Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
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LIBRO SECONDO - ELETTRA

12 - Nel primo centenario della nascita di Vincenzo Bellini

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12 - Nel primo centenario della nascita di Vincenzo Bellini

 

Nell'isola divina che l'etnèo

Giove alla figlia di Demetra antica

donò ricca di messi e di cavalli,

di lunghe navi e di città potenti,

d'aste corusche e di cerate canne,

di magnanimi eroi e di pastori

melodiosi,

 

dal santo lido ove apparì l'Alfeo

terribile che tenne la sua brama

immune dentro all'infecondo sale,

da Ortigia ramoscel di Siracusa,

che fu sorella a Delo e abbeverava

nell'orrore notturno la sirena

ai fonti ascosi,

 

il re degli inni Pindaro tebano

assiso in ferreo trono,

invocando le Grazie dal sen vasto

e l'Ardire e la Forza e l'Abondanza

sopra l'anima pura,

celebrò le vittorie dei mortali.

Per gli inni trionfali,

con l'olivo selvaggio e il bronzeo vaso,

i vincitori furono gli eguali

dei belli iddii nel sole senza occaso.

 

Inni, rapidi figli del furore

e della fiamma, qual degli iddii, quale

eroe, quale uomo noi celebreremo

oggi al conspetto del religioso

popolo accolto che offre alla Potenza

generata dal suo dolente grembo

una preghiera?

 

Il dio celebreremo noi, pel cuore

innumerevole avido di eterna

vita, l'eroe celebreremo e l'uomo

in una sola forma di bellezza

giovenile, rapita negli alti astri

ma sempre ritornante in terra come

la primavera.

 

Simile al mare procelloso incontro

alle foci dei fiumi,

che sforza verso le sorgenti prime

verso le auguste origini montane

la gran copia dell'acque

(beve intorno la terra e si feconda),

simile al mare l'onda

del canto volga impetuosamente

questa che palpita anima profonda

verso l'antichità di nostra gente.

 

Dove il veglio Stesicoro per Ilio

ereditò la cecità di Omero,

dove Pindaro assunse ai cieli il carro

del re Ierone fondatore d'Etna

e Teocrito addusse tra i bifolchi

eloquenti le Càriti dal fresco

fiato silvano,

 

quivi improvvisa dopo il lungo esilio

la doriense Musa ricomparve

tra l'immemore popolo, improvvisa

animò la siringa dell'occulto

Pan, cui la cera dato avea l'odore

del miele (appreso aveale a lamentarsi

il labbro umano);

 

e il dolore degli uomini e l'amore

degli uomini e le cieche

speranze e le bellezze della vita

e della morte e tutte le virtudi

riebbero nel Canto

la purità sublime e necessaria.

Oh sagliente nell'aria

che la nutrì, semplice nuda e sola,

come nel tempio la colonna paria,

la melodìa che vince ogni parola!

 

Gli Itali palpitaron di novella

attesa udendo quella giovenile

voce nell'aria limpida salire;

e l'olivo che cinge i poggi curvi

lungh'essi i patrii mari santo parve

alle dischiuse ciglia e ancor più santo

parve l'alloro;

 

però ch'eglino, tristi servi, in quella

voce riconoscessero l'antica

lor giovinezza e la meravigliosa

verginità dell'anima primiera

che creò nella luce l'immutato

ordine e bianco per gli intercolunnii

condusse il coro.

 

Cantava inconsapevole, su i giorni

e su l'opre comuni

il figlio degli Ellèni in false vesti,

tra vane moltitudini loquaci,

lungi ai marmi natali;

e in cor gli ardeva una tristezza ignota,

mentre nella remota

isola i suoi teatri pel notturno

silenzio biancheggiavano e la vota

scena attendeva l'urto del coturno.

 

«Egli è morto, l'Orfeo dorico è morto!

Sicelie Muse, incominciate il carme

fùnebre! O rosignoli, annunziate

ad Aretusa ch'egli è morto e il canto

morto è con lui, e il latte non fluisce

più, né dai favi il miele, ché perito

è nella cera

 

per lo dolore; e il verde apio nell'orto

langue, e l'aneto aulente; e le montagne

son tacite, e le fonti nelle selve

plorano, e al mare Cèrilo fa lai.

Sicelie Muse, incominciate il carme

fùnebre! Varca il doriense Orfeo

l'atra riviera

 

Non sonò forse questo antico pianto

sul trapassato auleta?

«Omai chi canterà su le tue canne?

Respiran elle come le tue labbra.

Pan non si ardisce. E oppresso

tu dal silenzio della Terra sei!

Ma, se canti a colei

che pur pensosa è d'Enna in Acheronte,

ella in memoria dei narcissi ennèi

ti ridona al tuo mare ed al tuo monte

 

Non piansero così forse i selvaggi

flauti contesti con la cera e il lino,

al mar siciliano e a piè del cavo

rogo vulcanio? E le città illustri

piangevano, come Ascra per Esiodo,

per Archiloco Paro, per Alceo

Lesbo su l'acque.

 

Inno di gloria, irràggiati dei raggi

più fulgidi recando all'ansiosa

moltitudine, accolta nel Teatro

riconsacrato dalla reverenza,

l'imagine del giovine Cantore.

auspice e i testimonii del fatale

suolo ove nacque.

 

Alto pel mar duplice ei vien cantando,

il figlio degli Ellèni,

il subitaneo fiore della Madre

Ellade. Ei vien cantando la bellezza

e il dolore dell'Uomo.

Il genio della stirpe lui conduce,

pervigile. La luce

è la sua legge. E l'orizzonte immenso,

con tutto che la Terra alma produce

volgesi a lui come un divin consenso.

 

Saluta, mentr'ei viene, Inno, l'ignita

vetta e il lido aretùside, sospiro

d'Atene, e le vocali selve, e i fiumi

che il chiaro Ionio beve, e Siracusa

e Taormina e la natal Catana

con l'orme che v'impressero congiunte

Ellade e Roma.

 

La luce regna. Una profonda vita

anima le ruine respiranti

per mille bocche cerule nel mare

e nel cielo. L'alta erba occupa i gradi

marmorei, ove i secoli silenti

e invisibili ascoltano il tragedo

che non si noma.

 

Tra il cielo e il mare le deserte orchestre

come stromenti cavi

s'aprono per accogliere la voce

misteriosa cui risponde il coro

dei Vènti peregrini.

E la tempesta che laggiù percote

le grandi rupi immote

contra i frangenti, e il tremito del lieve

stelo tra i rotti fregi, son le note

dell'istessa parola eterna e breve.

 

Italia, Italia, quale messaggero

di popoli trarrà da quel silenzio

venerando il messaggio che s'attende?

Quivi taluno interroga i vestigi?

pacato curvasi ad apprender come

si tagli il marmo per edificare

immortalmente?

 

O altrove, altrove affòrzasi il pensiero

liberatore in qualche eroica fronte

su cui ventò lo spirito dell'alba

promessa? Dove? Dove Leonardo

temprò il sorriso, penetrò le ambagi

del corpo umano, dominò la forza

della corrente?

 

Sotto l'ombra dell'Alpi vigilate?

Nella ligure piaggia

onde salpò la prua ferrea di cuori?

Nella candida pace della valle

umbra dove Francesco

nutrì di sé le dolci creature?

Fra l'alte sepolture

della città ch'ebbe di Dante l'ossa

e al gran nome sfavilla di future

sorti qual fredda selce alla percossa?

 

O nella polve (Inno d'amore, batti

l'ale tue forti!) nella sacra polve

del Fòro suscitata oggi dai ferri

animosi che rompono i suggelli

del Tempo e riconducono alla luce

dell'Anima e del Sole i testimonii

primi dell'Urbe?

 

Ovunque i bei pensieri e i grandi fatti

si preparino, quivi arde un altare

alla Dea Roma e il buono Eroe s'attende.

Inno, che nell'ardore della mia

anima come in fervida fucina

foggiarono le mie speranze invitte,

saluta l'Urbe!

 

Saluta, nella gloria del Cantore

fiorito a piè dell'Etna,

l'Aventino sul Tevere d'Italia,

il monte che salivano i Carmenti

aedi del Futuro;

però che tutto alla Gran Madre torni

e d'ogni raggio s'orni

il suo capo che sta sopra la Terra.

Sveglia i dormenti e annunzia ai desti: «I giorni

sono prossimi. Usciamo all'alta guerra!».

 

 

 


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