F.N. XXV AGOSTO MCM
Disse al
cuore dell'uomo: «Quando
tu fervi,
o cuore, largo e pieno,
simile
alla grande fiumana,
beneficio
e periglio dei lidi,
quivi la
tua virtù s'inizia».
Disse:
«Nel deserto estremo,
con risa e
con gridi,
danzando e
cantando,
irrompe il
mio desiderio e irraggia
la sua
letizia.
Nacque su
le montagne eterne
la mia
saggezza inumana,
su le
montagne che stanno
vergini e
sole
nel
meriggio sereno,
nell'ardore
solenne;
pregna
divenne
su i
culmini prossimi al Sole
la mia virtù
selvaggia;
partorì su
gli aridi macigni
il più
giovine de' suoi figli».
Disse:
«Nel deserto estremo,
nella
fulva sabbia,
sotto la
rabbia
del sole,
duro, violento,
silenzioso,
avido di
conoscenza come
il leone
di nutrimento,
senza dio,
senza nome,
senza
spavento
e
spaventoso,
con la
volontà del leone,
con la
fame del leone,
famelico,
sitibondo,
infaticabile,
padrone
del
deserto e del mondo
fui, e
delle mie forze segrete.
Inesprimibile
e senza nome
quel che
fu il tormento
e il
giubilo dell'anima mia,
quel che
fu la fame e la sete
dell'anima
mia!».
Disse: «Le
fonti attossicate,
i fuochi
graveolenti,
i sogni
corrotti
e i vermi nel
pane della vita
son
necessarii?
Non io la
mia vita
mendicai a
frusto a frusto,
ma esso il
mio disgusto
mi diede
le forze e l'ale
che
presentivano le sorgenti
dei fiumi
solitarii.
E per
giorni e per notti,
di monte
in monte,
oltre il
bene, oltre il male,
senza
sosta, senza sonno,
il mio
volo robusto
cercò
cercò la fonte
della
gioia; e la trovò in sommo.
Avido
nelle acque canore
s'abbeverò
il mio cuore
ove arde
la mia grande estate.
Il mio
cuore, ove splende
l'estate,
s'abbeverò nell'acque
gelide e
n'ebbe gioia infinita.
Tutta la
mia vita
fu un'alta
speranza.
O miei
fratelli, dove siete?
Accorrete,
accorrete
alla gioia
che v'attende.
Troppo si piacque
della
pianura
la vostra
virtù. Non è sete
quella
ch'estinguono i ruscelli
garruli,
quella che alla cisterna
empie
l'otro e vi s'indugia.
Uditemi, o
miei fratelli!
Poi ch'io
bevvi alla fonte apparite,
tutta la
mia vita
fu una
speranza eterna,
tutti i
miei pensieri
per mille
varchi e mille sentieri
migrarono
alla terra futura.
Oh venite,
fratelli in angoscia,
perché io
vi mostri
la
sorgente ignota
nell'alba
che si leva!
Scaturisce
ella con troppa
veemenza e
scroscia
così che
la coppa
si riempie
e si vuota.
V'insegnerò
come si beve.
Venite a
me! Lasciate gli egri
e i vili
alla bassura.
Venite
perché io vi rallegri,
fratelli,
ne' cuori vostri.
Grande
sarà l'estate su i monti
con gelide
fonti
e silenzio
infinito.
L'aquile
ci porteranno il cibo
con i lor
curvi rostri.
Vivremo
come i vènti forti.
Negli
occhi profondi
avremo la
terra futura.
Venite a
me col vostro amore
che non
soccombe,
con la
vostra sete
che non si
placa, quanti siete
uomini che
v'accresceste
di
conoscimento e di dolore,
che la
vita incideste
con la
vostra vita dura,
che osaste
abbattere le tombe
perché
taluno risorgesse,
che
seguiste il più aspro cammino
a cercar
le vostre anime stesse,
che
chiamaste il più crudo nemico
per
guerreggiar la vostra guerra,
che
santificaste nei perigli
le vostre
inesorabili sorti,
venite a
me su l'ultima altura!
Vivremo
come i vènti forti.
Saremo
fedeli alla terra,
fedeli
alla terra dei figli,
fedeli
alla terra futura».
Disse: «Il
mio lavoro
fu la
guerra, la mia pace
fu la
vittoria.
La mia
volontà fu sospesa
sul mio
capo come una legge,
come una
gloria,
come un
nimbo d'oro.
In ogni
impresa
il mio
pensiere
fu la mia
sola face.
Sdegnai di
bere
dove bevve
il gregge,
sdegnai di
rimirare il cielo
oscurato
dalla cava nube;
perch'io
sapea che nella rupe
aerea tu
eri, o sorgente
pura, o
sorella dell'aria,
io sapea
l'erta necessaria
per
rimirarti, o cielo
pudico e
ardente,
libertà,
serenità d'oro.
O cielo su
la mia testa
nuda,
giocondo
abisso,
gorgo
di luce,
festa
del sole,
o cielo senza
nube e
senza tuono,
ecco la
mia innocenza,
ecco che
io risorgo
verso di
te mondo
di ogni tabe
e di ogni lebbra,
ecco che
io sono
colui che
afferma
e colui
che benedice;
e per
questo lottai su la terra,
per questo
ebbi tanta guerra
tante armi
tante ire:
per aver
libere mani,
o serenità
liberatrice,
miracolo
d'oro sul mondo,
per avere
un giorno le mani
libere a
benedire!
E così
benedico:
«Essere
sopra ogni cosa
come il
suo proprio cielo,
come il
suo volubile tetto,
come la
sua cerulea volta
e l'eterna
sua pace». E felice
colui che
benedice
così! Però
che la sorgente
dell'eternità
sia
il
battesimale
fonte di
tutte le cose,
oltre il
bene, oltre il male;
e il bene
e il male sien ombre
fuggitive;
e su tutte le cose
unico si
spanda il ridente
cielo
delle sorti
misteriose;
e sia la
terra una divina
tavola al
divino
gioco
degli iddii che tu porti,
Eternità,
per colui che t'ama.
Però che
io sia colui che t'ama,
o
Eternità, colui che brama
il tuo
anello eternale,
colui che
vuole
da te il
nuziale
anello del
ritorno
e del
divenire,
colui che
ti chiama
al suo
desire
ed al suo
giorno,
o
Eternità, per teco
generar la
sua prole,
colui che
fu cieco
per la
possa del tuo sole
che a
lungo ei mirò fiso,
colui che
alfine ha un riso
vasto come
un baleno
creatore
sul mondo,
colui che
ama il tuo seno,
il tuo
seno profondo,
o
Eternità, colui che t'ama!».
Così
parlava l'Asceta.
Questa
parola disse
colui che
terribilmente visse
per la sua
terribile mèta.
Così
parlava
su la
plebe schiava
su la
moltitudine morta
colui che
errò lunghi anni
pei
labirinti fallaci,
per tutte
le ambagi
dei
secolari inganni,
e ritrovò
la porta
antica
della Vita bella.
Disse:
«Insegno al cuore umano
una
volontà novella».
Disse:
«Insegno all'uomo non l'amore
del
prossimo ma del più lontano,
del
vertice ch'ei s'elegge.
Sia l'uomo
la sua propria stella,
sia la sua
legge e il vendicatore
della sua
legge».
E il fiato
impuro dell'uomo
lo
soffocava; lo soffocava
il lezzo
della bestia
inferma e
vile.
Ed egli
andava andava andava,
cupo ed
ostile,
nell'aria
gravida di tempesta,
emulo del
lampo e del tuono,
ebro della
sua guerra,
splendido
della sua virtù, irto
de' suoi
pensieri, tra i sogni grami
di mille e
mille anime stanche.
E disse:
«Il tuo spirto
e la tua
virtù infiammino anche
la tua
agonia, come il fuoco
del
tramonto infiamma la terra.
Così
voglio io morire
perché a
causa di me tu ami,
o
fratello, sempre più la terra;
così
voglio io reddire
luminoso
alla gran madre terra».
Ahi che
dal Fato,
cui
d'evento in evento
amò di
così gagliardo
amore, non
gli fu dato
morire nel
combattimento,
morire
alzato e pronto
al più
difficile varco,
nell'atto
di tendere l'arco
lucido
ponderoso
per
l'ultimo dardo,
il grande
arco d'Ulisse,
quello dal
nervo che garrisce
come la
rondine messaggera,
quello che
tende sol uno
contro la
schiera
innumerevole!
Ahi che il notturno
Fato
l'oppresse a mezzo dell'opra!
Ed egli
stette nell'ombra
senza
mutamento,
immoto,
vacuo, taciturno
come un
cratère spento.
Poi, come
l'acqua informe
colma i
cratèri
immemori
del fuoco pugnace,
la materia
eguale
l'agguagliò
nell'ombra infinita
e nei
silenzii eterni
ove si
celano le norme
del
ritorno e del divenire,
ove tutte
le forme
dell'essere
s'aprono in misteri
ineffabili
e la morte è vita
e la vita
è morte.
O Verità
redimita
di
quercia, cantami la sua vita
e la sua
morte
con la
possa delle antiche lire!
Canta pei
figli degli Ellèni
il Barbaro
enorme
che
risollevò gli iddii sereni
dell'Ellade
su le vaste porte
dell'Avvenire!
Io lo canterò,
io figlio
degli
Ellèni, con una ode
ampia, di
possente volo;
perché
dissi, quando udii la voce
di lui
solo io solo,
dal suo
esiglio nel mio esiglio,
dissi:
«Questi è il mio pari.
Questo
duro Barbaro che bevve
una colma
tazza dell'ardente
vin
campàno ed ebro di dominio
e di
libertà corse i mari
armoniosi
agognando il suolo
ove l'uomo
per la divina
etra
incedeva al fianco del dio
ed
entrambi erano Ellèni,
questi è
il fratel mio.
Salutammo
le rosse triremi
nelle
acque di Salamina
nutrice di
colombe;
portammo
una corona alle tombe
di
Maratona».
Dissi: «O
Vita, egli non sa che vive
su le rive
sonore
un figlio
della florida stirpe.
Io nasco
in ogni alba che si leva.
Io so io
so come si beva,
o Vita. E
chi t'amò su la terra
con questo
furore?
Chi più
larghe piaghe
s'ebbe
nella tua guerra
e chi ferì
con spade
di più
sottili tempre?
Chi di te
gioì sempre
come s'ei
fosse per dipartirsi?
Ah tutti i
suoi tirsi
il mio
desiderio scosse
verso di
te, o Vita
dai mille
e mille vólti,
a ogni tua
apparita,
come un
Tìaso di rosse
Tìadi in
boschi folti,
tutti i
suoi tirsi!
Io nasco
in ogni alba che si leva.
Ogni mio
risveglio
è come
un'improvvisa
nascita
nella luce:
attoniti i
miei occhi
mirano la
luce e il mondo.
Egli non
sa come sien pure
le mie
pupille, o Vita,
mirando il
cielo verecondo.
Egli non sa
come trabocchi
il mio
cuore, simile alla grande
fiumana.
Che m'insegnerà egli,
o Vita.?
Io so come si danzi
sopra gli
abissi e come si rida
quando il
periglio è innanzi,
e come si
compie sotto il rombo
della
tempesta l'opera austera,
e come si
combatta con l'ugne
e col
rostro, e come si uccide,
e come si
tessan le ghirlande
dopo le
pugne».
Ma
riconobbi i suoi pensieri
fraterni
come il navigatore
ansio
riconosce i verzieri
d'Italia
da lungi all'odore
che gli
recano i vènti.
Il tuo
sole, il tuo sole,
o Italia,
colorò la sua fronte,
maturò la
sua saggezza forte,
converse
in oro
il ferro
delle sue saette.
Il barbaro
pellegrino
sotto il
tuo cielo alcionio
apprese il
canto dal coro
alato
delle tue selve aulenti.
O Italia,
egli bevve il vino
delle tue
vigne ambrosio;
colse il
miele de' tuoi favi meri,
le rose
de' tuoi roseti
gravi di api
e di colombe. I piedi
suoi
divennero leggeri
su i prati
di violette.
La
serenità adamantina
che
s'inarca su i ghiacciai dell'erme
Alpi placò
la sua furia.
Gli
proposero enimmi
le rupi
che nel mar di Liguria
si
protendono come sfingi
coronate
di fiori.
Come un
novo Erme
senza
caducèo
egli portò
su la sua spalla
Dioniso
infante, nelle Terme
di
Caracalla,
nel Fòro,
nel Colossèo.
Come
Eraclito nel tempio efesio,
egli
meditò la sua dottrina
illuminato
dagli ori
di San
Marco nell'ombra marina.
E il
fresco vento etesio
gonfiò la
sua vela nei meriggi
d'estate,
fra Sorrento e Cuma,
sul golfo
ove il Vesuvio fuma.
Quivi, o
triste ombra della greca
Antigone, anima
profonda
che gli
fosti custode
fedele
nella notte cieca,
o sorella,
quivi reca
il
cadavere dell'eroe,
sul golfo
lunato e grande
come
l'arco ch'egli tese.
Gli
alzeremo un tumulo grande,
un'altissima
tomba,
là dove le
coste
sono più
scoscese
e il
flutto più rimbomba
nelle
caverne più nascoste
con le
eterne risposte
alle
eterne domande.
Gli daremo
ghirlande
d'ulivo
selvaggio e, tra le accese
faci,
libàmi come all'altare.
Gli
canteremo in coro una ode
misurata
al respiro del mare.
Canteremo:
«Qui dorme,
nella
sacra Italia, sul mare
delle
Sirene, sul Mare
Nostro, in
vista dell'arce cumèa
dove il
figlio di Venere Enea
giunse
recando i Penati
di Troia
ed i Fati
di Roma,
qui dorme,
in vista
del fuoco distruttore
e creatore
che
irrompe dal cuor della Terra,
vegliato
dalle antiche Mire
figlie
della Notte arbitre sole
della
nascita e della morte,
o prole
degli Ellèni,
qui dorme,
placate le ire
dopo tanta
guerra,
il Barbaro
enorme
che
risollevò gli iddii sereni
dell'Ellade
su le vaste porte
dell'Avvenire».