo».

S'alzò nel detto; e andò pei campi solo.

 

 


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