Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
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LIBRO SECONDO - ELETTRA

8 - La notte di Caprera

XVII.

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XVII.

 

Villa Corsina, Casa dei Quattro Vènti,

fumida prua del Vascello protesa

nella tempesta, alti nomi per sempre

solenni come Maratona Platèa

Crèmera, luoghi già d'ozii di piaceri

di melodie e di magnificenze

fuggitive, orti custoditi da cieche

statue ed arrisi da fontane serene,

trasfigurati sùbito in rossi inferni

vertiginosi, chi dirà la bellezza

che in voi s'alzò dalla ruina e stette

su l'Urbe come terribile astro a sera?

chi canterà la vostra grande sera?

Cadeva il crudo su fuoco e ferro.

Tre volte e quattro iterato per l'erte

scalèe l'assalto: grado per grado, pietra

per pietra, preso e perduto e ripreso

e riperduto il baluardo orrendo;

accumulati i cadaveri a piè

degli agrifogli, dei balaustri, delle

statue, delle urne; fatto il pendìo riviera

del sangue, cupo bulicame di membra

lacere; acceso l'incendio; alzato al cielo

impallidito il clamore supremo

i Legionarii ansanti, arsi di sete

e d'ira, armati di tronconi e di schegge

neri di fumo e di polvere, belli

e spaventosi parvero come quelli

che superato avean l'uman potere

con la scagliata anima (tale il segno

superato è dal dardo veemente)

e respiravan dai lor profondi petti

piagati l'ansia d'un miracolo ardente.

«Avanti!» allora gridò la voce immensa.

Erano questi reduci dall'inferno

raccolti presso le mura, tra il Vascello

e San Pancrazio. Ansavan come belve

cacciate innanzi dal fuoco nelle selve

incendiate, esausti, dalla sete

stretti le fauci; e non avean da bere

se non sudore e sangue. Ognun coi denti

secchi mozzò l'anelito, e si tese

per obbedire. «Avanti!» ripeté

la voce immensa. Ed il bianco mantello

ondeggiò, come l'onda delle bandiere,

su gli aridi occhi. S'udìa, contra il Vascello,

spesso il nemico tonar dalle trincere

della Corsina come da una fortezza.

Perduta omai l'altura; folle impresa

tentare un altro assalto; tutta l'erta

spazzata; dubbio giungere a mezzo; certa

la strage. «Avanti!» gridò la voce immensa

e pura come il ciel di primavera

sopra le fronti degli uomini promessi.

E comandò agli uomini il portento.

«Orsù, Emilio Dandolo, riprendete

Villa Corsina! Su, di corsa, con vénti

dei vostri prodi più prodi, a ferro freddo

Ed il nomato tremò nel cuore udendo

il nome suo in bocca della stessa

Gloria. Caduto eragli già il fratello

su la scalèa, spento. E disse: «O fratello,

teco verrò!». Pronto, fece l'appello

dei morituri. E la falange breve

mosse all'assalto ultimo. Una gran febbre

allora parve palpitare nel vespro,

visibil come l'ardore nei deserti

quando per l'aere vibra incessantemente.

Sorse un clamore terribile nel vespro,

terribil come quel dei romani petti

che ferì l'aere ed i volanti uccelli

quando rostrata salpò la quinquereme

di Scipione. Videsi in alto un negro

stuolo di corvi sbattere sul funesto

Gianicolo, ove scendean le aquile un tempo

con i presagi. E nel fuoco e nel ferro

il fato della Republica fu certo.

I morituri la videro morente

nel sangue loro. Un disse: «Vinceremo».

 

 


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