Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
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LIBRO SECONDO - ELETTRA

15 - Per la morte di un capolavoro

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15 - Per la morte di un capolavoro

 

Foreste su i monti, chiome fragorose

di oro di porpora e di croco

all'aquilone,

su l'aeree fronti

immense corone

che affoca il foco dei tramonti;

rosarii di rose

nate su i fonti solitarii

ancor tiepidi dell'Estate

che vi s'immerse;

orti, orti conclusi, pomarii

soavi cui l'Autunno pone

monili più gravi che quelli di Serse

poi che su le gemme celate

il bel garzone

ebro il pomo punico aperse;

 

voluttà della Terra, o fronde,

o fiori, o frutti,

gioia di tutti,

prole delle Stagioni sacre,

portento dell'Acqua e del Sole,

fronde, fiori, frutti,

ecco, ora nati, ora distrutti,

chi mai si duole

oggi di vostra bella morte?

quale corda piange vostri dolci lutti?

Vivono le profonde

radici nel buio attorte.

Ancóra brilleran felici

i ramicelli,

e il suco acre

si farà di miele nelle polpe bionde.

 

Ma la creatura infinita,

in cui la mente

dell'uom fatto dio

continuò l'opera della divina

Madre e trasfigurò la vita

sotto la specie dell'Eterno;

ma l'effigie pura

in cui l'uom solo nell'oblìo

di sé mutamente

svelò la virtù del dolore

sotto la specie dell'Eterno;

ma il mondo creato sopra la Natura,

ove con un gesto l'uom si fe' signore

del Fato e congiunse la sua forza antica

alla sua bellezza futura

sotto la specie dell'Eterno;

 

ma lo specchio dell'Ideale,

o Poeti, la misura degli Eroi,

la somma dell'Arte,

il vertice del Pensiero e del Mistero,

il segno visibile dell'Immortale

muore, o Poeti, non è più.

Perisce e non si rinnovella.

Da noi si diparte; non avrà ritorno.

S'oscura per sempre nella notte eguale.

Fronde fiori frutti nel sereno giorno

rivedremo noi,

la giovine Terra, la sua genitura,

e non l'infinita creatura bella!

Piangete, o Poeti, o Eroi,

per la luce che non è più,

per la gioia che non è più.

Umiliato è l'Universo.

Menomato è l'orgoglio delle sorgenti.

Un grande fiume è inaridito.

Un gran potere s'è disperso.

Nella memoria delle genti

resta la grandezza d'un nome

come il nome d'un mito

lontano, d'un cielo abolito,

d'un dio che parlò nel silenzio degli evi,

bianchissimo sopra le nevi,

vestito di sua verità.

O Poeti, Eroi, volontà

meravigliose della giovine Terra,

date il canto e il pianto,

sopra la guerra,

alla meraviglia che non rivivrà.

 

Culmine delle speranze sovrumane

alta anima senza compagna,

precinta isola dal dolore infinito,

solitudine dell'abisso,

occhio aperto e fisso

nell'interno mare

della Bellezza, ebbe Egli un nome per voi?

«Chi mangia il pane

con me, mi ha alzato contro le sue calcagna»

parlava ai suoi il signore del Convito;

e il pane azzimo involto nell'erbe amare

eragli innanzi, e la tristezza era immensa.

«In verità vi dico: quegli che bagna

la mano insieme a me nel piatto,

quegli mi tradirà.» E la man nell'atto

non tremava sopra la mensa.

 

Udiste voi queste parole?

Parlò per voi queste parole

Egli, il Galileo? Ben le udiste

dall'anima sua che fu triste

sino alla morte?

Ebbe per voi nome Gesù

Egli, e il giorno degli azzimi era

quello che risplendea dietro la sua testa?

Piangete, o Poeti, o Eroi,

per la fiamma che non è più,

per la gloria che non è più!

Era l'eterna primavera, la festa

d'ogni ritorno;

ed Egli era nel silenzio suo profondo

solo col cuor del mondo e con la sua sorte;

e gli uomini schiavi e tardi erangli intorno.

 

E disse Egli queste parole:

«Dove io vo, tu non puoi seguirmi».

Ah queste udimmo noi, fratelli,

antiche parole d'eroi

che sonarono verso tutte le cime

terribili, al nembo ed al sole,

per l'erte cui il sogno sublime

impresse vestigi che furon suggelli.

«Dove io vo, tu non puoi seguirmi

Udimmo; e non ebbe Egli nome

per noi; non lontanar dietro le sue chiome

vedemmo la rupe di Scizia o il Calvario;

non vedemmo la croce, né l'avvoltore.

Ma, solitario

tra la sua gente, era Egli sopra il dolore

Colui che annuncia che rivela e che inizia;

 

ed eglino erano gli schiavi

che non veggono e che non sanno,

schiavi eterni della forza e dell'inganno;

e la creatura dal viso

lene, che soleva adagiarglisi al petto

invincibile, il suo diletto

femineo giglio

reclinato, l'anima dalle soavi

labbra, quel sorriso che parve

quasi il minor fratello del suo dolore,

anche era distante.

Ed Egli era solo, il gran cuore

era solo, incluso nel petto

come in diamante.

E non eravi per lui padrefiglio,

e non amico, e non amante.

 

«Ah, chi mai lo consolerà

dicemmo noi nello spavento.

«Chi consolerà

Colui ch'ebbe a sé testimoni

il Sole, il Vento,

le sorgenti dei Fiumi, il riso

innumerevole delle onde marine,

la madre di tutte le cose, la Terra?

Chi mai lo consolerà nel supremo?

L'antico Oceano? Nicodemo

con gli aromi della Giudea?

Il canto delle Oceanine?

Il lamento delle pie donne?

Qual parola nata

dal sale del mare e del pianto

lenirà l'insonne

 

E noi leggemmo sol nel gesto

delle sue mani e nell'ombra de' suoi cigli:

«Non han le case degli uomini giacigli

per l'insonne, dov'egli giacersi voglia.

Non io m'arresto alla tua soglia.

Dove io vo, tu non puoi seguirmi.

La mia certezza canta nel mio sentiero

ed alza ai perigli colonne

trionfali sul limite degli abissi.

È il mio pensiero più che il giorno e il domani.

So come sia dolce grappoli vermigli

premere e bei capei prolissi;

so come sia dolce una foglia, e la gola

della colomba. Ma beni più lontani

cerco, e il silenzio. Non della mia parola

io m'inebrio, ma di quel che mai non dissi».

 

O puro Eroe, inalzato sopra il tempo

e sopra le favole umane,

o segno visibile dell'Immortale,

che vale ora il pane

che diviso t'è innanzi? Che vale il manto

che ti traveste, e il nome che ti fa santo

nelle preci vane,

e lo stuolo inquieto che ti circonda?

Ben lungi sei tu dall'altare frequente.

Terreno e celeste,

tu sei a te stesso il tuo tempio.

Ti creò dalla più profonda

verità del suo spirto, dal più bello

ardore della sua mente quel segreto

artefice che volle foggiarsi le ale

ad attingere un ciel novello.

 

A similitudine di sé ti volle

quegli ch'ebbe in sé la radice

ed il fiore della volontà perfetta

con tutto il travaglio del mare

e tutte le geniture della terra

e le virtù dei saggi e degli antichi iddii

e i gèrmini senza forma e senza nome,

le semenze delle bellezze future.

A similitudine di sé ti fece

quel Prometèo meditabondo

che immune fu dal supplizio, rapitore

inviolabile, modello del Mondo.

E tu vivesti, inspirato dal più forte

alito della sua bocca che nutrita

s'era alla plenitudine della vita

e della morte.

 

Vivesti solo su la cima

ultima della Conoscenza,

sol tu capace

di respirarvi, imperiale

come il sire della vita e della morte,

lungi agli uomini e pur sì presso a loro,

vedendo il male passare, la speranza

durare, la pace seguire alla guerra,

il sogno condurre il lavoro,

ma senza felicità e senza

corona perché tu sapevi

che nata non era dalle arti

umane la gioia onde avresti

tu potuto gioire e nato non era

dal sen della Terra l'alloro

onde tu avresti potuto incoronarti.

 

Ahi, che rimane oggi fra i cieli

e le tombe, nella notte ove s'oscura

la tua bellezza,

nella gente cui tu raggiavi

con la bellezza la tua muta dottrina,

nella patria divina ove Leonardo

ti fece misura d'eroi,

specchio dell'Ideale, norma dell'opre,

culmine delle speranze sovrumane,

or che rimane per l'ultimo tuo sguardo,

che mai ti si scopre se non allegrezza

d'irrisori ed onta di schiavi?

Il sole declina

come te, fra i cieli e le tombe.

Su l'ampia ruina

inane caligine incombe.

 

E tu così dunque per sempre ti parti

dai cuori cui fin la tua ombra

fu luce e il tuo segno fu gioia?

Ten vai tu forse nel prato d'asfodelo

sorridendo verso gli eguali?

Trapassi tu di dal velo

a contemplar le cose eterne

con fronte indicibile ed occhi immortali?

Chi verrà dietro la tua ombra?

Ah, per somigliarti

una volta, per esser degno

del tuo segno, innanzi ch'ei muoia

taluno di noi darà al rogo

l'error che l'ingombra!

E arderà l'anima sua pura in un atto

come in un lampo arde il potere di un cielo.

 

 

 


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