Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
L'allegoria dell'autunno
Lettura del testo

A Francesco de Pinedo

«»

Link alle concordanze:  Normali In evidenza

I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio

A Francesco de Pinedo

Quando i due scafi del tuo velìvolo oceanico si calarono nelle acque del Benàco portandomi la tua dritta amicizia in prua, io nella ghiaia della riva avevo lo spirito tanto sollevato dalle forze della tua compiuta impresa, e quasi ampliato dagli spazii del tuo respiro, e inasprito dall’asprezza de’ tuoi stessi travagli, ch’ebbi sùbito a disdegno i testimonii del nostro incontro. E desiderai, chinando l’occhio fiso ai ciottoli, dalla simiglianza deducendo una imagine di sogno, desiderai di ritrovarmi teco in quella deserta sterilità, più spettrale d’una landa selenite, non solcata se non dalle carreggiate dei torrenti aridi, non corrugata se non da rupi ferrugigne, che tu scopristi nel divergere dal corso del Rio Grande, commesso alla tua intrepidezza per fede e alla tua bussola per ponente.

Te ne ricordi? Ma i veri e grandi prodigi non appariscono se non nello spirito, non avvengono se non nel profondo. E tu in te li conosci, o Francesco fratello che la bontà di Giovanni Pascoli chiamerebbe «minore e maggiore», d’anni minore, maggiore di possa. Intorno alla stretta delle nostre mani, al battito de’ nostri cuori non fu solitudine come sopra le Montagne rocciose o sopra l’Inferno verde?

Certo tu ti ricordi con quanta durezza io mostrai il mio cruccio, su per l’erta del Vittoriale, contro gli applausi da teatri, contro il clamore da circhi, contro il trepestio da comizii. Mi pareva che sol convenisse il silenzio raccolto e intento a onorare l’eroe di terre lontane, di mari lontani, di patimenti e di accorgimenti senza numero. Ma la barbarie governa ancóra il costume, anche latino. La foglia di quercia per te, le foglie di quercia d’olivo di lauro per me son celate in quell’avvenire ch’è più folto e più fosco d’una foresta del tuo Matto Grosso: celate ma certe.

Scrolliamo le spalle, come quando ci liberammo del volgo varcando la soglia e richiudendo la porta. Facciamo di due belle ansie una sola pace severa, come quando entrammo nell’Oratorio dalmatico; dove il leone esule di Arbe ha la mascella serrata contro il sommo del petto gonfio, dove l’acqua memoriale dell’Adriatico è verdastro fiele nell’ampolla di Zara la Santa.

Te ne ricordi? Per la prima volta rivedevi la tua elice crociata, quella dei cinquantacinquemila chilometri, sospesa al palco della stanza, costellata e raggiata d’oro fra pala e pala, con il tuo nome e le tre date più gloriose inscritti nel nero legno, con la corona alare incisa intorno all’asse. Tacita e immota era la divina forma di «quell’astro d’aria nell’aria». Il rombo, non udibile, era soltanto in noi che non parlavamo. Ben sapevo che era in te, sopra te, come quando con l’istinto infallibile e con la fallibile bussola facesti rotta per la città di Matto Grosso sul Rio Guaporè e guardasti dall’alto quell’abbarbicato oceano che giammai occhio d’uomo avea conosciuto; dove l’unico limite ti era un’altra immensità: quella dell’altipiano di Bolivia bianco di cascate come l’Alpe è di ghiacciai, quasi offerente all’avidità del tuo fuoco tutte le urne e le tazze della terra.

Caro Francesco, la più nova e pura espressione della mia arte non mi vale quel nostro colloquio senza parole, ch’io non saprò trasmettere se non all’armonia della mia agonia.

Eravamo seduti negli scanni, tra lo zàino che serra la mia bandiera del Timavo e il cofano che chiude la bandiera della nave «Puglia».

E veramente io ti vidi come ti vedeva l’uomo del motore dal suo posto, in volo sopra l’Atlantico.

E in me sempre così ti vedo, pur di dal tuo sano riso e dalla tua schietta piacevolezza di compagno: – con la destra al volante, con la manca alla cintola, con lo sguardo tanto vigile che l’acume della pupilla al cristallo dello schermo, con la bocca serrata, col labbro di sotto avanzante il labbro di sopra, al pari di quell’Alighiero ch’io ti mostrai riscolpito da non so qual Buonarroto nel sasso di Manerba. E la mia poesia imagina che il tuo mento finga il conio dell’ignoto periglio, la bietta che senza indugi strigne o fende.

E mi tornava allora nella memoria e ora mi ritorna alcuna parola del Vinci: «sempre starà al centro della sua magnitudine».

Poi ci levammo. Nella Biblioteca del Galeone, ci soffermammo dinanzi al mappamondo sferico dove in una lontana sera tu m’avevi indicato sicuramente per quali punti disegnavi «dirizare il temone alli tua cammini»; ché anche allora il Vinci con alcuna parola era a noi prossimo «sanza battimento d’alie», e io mi pensavo che al tuo secondo o al tuo terzo velìvolo tu fossi per dare il nome di Leonardo. Te ne ricordi? «Del monte, che tiene il nome del grande uccello, piglierà il volo il famoso uccello, ch’enpierà il mondo di sua gran fama

Con il medesimo indice mi segnasti le stupende linee del volo intrapreso e compiuto contro la fortuna, contro la fuggevole bagascia che «di retro è calva».

Il modello veneto della nave da guerra e da mercanzia pendeva su le nostre teste. E io, che come te sono aviatore e marinaio, non seppi dinanzi a te frenare la mia allegrezza quasi puerile nel noverar contro la fortuna i tuoi strumenti di bordo: le ancore galleggianti, le brache di cavo d’acciaio, il distillator d’acqua salsa, la lampada di segnale, la breve attrezzatura di vele, le bitte le gomene i canapi per ormeggiarsi. Dicevo contraffacendo col riso Leonardo che non sapeva ridere: «Ricòrdatisi come il tuo ucello non debbe imitare altro che il navicello, in aria e in aqua

E discendemmo nella Loggia del Parente; dove alla sobria mensa, ricchissima di vasellami, eravamo attesi da compagni che non superavano il numero delle Càriti.

E, come ricorreva il centenario di Nicolò Machiavelli, mi piacque di parlar contro la fortuna; e arditamente te l’augurai avversa pur nella tua impresa novella. E ti onorai non senza eloquenza, piacendo a me tu come al Fiorentino piaceva Agatocle siciliano che nel suo mirabile corso nulla mai dovette alla fortuna ma tutto a sé medesimo: tutto alla sua sagacia, alla sua audacia, alla sua costanza, alla sua premeditazione, alla sua preveggenza, alla sua disciplina, alla sua arte: all’arte di resistere, d’insistere, di vincere.

Te ne ricordi? Ti chiesi, in quell’ora, a te seduto fra il Torso di Belvedere e il Duca pensoso io chiesi l’onore di porre in principio del tuo libro eroico una mia interpretazione della tua gesta.

E il tuo libro è già stampato da quell’Ulrico Hoepli che ha dato e l’esempio annoso della più sagace costanza. E il mio proemio non è scritto!

Non a te, non al paziente Ulrico io chiedo perdono. D’essere imperdonabile mi glorio.

Ieri ti dissi, e ne’ tuoi occhi aquilini la tua amicizia si velò di sogno; ti dissi: «Quando nel volare sul Guaporè incontrasti una schiera di condori, e stavi attentissimo a prua per manovrare in modo da non investirli, forse non t’accorgesti ch’io era un d’essi e che con il taglio della tua ala mi spezzasti l’ala destra: il dito grosso dell’alia

Ecco che mi mancano il dito grosso e la penna sottile.

Ma certo sovviene alla tua indulgenza la tua stessa condizione in Guaiarà Mirim, quando fradicio di pioggia, sfiancato di fame, bisognoso di lavarti e di riposarti, dovesti udire la discorsa cerimoniale coprendo le tue miserie col gran guarnaccone impermeabile della spietatissima Autorità. Né bastò la discorsa; ché fosti costretto a udire e patire nella baracca teatrale la pungente musica delle zanzare, o compagno di cotidiani supplizii.

Per ammenda il mio proemio divien comentario: l’ala di francesco de pinedo contro la ruota della fortuna: piccolo libro aggiunto al tuo gran libro, ma pignus et monimentum amoris.

Comentar voglio la consanguinità dell’uomo e dello strumento, prendendo a motivo le tue parole nella pagina dell’incendio: «Mi pareva che bruciasse la mia carne

Così, o marinaio, mi parve che si lacerasse la mia carne e si fendesse la mia anima quando – or è poche settimanesentii squarciato dagli scogli del Cammin de’ Frati il mio guscio di Buccari.

E tu m’intendi come io t’intendo «all’altezza della parte mia più lieve».

Ieri, nella Pinacoteca di Brera, mi fermai a guardare l’aquila disegnata con la sanguigna da Simone di Pesaro. Nel Castello sforzesco tralasciai le galline e le anitre di Angelo Maria Crivelli.

Milano: 14 decembre 1927.



«»

IntraText® (VA2) Copyright 1996-2013 EuloTech SRL