Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
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LIBRO SECONDO - ELETTRA

13 - Nel primo centenario della nascita di Vittore Hugo

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13 - Nel primo centenario della nascita di Vittore Hugo

 

Come sopra la forza del monte

tra la selva e il fonte,

tra la palude e il fiume,

in vista all'infaticato mare,

nell'altezza dell'etra

venerabile, con suon di cetra

e di flauto, armoniosamente,

l'immune dalla morte

Eroe figlio del Nume

edificava per l'industre

e pugnace sua gente,

e pel Fato, la città illustre

di molte porte e di molte are;

così edificò Egli

nella luce e nell'ombra

l'opera d'eterne parole

che ingombra l'orizzonte

umano con la sua mole

immensa; e l'abitarono i vegli

esperti d'infiniti mali,

le vergini vereconde, i lieti

pargoli, i guerrieri sanguigni,

e i mostri carnali senza fronte,

che faceano insonni i profeti

ne' lor chiostri di macigni,

le onte irte d'artigli e d'ali,

di cigli e di rostri.

 

Nazione di Dante,

se l'anima tua non è morta,

se il tuo braccio ancor vale,

se ancor la tua voce risuona,

se t'arde nella memoria

favilla del romano orgoglio,

o custode del Libro immortale,

percuoti lo scudo raggiante

sospeso alla porta

del tuo Tempio ideale,

solleva una vasta corona

dal tuo Campidoglio,

e grida: «Gloria! Gloria!

Gloria!» come nei giorni

delle tue magnificenze;

perocché oggi ritorni

l'edificator Titano

trasfigurato sopra gli anni

e i tiranni, spiriti adducendo

di amore su vènti di letizia,

nella sua pura vittoria

le sacre invocando potenze

testimoni al cruciato di Scizia:

«O Terra! O Madre!

O chiaro Etere! Mutato è in gioia

degli uomini quel ch'io soffersi

per la Giustizia».

 

Gloria all'esule Eroe che invoco,

Nazione di Dante, all'aedo

che seppe pur l'altra parola

del Portatore-di-fuoco!

«Più grato m'è l'esser prigione

del sasso, che servo

del tuo signore.» E sola

eragli intorno la rupe, e solo

eragli l'Oceano intorno

ululante; e il lamento

dei popoli ignavi sul vento

ferivagli il cuore ferito;

e la nuvola del suo dolore

occupava il ciel taciturno

procellosa, di folgori spessa;

e l'ira indefessa

latrava pel tragico lito

all'orrore notturno,

più trista che Niobe nel mito.

Ma egli aspettò la sua vela,

ospite sovrumano

del granito, come Eschilo a Gela

ospite fu del vulcano.

E le parole sue

costrinsero il Fato lontano

a premere la ferrea mano

su l'impero di sangue e di lue.

 

O nembo sonante dell'Ode,

rischiara dei tuoi rotti lampi

l'immensità del suo cuore!

La Gallia, distesa tra i campi

nubilosi e le prode

del Mediterraneo lucente,

nel suo cuore è compresa

con la profonda Ardenna

e la Provenza serena

ove canta la cicala

d'Apolline all'olivo d'Atena,

e la Bretagna silente

dai candidi lini

che prega rammemora e sogna

coronata di giunchi marini,

e la Borgogna che al ferro

duro partitor di retaggi

è madre e alle vigne opime

onde fiammea gioia s'esprime.

Integro nel suo petto

è il suo dolce paese;

e nell'anima sua ferve il solco

della nave focese

che venne recando il perfetto

dell'Ellade fiore

nel seno petroso ove nacque

Massilia a specchio dell'acque.

 

Ma il tutto è in lui. Nel suo petto

concluso è il mondo. Ogni raggio,

ogni tenebra in lui discende,

da lui parte. Il suo spirto selvaggio

e divino s'oscura e risplende

come la Notte, come il Giorno.

Egli è Pan, la sostanza del Cielo

della Terra e del Mare,

l'Orgiaste, il Sonoro,

il Vagabondo,

il dio dal piè caprino, dal corno

lunare, il signore del coro,

il duce dell'eterno ritorno,

che sopporta le stelle,

incita le stirpi,

dischiude la porta

delle eterne visioni.

Crescono in lui stagioni

ineffabili. La polve

dei secoli s'anima al fiato

della sua bocca e levasi in trombe

impetuose. Le tombe

gli rendono i morti e i misteri.

Dal silenzio Egli trae tutti i suoni.

I novi pensieri suoi forti

per entro alle selve dei tempi

si scagliano come leoni.

 

Sale il monte, scompare nell'atra

nube, parla con l'aquile e i vènti.

Dietro di sé lascia la turba

che latra, la città del sangue

e del lucro, la femmina molle;

fa sosta ai torrenti.

Beve, come i profeti, nel cavo

della mano, mentre all'opposta

riva rugge il fratel suo flavo.

Come l'artefice folle

del Macedone, ebro di fasto,

emulando con l'arte l'orgoglio,

foggia nel monte il colosso

del suo desiderio inumano

che cerca il dominio più vasto,

che anela il più fulgido soglio.

Come il dio degli eserciti, grida:

«Io ti darò una fronte

più dura che le fronti loro».

Veggon di lungi le genti

torreggiare quel suo simulacro.

Dicono: «Chi trasfigura il monte?».

I muscoli ingenti

constringono l'ardua ossatura

terribili come i serpenti

che attorsero Laocoonte.

Guardan l'aquile il sacro lavoro.

 

Egli sa ciò che deve perire,

e il segreto travaglio onde nasce

la nova speranza o la nova

beltà su la doglia del mondo,

ora curvo come sotto il pondo

di popoli morti, d'immensi

tumuli, d'infami ruine,

or raggiante di vite future.

Legioni di re, coorti

di pontefici e d'imperatori

ebri di lutti e d'incensi,

lordi di menzogne e di fuchi,

torme di carnefici sordi,

d'eunuchi infermi di paure,

moltitudini di meretrici

fameliche come le tombe,

si mutano in tacita polve

nelle profondità delle vie

nascoste; e la polve,

sitibonda sorella del fango,

riceve il pianto dei cieli; e il suono

d'una parola

v'è seminato: «La spada

si torce, la tiara si offusca,

la corona si apre,

la catena si spezza, il supplizio

si arresta. Gloria alla Terra!».

 

Egli canta: «Gloria alla Terra!

Benigna è la madre e severa

alle sue schiatte,

incorruttibile e certa.

Ama il figlio che pensa e che spera,

che opera e che combatte;

e l'innocenza offerta

a tutte le vite è il suo latte,

e la giustizia è la sua mammella».

Canta: «Ogni alba è novella.

La vittoria è nel grembo dell'alba

fecondata dal sogno del forte.

O Spirto, vinceremo noi

l'immite elemento, e la morte

informe che in fiumi d'oblio

i solchi profondati agguaglia.

L'un sotto il giogo dell'uomo

si curverà come giumento;

l'altra si farà bella del canto

che eterna il cuor degli eroi.

L'inno del divino

ordine sorgerà dal grido

rauco, dal fragor della battaglia.

E la bianca rondine che vola

verso l'eternità, la Speranza

del giusto, farà il suo nido

nelle fauci inerti del Destino».

 

Canta: «Il bisogno, aratro

infaticabile, travaglia

le moltitudini folte,

fremebonda gleba.

Innumerevoli mani

levate alla minaccia

son le spighe ond'è irto

il sanguineo campo fenduto.

Noi getteremo, o Spino,

il seme per altre raccolte.

Bandiremo conviti d'amore

con beatitudini molte.

Tesseremo la bianca tovaglia

con una invisibile spola.

Il nostro puro fromento

non patirà la mola

per convertirsi in pani.

Il ramoscel cresciuto

all'ombra del dio che consola

ornerà, con l'alloro e col mirto,

le mense pie di domani.

Il lin sincero e la lana rude

al conviva saran vestimento.

Su la porta che mai non si chiude

ove l'uom dice: «Entra e rimani»,

sarà scritta la grande parola

COMINCIAMENTO».

 

Ed Egli tace, nella grazia

della terra vestita di cielo,

simile al fiume che sazia

di sé le moltitudini e i campi.

Tutto il Bene è nell'occhio profondo.

La pagina del suo vangelo

palpita come l'ala

che in aere si spazia,

splende come velo che avvampi.

Tace Egli e guarda.

Il suo petto titanico esala

il soffio pacato d'un mondo.

Tace e contempla. Una scala

sorge nel suo sogno, diritta,

di crisòlito e di diamante.

All'imo un re moribondo

v'è senza eredi; e confitta

da presso v'è l'onta

d'un pastor senza legge, che spinga

i suoi cotti piedi

come quei nella bolgia di Dante.

Ma stirpi ansiose in catena

infinita vi salgono. Al sommo

dell'ansia il miracolo sta:

la suprema bellezza, la gioia

suprema, la gloria suprema:

nella Luce la Libertà.

 

O libera forza dell'Ode

che precipiti sopra le turbe

estuose e fai tua rapina

dei cuor maschi, e il lor palpito s'ode

fra i tuoi gridi intermesso,

e teco li traggi ed esalti

insino all'ardor che commuta

in una adamantìna

tempra il desire e il volere,

o Ardente!, quali faci arderemo

noi, quali fuochi, quali alti

roghi, quali incendii vasti

accenderemo noi presso e lunge,

su i colli dell'Urbe, alle prode

del Tevere, nei paschi

dell'Agro, oggi, per questo che giunge

di torri incoronato

ospite del Campidoglio?

Ecco le terme, ecco i circhi, gli archi,

gli acquedotti roggi,

vertebre dei secoli, orridi ossi.

Ma se Roma si levi dal soglio

per lui onorare, oggi eretta

apparirà più grande

a questo che vien d'oltremonte

fabro di colossi,

con fragore di scudi percossi.

 

«Patria! Patriagridavan gli Ellèni

percotendo gli scudi sospesi

alle porte dei templi,

quando escivan dal bianco Teatro

pieni il petto del ditirambo

religioso

cui Eschilo dato avea l'angue

e la torcia dell'insonne Erinni.

«Patria! Patria!» E con ambo

le braccia cingean le colonne

pure, sorelle degli inni.

Percotiamo gli scudi chiamando

il dolce e terribile nome,

suggello di labbra più sante.

Colui che oggi sale il Monte

Tarpeo, l'amò d'alto amore

ché l'udì dalle labbra di Dante.

«Italia! Italia

Una voce d'iroso dolore

dall'adriatico mare,

dal mare che chiude altri morti,

dal mare che vide altre onte,

ripete oggi il grido, ahi, vano. E il cuore

anco spera? E la fede non langue?

Calpesta dal barbaro atroce,

o Madre che dormi, ti chiama

una figlia che gronda di sangue.

 

 

 


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