Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
L'allegoria dell'autunno
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Per la edizione inglese di «Cose viste» di Ugo Ojetti

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Per la edizione inglese
di «Cose viste» di Ugo Ojetti

Singolarmente mi piace che alcune tra le più sciolte e fresche pagine italiane d’oggi sieno tradotte nella prosa dell’investigatore Thomas Browne e dell’imaginatore Walter Pater da uno de’ miei legionarii stranieri: da voi, mio caro Henry Furst, che servendo la Causa bella apprendevate il linguaggio d’Italia nel più inconsueto dei modi. Ogni giorno l’azione era creata e condotta dalla parola. L’azione era costretta dalla parola in un disegno determinato e certo, contro ogni influsso o impulso o cecità di interni ed esterni eventi. Ogni giorno il medesimo uomo sapeva parlare di quel che aveva saputo operare, imprimendo all’azione lo stile; che non è se non la necessità divenuta luminosa e inviolabile. Il linguaggio non era la vanagloria dell’istoria ma la sostanza stessa dei fatti, la forza meditata ordinata e musicata della volontà.

Ve ne ricordate, o mio legionario da me educato ogni giorno a quella costanza nell’attenzione che un mio vecchio Toscano chiamava appunto «assiduità degli occhi»? Spesso l’atto si ritorce contro chi lo compie, più spesso anche si distorce dal proposto fine. Spesso lo sforzo abbuia la volontà che vi si tende. A me inafferrabile non occorreva e non occorre l’ammonimento che tuttavia mi piacque in quel tempo rappresentare ai forzatori di sorti nella disavventura del crotoniate Milone. Se costui a contrasto di polsi volle scindere il tronco già intaccato dal ferro ma si riserrarono le fibre dell’albero e gli imprigionarono le pugna, io sempre serbai libera e pronta la mia mano di scrittore; e quel che avevo operato sopra gli uomini, e quel che con la mia parola avevo suscitato negli uomini e strappato all’ignoto, io scrivevo ogni notte, io riduceva ogni notte a figure, da non potersi disfigurare. Sì che dalla vigilante azione lo scrittore notturno derivava due benefizii, inestimabili: una certa durezza propria alla incisione della materia dura, e la giustezza dei movimenti metrici nella prosa ferma esperimentati già con la voce «vana ne’ lievi venti».

Voi dunque, mio caro Henry Furst, novissimo traduttore, siete stato condotto, quasi direi da un istinto fiumano, verso uno scrittore che appunto la «assiduità degli occhi» arricchisce della più varia evidenza e del più diverso ritmo. Questo acuto veditore non cessa di stare in orecchi, come direbbe la concisione del Davanzati. Tutt’occhi e tutt’orecchi: la medesima concisione direbbe che è «tutto scettro» nello studio della vita. E lo scettro, se in man del re allontana i sudditi, avvicina sempre più il sincero artista agli uomini e alle cose. Ben di rado – mi sembra – un osservatore sagace ebbe tale arte di approssimarsi a ciò che vive e a ciò che non vive, a ciò che si esprime e a ciò che non sa esprimersi, a ciò che si muove si cangia si dissimula e a ciò ch’è immoto immutato leale. Molte di queste «cose viste» non soltanto sono rispecchiate ma interpretate. Il veditore è comprensore, il novellatore è intenditore. È chiaro come abbia di recente saputo con sì schietto calore celebrare il Tintoretto chi da questi appreso ha il modo pronto di distinguere l’essenziale nel lineamento, e di serrar nello scorcio il movimento. In quali altri maestri lo studioso può conoscere e noverare con tanta abbondanza gli ardiri e le certezze della maestria?

Dalla familiarità copittori Ugo Ojetti è indotto ad avvivar sempre la franchezza del suo tócco. Luigi Lanzi direbbe di lui che lavora «non tanto d’impasto quanto colpeggiando o di tócco». E il tócco è certo il più singolar modo di espressione in chi adopera il pennello o il burino o la penna. La franchezza e prestezza del tócco appunto gli consentono di trattare tanto numerose e dissimiglianti figure, di campeggiar per ciascuna tanto diversi campi. L’asperrimo scarpellatore invitto alle schegge, e l’aligero sogno del Vinci sopra il magno Cèceri ansioso di trasfigurazione; lo zazzerino polverulento di Teodoro Mommsen, e l’occhio glauco di Pierre Louys con le nudità di Tanagra nella pupilla dilatata dal farmaco; la cruda scrollata dell’armatura di Luigi Cadorna contro la zoppa ingiustizia, e la profonda agonia musicale di Giacomo Boni all’ombra della Niké pentelica; la parlatura iscolpita di Antonio Bourdelle ritto con salde calcagna con gomita tremanti dinanzi al sasso di Paolo di Giovanni, e la scrittura lapidaria del vecchio Michelagnolo «che non volle obbrigarsi a legge o antica o moderna…»

Così, tutt’occhi tutt’orecchi, il cronachista sa cogliere gli aspetti e gli accenti del suo tempo innumerevoli. E nel chiamarlo cronachista, vorrei anche chiamarlo «ymagier» a simiglianza di quel messer Gianni Froissart che, come lui, fa opera di pittore nel rappresentare il suo secolo: quel decimo quarto secolo dove, come nel nostro, si travagliano le decomposizioni e le natività, egualmente difficili, imputridiscono radici troppo vecchie e spuntano a fatica germi troppo nuovi, quel che fu annunciato s’indugia o dilegua e apparisce quel che è inatteso e intempestivo.

Anche il clerico di Valenciennes procede per tócchi a volta a volta larghi e minuti, facendoci pensare alla pittura grassa e sugosa dei suoi Fiamminghi o alle lane e alle sete miste dei panni d’arazzo o agli stessi miniatori che poi gli allumineranno i manoscritti. Anch’egli, tutt’occhi e tutt’orecchi, afforza e rinforza il suo senso del colore e il suo senso dell’accento nell’assiduità dell’attenzione. Anch’egli non si studia se non di sentire acutamente e di acutamente trasmettere «la vérité de la matière». Anch’egli è un maestro di ritratti, e un maestro di vocalizzazione. Come in alcuna prosa del Nostro, in alcuna di messer Gianni ci sembra di percepire una certa posa «che la voce fa sopr’una sillaba tra l’altre della parola». E in entrambi non di rado gustiamo quella «verdeur» del linguaggio che noi Italiani potremmo esattamente chiamare «verdore», se Caterina da Siena non usasse una diversa desinenza in un giro di parole non alieno dall’uno e dall’altro veditor profano. «Tanto la verdura sua si conserva e vale, quanto l’occhio del cognoscimento v’è dentroMesser Gianni Froissart ha recato «l’occhio del cognoscimento» sempre aperto e vigile ne’ più varii luoghi per la rosa de’ venti, come il Nostro: non solo cavalcando per la Francia della Senna della Garonna della Mosa ma per la Scozia e l’Olanda, seguendo a Bordò il Principe Nero, seguendo a Milano il Duca di Clarenza, visitando Bologna, Ferrara e Roma: quella Roma dove convergono ogni via e ogni mente, così ch’ella serba appunto il codice del primo libro delle «Chroniques» con le celebri emendazioni addizioni sottrazioni.

Maestro di concordanze, mio caro Henry Furst, ecco ch’io posso indicarvene un’altra singolarissima del nostro caso. Voi traslatate nella lingua d’Inghilterra il libro di uno scrittore che qui per vezzo io paragono a quegli che appunto recò a Londra il suo primo volume di prosa e l’offerì alla donna del terzo Edoardo, a quella regina Philippe de Hainault che un par mio smanioso di italianare chiamerebbe Filippa della Nalda rifacendosi da un’antica foggia di vesti passata di Fiandra in Toscana. E in Inghilterra trascorse messer Gianni il suo tempo migliore, cosicché parve il paese prediletto e quasi patria seconda ne’ suoi pellegrinaggi fino all’ultimo approdo quando ancor s’inchinò in Eltham a Riccardo per offerirgli un bel libro miniato par la grâce de Dieu et d’Amour. Ma già, dopo ventisette anni d’assenza, mutato era il cuore, inseverito il giudizio e inasprito. Tante cose viste vanivano, tante cose udite si disperdevano. L’istoria diveniva polvere e vento. All was vanity, feeding the wind, and folly, scriverà quel Thomas Browne che sul principio m’era nella memoria. The Egyptian mummies, which Cambyses or time hath spared, avarice now consumeth. Mummy is become merchandise; Mizraim cures wounds, and Pharaoh is sold for balsams…

Ma che importa? O mio buon legionario Henry Furst, , in vista del Carnaro prono, vi avvenne di udire piangere, come mille e mille e mille uomini, la sovrumana bellezza da me formata. Parve che il mare amaro di Veglia di Arbe di Pago di Uglian s’agguagliasse al ciglio del popolo per piangere il pianto delle rive riperdute. E, nel crudele meriggio, le lagrime non rilucevano. E tutto fu vano.

Che importa? Voi vedeste, Henry Furst, come la più ardente face si possa spegnere nel sangue e nel pianto con uno stridore di lucignolo, con un filo di squallido fumo.

Rimane l’alta volontà scritta, rimane il gran disegno inciso, rimane l’ignuda testimonianza dell’arte massima.

Non trascurate dunque di mandarmi o di recarmi la vostra traslazione, testo senza miniature alla mia solitudine senza regalità.

La vostra maniera di apprendere la più nobile delle lingue classiche difendendo con me la città del consumato Amore, è tanto insolita che certo io ne troverò qualche straordinario segno nel vostro sforzo di voltare una prosa viva senza perderne una stilla di vita.

Or mentre attendo, con la mano nella mia opera novella e forse estrema, perché ripenso io al poeta dell’Urna greca e di Endimione, che giovine morì di tristezza dove io giovine vissi di gioia? Non so perché io ripensi il pensiero e risoffra l’angoscia di John Keats nel giorno portentoso, or è cento dieci anni, quando la bruma di Londra fu a miracolo irradiata dai marmi di Elgin tra il Barco e il Tamigi annitrendo i cavalli di Elio e di Selene.

Il Vittoriale: 27 ottobre 1927.



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