Come sopra
la forza del monte
tra la
selva e il fonte,
tra la
palude e il fiume,
in vista
all'infaticato mare,
nell'altezza
dell'etra
venerabile,
con suon di cetra
e di
flauto, armoniosamente,
l'immune
dalla morte
Eroe
figlio del Nume
edificava
per l'industre
e pugnace
sua gente,
e pel
Fato, la città illustre
di molte
porte e di molte are;
così
edificò Egli
nella luce
e nell'ombra
l'opera
d'eterne parole
che
ingombra l'orizzonte
umano con
la sua mole
immensa; e
l'abitarono i vegli
esperti
d'infiniti mali,
le vergini
vereconde, i lieti
pargoli, i
guerrieri sanguigni,
e i mostri
carnali senza fronte,
che
faceano insonni i profeti
ne' lor
chiostri di macigni,
le onte
irte d'artigli e d'ali,
di cigli e
di rostri.
Nazione di
Dante,
se l'anima
tua non è morta,
se il tuo
braccio ancor vale,
se ancor
la tua voce risuona,
se t'arde
nella memoria
favilla
del romano orgoglio,
o custode
del Libro immortale,
percuoti
lo scudo raggiante
sospeso
alla porta
del tuo
Tempio ideale,
solleva
una vasta corona
dal tuo
Campidoglio,
e grida:
«Gloria! Gloria!
Gloria!»
come nei giorni
delle tue
magnificenze;
perocché
oggi ritorni
l'edificator
Titano
trasfigurato
sopra gli anni
e i
tiranni, spiriti adducendo
di amore
su vènti di letizia,
nella sua
pura vittoria
le sacre
invocando potenze
testimoni
al cruciato di Scizia:
«O Terra!
O Madre!
O chiaro
Etere! Mutato è in gioia
degli
uomini quel ch'io soffersi
per la
Giustizia».
Gloria
all'esule Eroe che invoco,
Nazione di
Dante, all'aedo
che seppe
pur l'altra parola
del
Portatore-di-fuoco!
«Più grato
m'è l'esser prigione
del sasso,
che servo
del tuo
signore.» E sola
eragli
intorno la rupe, e solo
eragli
l'Oceano intorno
ululante; e
il lamento
dei popoli
ignavi sul vento
ferivagli
il cuore ferito;
e la
nuvola del suo dolore
occupava
il ciel taciturno
procellosa,
di folgori spessa;
e l'ira
indefessa
latrava
pel tragico lito
all'orrore
notturno,
più trista
che Niobe nel mito.
Ma egli
aspettò la sua vela,
ospite
sovrumano
del
granito, come Eschilo a Gela
ospite fu
del vulcano.
E le
parole sue
costrinsero
il Fato lontano
a premere
la ferrea mano
su
l'impero di sangue e di lue.
O nembo
sonante dell'Ode,
rischiara
dei tuoi rotti lampi
l'immensità
del suo cuore!
La Gallia,
distesa tra i campi
nubilosi e
le prode
del
Mediterraneo lucente,
nel suo
cuore è compresa
con la
profonda Ardenna
e la
Provenza serena
ove canta
la cicala
d'Apolline
all'olivo d'Atena,
e la
Bretagna silente
dai
candidi lini
che prega
rammemora e sogna
coronata
di giunchi marini,
e la
Borgogna che al ferro
duro
partitor di retaggi
è madre e
alle vigne opime
onde
fiammea gioia s'esprime.
Integro
nel suo petto
è il suo
dolce paese;
e nell'anima
sua ferve il solco
della nave
focese
che venne
recando il perfetto
dell'Ellade
fiore
nel seno
petroso ove nacque
Massilia a
specchio dell'acque.
Ma il
tutto è in lui. Nel suo petto
concluso è
il mondo. Ogni raggio,
ogni
tenebra in lui discende,
da lui
parte. Il suo spirto selvaggio
e divino
s'oscura e risplende
come la
Notte, come il Giorno.
Egli è
Pan, la sostanza del Cielo
della
Terra e del Mare,
l'Orgiaste,
il Sonoro,
il
Vagabondo,
il dio dal
piè caprino, dal corno
lunare, il
signore del coro,
il duce
dell'eterno ritorno,
che
sopporta le stelle,
incita le
stirpi,
dischiude
la porta
delle
eterne visioni.
Crescono
in lui stagioni
ineffabili.
La polve
dei secoli
s'anima al fiato
della sua
bocca e levasi in trombe
impetuose.
Le tombe
gli
rendono i morti e i misteri.
Dal
silenzio Egli trae tutti i suoni.
I novi
pensieri suoi forti
per entro
alle selve dei tempi
si
scagliano come leoni.
Sale il
monte, scompare nell'atra
nube,
parla con l'aquile e i vènti.
Dietro di
sé lascia la turba
che latra,
la città del sangue
e del
lucro, la femmina molle;
fa sosta
ai torrenti.
Beve, come
i profeti, nel cavo
della
mano, mentre all'opposta
riva rugge
il fratel suo flavo.
Come
l'artefice folle
del
Macedone, ebro di fasto,
emulando
con l'arte l'orgoglio,
foggia nel
monte il colosso
del suo
desiderio inumano
che cerca
il dominio più vasto,
che anela
il più fulgido soglio.
Come il
dio degli eserciti, grida:
«Io ti
darò una fronte
più dura
che le fronti loro».
Veggon di
lungi le genti
torreggiare
quel suo simulacro.
Dicono:
«Chi trasfigura il monte?».
I muscoli
ingenti
constringono
l'ardua ossatura
terribili
come i serpenti
che
attorsero Laocoonte.
Guardan
l'aquile il sacro lavoro.
Egli sa
ciò che deve perire,
e il
segreto travaglio onde nasce
la nova
speranza o la nova
beltà su
la doglia del mondo,
ora curvo
come sotto il pondo
di popoli
morti, d'immensi
tumuli,
d'infami ruine,
or
raggiante di vite future.
Legioni di
re, coorti
di
pontefici e d'imperatori
ebri di
lutti e d'incensi,
lordi di
menzogne e di fuchi,
torme di
carnefici sordi,
d'eunuchi
infermi di paure,
moltitudini
di meretrici
fameliche
come le tombe,
si mutano
in tacita polve
nelle
profondità delle vie
nascoste;
e la polve,
sitibonda
sorella del fango,
riceve il
pianto dei cieli; e il suono
d'una
parola
v'è
seminato: «La spada
si torce,
la tiara si offusca,
la corona
si apre,
la catena
si spezza, il supplizio
si
arresta. Gloria alla Terra!».
Egli
canta: «Gloria alla Terra!
Benigna è
la madre e severa
alle sue
schiatte,
incorruttibile
e certa.
Ama il
figlio che pensa e che spera,
che opera
e che combatte;
e
l'innocenza offerta
a tutte le
vite è il suo latte,
e la
giustizia è la sua mammella».
Canta:
«Ogni alba è novella.
La
vittoria è nel grembo dell'alba
fecondata
dal sogno del forte.
O Spirto,
vinceremo noi
l'immite
elemento, e la morte
informe
che in fiumi d'oblio
i solchi
profondati agguaglia.
L'un sotto
il giogo dell'uomo
si curverà
come giumento;
l'altra si
farà bella del canto
che eterna
il cuor degli eroi.
L'inno del
divino
ordine
sorgerà dal grido
rauco, dal
fragor della battaglia.
E la
bianca rondine che vola
verso
l'eternità, la Speranza
del
giusto, farà il suo nido
nelle
fauci inerti del Destino».
Canta: «Il
bisogno, aratro
infaticabile,
travaglia
le
moltitudini folte,
fremebonda
gleba.
Innumerevoli
mani
levate
alla minaccia
son le
spighe ond'è irto
il
sanguineo campo fenduto.
Noi
getteremo, o Spino,
il seme
per altre raccolte.
Bandiremo
conviti d'amore
con
beatitudini molte.
Tesseremo
la bianca tovaglia
con una
invisibile spola.
Il nostro
puro fromento
non patirà
la mola
per
convertirsi in pani.
Il
ramoscel cresciuto
all'ombra
del dio che consola
ornerà, con
l'alloro e col mirto,
le mense
pie di domani.
Il lin
sincero e la lana rude
al conviva
saran vestimento.
Su la
porta che mai non si chiude
ove l'uom
dice: «Entra e rimani»,
sarà
scritta la grande parola
COMINCIAMENTO».
Ed Egli
tace, nella grazia
della
terra vestita di cielo,
simile al
fiume che sazia
di sé le
moltitudini e i campi.
Tutto il
Bene è nell'occhio profondo.
La pagina
del suo vangelo
palpita
come l'ala
che in
aere si spazia,
splende
come velo che avvampi.
Tace Egli
e guarda.
Il suo
petto titanico esala
il soffio
pacato d'un mondo.
Tace e
contempla. Una scala
sorge nel
suo sogno, diritta,
di
crisòlito e di diamante.
All'imo un
re moribondo
v'è senza
eredi; e confitta
da presso
v'è l'onta
d'un
pastor senza legge, che spinga
i suoi
cotti piedi
come quei
nella bolgia di Dante.
Ma stirpi
ansiose in catena
infinita
vi salgono. Al sommo
dell'ansia
il miracolo sta:
la suprema
bellezza, la gioia
suprema,
la gloria suprema:
nella Luce
la Libertà.
O libera
forza dell'Ode
che
precipiti sopra le turbe
estuose e
fai tua rapina
dei cuor
maschi, e il lor palpito s'ode
fra i tuoi
gridi intermesso,
e teco li
traggi ed esalti
insino
all'ardor che commuta
in una
adamantìna
tempra il
desire e il volere,
o
Ardente!, quali faci arderemo
noi, quali
fuochi, quali alti
roghi,
quali incendii vasti
accenderemo
noi presso e lunge,
su i colli
dell'Urbe, alle prode
del
Tevere, nei paschi
dell'Agro,
oggi, per questo che giunge
di torri
incoronato
ospite del
Campidoglio?
Ecco le
terme, ecco i circhi, gli archi,
gli
acquedotti roggi,
vertebre
dei secoli, orridi ossi.
Ma se Roma
si levi dal soglio
per lui
onorare, oggi eretta
apparirà
più grande
a questo
che vien d'oltremonte
fabro di
colossi,
con
fragore di scudi percossi.
«Patria!
Patria!» gridavan gli Ellèni
percotendo
gli scudi sospesi
alle porte
dei templi,
quando
escivan dal bianco Teatro
pieni il
petto del ditirambo
religioso
cui
Eschilo dato avea l'angue
e la
torcia dell'insonne Erinni.
«Patria!
Patria!» E con ambo
le braccia
cingean le colonne
pure,
sorelle degli inni.
Percotiamo
gli scudi chiamando
il dolce e
terribile nome,
suggello
di labbra più sante.
Colui che
oggi sale il Monte
Tarpeo,
l'amò d'alto amore
ché l'udì
dalle labbra di Dante.
«Italia!
Italia!»
Una voce
d'iroso dolore
dall'adriatico
mare,
dal mare
che chiude altri morti,
dal mare
che vide altre onte,
ripete
oggi il grido, ahi, vano. E il cuore
anco
spera? E la fede non langue?
Calpesta
dal barbaro atroce,
o Madre
che dormi, ti chiama
una figlia
che gronda di sangue.