Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
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LIBRO SECONDO - ELETTRA

14 - Per la morte di un distruttore

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14 - Per la morte di un distruttore

 

F.N. XXV AGOSTO MCM

 

Disse al cuore dell'uomo: «Quando

tu fervi, o cuore, largo e pieno,

simile alla grande fiumana,

beneficio e periglio dei lidi,

quivi la tua virtù s'inizia».

Disse: «Nel deserto estremo,

con risa e con gridi,

danzando e cantando,

irrompe il mio desiderio e irraggia

la sua letizia.

Nacque su le montagne eterne

la mia saggezza inumana,

su le montagne che stanno

vergini e sole

nel meriggio sereno,

nell'ardore solenne;

pregna divenne

su i culmini prossimi al Sole

la mia virtù selvaggia;

partorì su gli aridi macigni

il più giovine de' suoi figli».

 

Disse: «Nel deserto estremo,

nella fulva sabbia,

sotto la rabbia

del sole, duro, violento,

silenzioso,

avido di conoscenza come

il leone di nutrimento,

senza dio, senza nome,

senza spavento

e spaventoso,

con la volontà del leone,

con la fame del leone,

famelico, sitibondo,

infaticabile, padrone

del deserto e del mondo

fui, e delle mie forze segrete.

Inesprimibile e senza nome

quel che fu il tormento

e il giubilo dell'anima mia,

quel che fu la fame e la sete

dell'anima mia!».

 

Disse: «Le fonti attossicate,

i fuochi graveolenti,

i sogni corrotti

e i vermi nel pane della vita

son necessarii?

Non io la mia vita

mendicai a frusto a frusto,

ma esso il mio disgusto

mi diede le forze e l'ale

che presentivano le sorgenti

dei fiumi solitarii.

E per giorni e per notti,

di monte in monte,

oltre il bene, oltre il male,

senza sosta, senza sonno,

il mio volo robusto

cercò cercò la fonte

della gioia; e la trovò in sommo.

Avido nelle acque canore

s'abbeverò il mio cuore

ove arde la mia grande estate.

 

Il mio cuore, ove splende

l'estate, s'abbeverò nell'acque

gelide e n'ebbe gioia infinita.

Tutta la mia vita

fu un'alta speranza.

O miei fratelli, dove siete?

Accorrete, accorrete

alla gioia che v'attende.

Troppo si piacque

della pianura

la vostra virtù. Non è sete

quella ch'estinguono i ruscelli

garruli, quella che alla cisterna

empie l'otro e vi s'indugia.

Uditemi, o miei fratelli!

Poi ch'io bevvi alla fonte apparite,

tutta la mia vita

fu una speranza eterna,

tutti i miei pensieri

per mille varchi e mille sentieri

migrarono alla terra futura.

 

Oh venite, fratelli in angoscia,

perché io vi mostri

la sorgente ignota

nell'alba che si leva!

Scaturisce ella con troppa

veemenza e scroscia

così che la coppa

si riempie e si vuota.

V'insegnerò come si beve.

Venite a me! Lasciate gli egri

e i vili alla bassura.

Venite perché io vi rallegri,

fratelli, ne' cuori vostri.

Grande sarà l'estate su i monti

con gelide fonti

e silenzio infinito.

L'aquile ci porteranno il cibo

con i lor curvi rostri.

Vivremo come i vènti forti.

Negli occhi profondi

avremo la terra futura.

 

Venite a me col vostro amore

che non soccombe,

con la vostra sete

che non si placa, quanti siete

uomini che v'accresceste

di conoscimento e di dolore,

che la vita incideste

con la vostra vita dura,

che osaste abbattere le tombe

perché taluno risorgesse,

che seguiste il più aspro cammino

a cercar le vostre anime stesse,

che chiamaste il più crudo nemico

per guerreggiar la vostra guerra,

che santificaste nei perigli

le vostre inesorabili sorti,

venite a me su l'ultima altura!

Vivremo come i vènti forti.

Saremo fedeli alla terra,

fedeli alla terra dei figli,

fedeli alla terra futura».

 

Disse: «Il mio lavoro

fu la guerra, la mia pace

fu la vittoria.

La mia volontà fu sospesa

sul mio capo come una legge,

come una gloria,

come un nimbo d'oro.

In ogni impresa

il mio pensiere

fu la mia sola face.

Sdegnai di bere

dove bevve il gregge,

sdegnai di rimirare il cielo

oscurato dalla cava nube;

perch'io sapea che nella rupe

aerea tu eri, o sorgente

pura, o sorella dell'aria,

io sapea l'erta necessaria

per rimirarti, o cielo

pudico e ardente,

libertà, serenità d'oro.

 

O cielo su la mia testa

nuda, giocondo

abisso, gorgo

di luce, festa

del sole, o cielo senza

nube e senza tuono,

ecco la mia innocenza,

ecco che io risorgo

verso di te mondo

di ogni tabe e di ogni lebbra,

ecco che io sono

colui che afferma

e colui che benedice;

e per questo lottai su la terra,

per questo ebbi tanta guerra

tante armi tante ire:

per aver libere mani,

o serenità liberatrice,

miracolo d'oro sul mondo,

per avere un giorno le mani

libere a benedire!

 

E così benedico:

«Essere sopra ogni cosa

come il suo proprio cielo,

come il suo volubile tetto,

come la sua cerulea volta

e l'eterna sua pace». E felice

colui che benedice

così! Però che la sorgente

dell'eternità sia

il battesimale

fonte di tutte le cose,

oltre il bene, oltre il male;

e il bene e il male sien ombre

fuggitive; e su tutte le cose

unico si spanda il ridente

cielo delle sorti

misteriose;

e sia la terra una divina

tavola al divino

gioco degli iddii che tu porti,

Eternità, per colui che t'ama.

 

Però che io sia colui che t'ama,

o Eternità, colui che brama

il tuo anello eternale,

colui che vuole

da te il nuziale

anello del ritorno

e del divenire,

colui che ti chiama

al suo desire

ed al suo giorno,

o Eternità, per teco

generar la sua prole,

colui che fu cieco

per la possa del tuo sole

che a lungo ei mirò fiso,

colui che alfine ha un riso

vasto come un baleno

creatore sul mondo,

colui che ama il tuo seno,

il tuo seno profondo,

o Eternità, colui che t'ama!».

 

Così parlava l'Asceta.

Questa parola disse

colui che terribilmente visse

per la sua terribile mèta.

Così parlava

su la plebe schiava

su la moltitudine morta

colui che errò lunghi anni

pei labirinti fallaci,

per tutte le ambagi

dei secolari inganni,

e ritrovò la porta

antica della Vita bella.

Disse: «Insegno al cuore umano

una volontà novella».

Disse: «Insegno all'uomo non l'amore

del prossimo ma del più lontano,

del vertice ch'ei s'elegge.

Sia l'uomo la sua propria stella,

sia la sua legge e il vendicatore

della sua legge».

 

E il fiato impuro dell'uomo

lo soffocava; lo soffocava

il lezzo della bestia

inferma e vile.

Ed egli andava andava andava,

cupo ed ostile,

nell'aria gravida di tempesta,

emulo del lampo e del tuono,

ebro della sua guerra,

splendido della sua virtù, irto

de' suoi pensieri, tra i sogni grami

di mille e mille anime stanche.

E disse: «Il tuo spirto

e la tua virtù infiammino anche

la tua agonia, come il fuoco

del tramonto infiamma la terra.

Così voglio io morire

perché a causa di me tu ami,

o fratello, sempre più la terra;

così voglio io reddire

luminoso alla gran madre terra».

 

Ahi che dal Fato,

cui d'evento in evento

amò di così gagliardo

amore, non gli fu dato

morire nel combattimento,

morire alzato e pronto

al più difficile varco,

nell'atto di tendere l'arco

lucido ponderoso

per l'ultimo dardo,

il grande arco d'Ulisse,

quello dal nervo che garrisce

come la rondine messaggera,

quello che tende sol uno

contro la schiera

innumerevole! Ahi che il notturno

Fato l'oppresse a mezzo dell'opra!

Ed egli stette nell'ombra

senza mutamento,

immoto, vacuo, taciturno

come un cratère spento.

 

Poi, come l'acqua informe

colma i cratèri

immemori del fuoco pugnace,

la materia eguale

l'agguagliò nell'ombra infinita

e nei silenzii eterni

ove si celano le norme

del ritorno e del divenire,

ove tutte le forme

dell'essere s'aprono in misteri

ineffabili e la morte è vita

e la vita è morte.

O Verità redimita

di quercia, cantami la sua vita

e la sua morte

con la possa delle antiche lire!

Canta pei figli degli Ellèni

il Barbaro enorme

che risollevò gli iddii sereni

dell'Ellade su le vaste porte

dell'Avvenire!

 

Io lo canterò, io figlio

degli Ellèni, con una ode

ampia, di possente volo;

perché dissi, quando udii la voce

di lui solo io solo,

dal suo esiglio nel mio esiglio,

dissi: «Questi è il mio pari.

Questo duro Barbaro che bevve

una colma tazza dell'ardente

vin campàno ed ebro di dominio

e di libertà corse i mari

armoniosi agognando il suolo

ove l'uomo per la divina

etra incedeva al fianco del dio

ed entrambi erano Ellèni,

questi è il fratel mio.

Salutammo le rosse triremi

nelle acque di Salamina

nutrice di colombe;

portammo una corona alle tombe

di Maratona».

 

Dissi: «O Vita, egli non sa che vive

su le rive sonore

un figlio della florida stirpe.

Io nasco in ogni alba che si leva.

Io so io so come si beva,

o Vita. E chi t'amò su la terra

con questo furore?

Chi più larghe piaghe

s'ebbe nella tua guerra

e chi ferì con spade

di più sottili tempre?

Chi di te gioì sempre

come s'ei fosse per dipartirsi?

Ah tutti i suoi tirsi

il mio desiderio scosse

verso di te, o Vita

dai mille e mille vólti,

a ogni tua apparita,

come un Tìaso di rosse

Tìadi in boschi folti,

tutti i suoi tirsi!

 

Io nasco in ogni alba che si leva.

Ogni mio risveglio

è come un'improvvisa

nascita nella luce:

attoniti i miei occhi

mirano la luce e il mondo.

Egli non sa come sien pure

le mie pupille, o Vita,

mirando il cielo verecondo.

Egli non sa come trabocchi

il mio cuore, simile alla grande

fiumana. Che m'insegnerà egli,

o Vita.? Io so come si danzi

sopra gli abissi e come si rida

quando il periglio è innanzi,

e come si compie sotto il rombo

della tempesta l'opera austera,

e come si combatta con l'ugne

e col rostro, e come si uccide,

e come si tessan le ghirlande

dopo le pugne».

 

Ma riconobbi i suoi pensieri

fraterni come il navigatore

ansio riconosce i verzieri

d'Italia da lungi all'odore

che gli recano i vènti.

Il tuo sole, il tuo sole,

o Italia, colorò la sua fronte,

maturò la sua saggezza forte,

converse in oro

il ferro delle sue saette.

Il barbaro pellegrino

sotto il tuo cielo alcionio

apprese il canto dal coro

alato delle tue selve aulenti.

O Italia, egli bevve il vino

delle tue vigne ambrosio;

colse il miele de' tuoi favi meri,

le rose de' tuoi roseti

gravi di api e di colombe. I piedi

suoi divennero leggeri

su i prati di violette.

 

La serenità adamantina

che s'inarca su i ghiacciai dell'erme

Alpi placò la sua furia.

Gli proposero enimmi

le rupi che nel mar di Liguria

si protendono come sfingi

coronate di fiori.

Come un novo Erme

senza caducèo

egli portò su la sua spalla

Dioniso infante, nelle Terme

di Caracalla,

nel Fòro, nel Colossèo.

Come Eraclito nel tempio efesio,

egli meditò la sua dottrina

illuminato dagli ori

di San Marco nell'ombra marina.

E il fresco vento etesio

gonfiò la sua vela nei meriggi

d'estate, fra Sorrento e Cuma,

sul golfo ove il Vesuvio fuma.

 

Quivi, o triste ombra della greca

Antigone, anima profonda

che gli fosti custode

fedele nella notte cieca,

o sorella, quivi reca

il cadavere dell'eroe,

sul golfo lunato e grande

come l'arco ch'egli tese.

Gli alzeremo un tumulo grande,

un'altissima tomba,

dove le coste

sono più scoscese

e il flutto più rimbomba

nelle caverne più nascoste

con le eterne risposte

alle eterne domande.

Gli daremo ghirlande

d'ulivo selvaggio e, tra le accese

faci, libàmi come all'altare.

Gli canteremo in coro una ode

misurata al respiro del mare.

 

Canteremo: «Qui dorme,

nella sacra Italia, sul mare

delle Sirene, sul Mare

Nostro, in vista dell'arce cumèa

dove il figlio di Venere Enea

giunse recando i Penati

di Troia ed i Fati

di Roma, qui dorme,

in vista del fuoco distruttore

e creatore

che irrompe dal cuor della Terra,

vegliato dalle antiche Mire

figlie della Notte arbitre sole

della nascita e della morte,

o prole degli Ellèni,

qui dorme, placate le ire

dopo tanta guerra,

il Barbaro enorme

che risollevò gli iddii sereni

dell'Ellade su le vaste porte

dell'Avvenire».

 

 

 


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