Ove sono i
cavalli del Sole
criniti di
furia e di fiamma?
le code
prolisse
annodate
con liste
di
porpora, l'ugne
adorne di
lampi
su l'aride
ariste?
Ove l'aie
come circhi
le trebbie
come pugne,
come
atleti la rustica prole?
Ove sono i
cavalli del Sole
disgiunti
dal carro celeste?
Ove le
sferze sonanti,
le rèdine
lunghe sbandite,
il tinnir
dei metalli,
il brillar
delle madide groppe?
Ove gli
urli, ove i canti, ove i balli?
Ove la
femmina bella
coperta di
loppe e di reste
come d'ori
e di gemme?
Ove gli
scherni, le risse,
le nude
coltella,
il sangue
che fuma e che bolle,
il giovine
ucciso che cade
nelle sue
biade
asperse
del suo ricco sangue
e del vin
suo vermiglio?
Ove il tuo
nume, o Dionìso,
e il tuo
riso e il tuo furore
e il tuo
periglio?
Qui scarsa
mèsse
per
piccole vite,
aia
angusta, fatica molle,
mani
prudenti, fievoli gole.
O Maremme,
o Maremme,
bellezza
immite
nata dalla
Febbre e dal Sole,
o regni
diurni di Dite,
voi
l'anima mia sogna!
O Roma, o
Roma, la prima
davanti
alla faccia del Sole,
incombustibile
forza,
semenza di
gloria,
unica nata
dal solco
del
violento
ardua
spica opima,
te l'anima
mia sogna ed agogna
in un mar
di frumento,
dal Cimino
solitario
ai
vitiferi colli dei Volsci,
fino a
Minturno ov'erra
nel limo l'ombra
di Mario,
fino a
Sinuessa
ebra di
Massico forte,
fino alle
auree porte
della
Campania promessa,
in un mar
di frumento
innumerevole
come le
trionfate stirpi
dalla tua
guerra!
O arce
della Terra,
nel
dipartirmi
da te, al
cospetto dell'Agro
ebbi
presagio cruento
che
m'infiammò d'amore
più novo e
gagliardo
per tutte
le tue are
e per
tutte le tue tombe.
Vidi campo
di rossi
papaveri
vasto al mio sguardo
come letto
di strage,
come
flutto ancor caldo
sgorgato da
una ecatombe.
Non mai
più fervente rossore
veduto
avean gli occhi miei grandi,
e tutta la
mia vita tremava
dalle
radici
come s'io
mi svenassi
sul sacro
tuo suolo
con vene
giganti.
E l'anima,
che si dipartiva,
impetuosamente
verso di
te si rivolse, incesa
da dolor
rovente
ch'ella
udì stridere come
tizzo in
piaga viva;
e tutta
verso di te protesa
era,
gridando il tuo nome
al fulgor
vermiglio,
dal carro
strepitoso
che la
traeva in esiglio.
E
intollerabile male
tra tutti
i suoi mali
a lei
parve la sua dipartita;
sentì la
sua vita
spoglia
d'ogni forza e senz'ali,
pallida e
senza riposo
piegata su
l'acre ferita,
ahi, mirò
sé stessa lontana.
O Toscana,
o Toscana,
dolce tu
sei ne' tuoi orti
che lo
spino ti chiude
e il
cipresso ti guarda;
dolce sei
nelle tue colline
che il
ruscello ti riga
e l'ulivo
t'inghirlanda.
E una dura
virtude
certo
nelle tue torri commise
e murò per
la guerra civile
le pietre
forti;
e carca di
grandi morti
tu sei ne'
tuoi sculti sepolcri,
o
Fiorenza, o Fiorenza,
giglio di
potenza,
virgulto
primaverile;
e certo
non è grazia alcuna
che vinca
tua grazia d'aprile
quando la
valle è una cuna
di fiori
di sogni e di pace
ove
Simonetta si giace.
Ma cuna
dell'anima mia
è il solco
del carro stridente
nella
pietra dell'Appia via.
A piè del
Celio infrequente,
sotto la
Porta Capena
gemere udì
l'Acqua Marcia
che
abbevera l'Urbe affocata.
Si mosse
di là fra le tombe
e i lauri,
fra la Morte che guata
e la
Gloria che perde le frondi,
ai colli d'Alba
giocondi.
Lasciò
dietro sé le molli ombre;
più non
vide la lunga catena
rosseggiar
degli acquedutti;
non vide
la fresca Preneste;
sdegnò di
Tuscolo i frutti,
d'Aricia
la selva serena;
s'affrettò
alla spiaggia tirrena
ove dura
fervente
la bava
delle tempeste,
alle
reggie di Circe funeste
ove urtò
d'Odisseo la carena.
Anelante
al deserto di luce
ove fuma
vapor che avvelena
e rapisce
gli spirti errabondi,
scoperse
la candida rupe
onde Anxur
pendente
nella
truce canicola incombe
allo
stagno mortifero e al Mare.
Appia via,
cammino solare
incontro
all'Austro rapido-ardente,
Appia via,
dalla Porta Capena
cui la
recondita vena
geme
l'assidua stilla,
ove condurrai
tu la mia
anima
impaziente
che
d'avidità risfavilla?
Non qui la
mia messe è mietuta.
A mietere
l'alta mia mèsse
mille
falci indefesse
travagliarono
solco per solco,
dall'aurora
al tramonto,
per nove
aurore
e per nove
tramonti,
in terra
sconosciuta.
E s'udiva
in ogni meriggio
venir
dagli orizzonti
infiammati
la voce
e il tuono
di Pan sopra a noi.
E ululava
la torma feroce:
«O Pan,
aiuta, aiuta!»
E per la
stoppia i buoi
candidi,
aggiogati ai plaustri
contra le
biche manomesse,
mugghiavano
di spavento.
O Pan,
dammi il mio frumento,
dammi
l'oro della mia mèsse
australe e
la furia degli Austri
libici e
la furia dei cavalli
dall'ugne
adorne di lampi!
Non qui
non qui ebbi i miei campi,
non qui
ebbi i miei plaustri,
ma nel
grande Lazio tirreno,
fino a
Minturno,
fino a
Sinuessa,
nella
terra ebra di Massico
nella terra
ebra di Cècubo,
a Fondi
lacustre,
ad Amicle
marina,
ad Ardea
danaèia
ov'arde il
sangue di Turno,
e su la
curva spiaggia nomata
dalla
nutrice eneia,
di qua dal
rapace Volturno,
e presso
lo stagno taciturno
pingue di
calami e d'ulve
ove il
Latino il lauro vige
tra le
spiche fatte più fulve,
e ad Anzio
amor del pirata
e della
Fortuna crudeli
e del
crudele Imperatore,
e a Ostia,
nella sacra bocca
del Tevere
irta di prore
gonfia di
vele
ingombra
de' lunghi granai.
Ovunque
falciai e trebbiai
nel grande
Lazio tirreno,
alle porte
dell'Urbe e al confine
estremo,
fra il Tevere e il Liri,
in ogni
più fertile plaga.
Ma a te
vanno i miei sospiri,
a te,
ombra del Monte Circèo
letifera
come il veleno
e il carme
dell'avida maga
che tenne
l'insonne
piloto re
d'Itaca Odisseo
nel letto
dall'alte colonne.
Quivi
ancor regna nel Monte
l'Iddia
callida, figlia del Sole;
e spia dal
palagio rupestro,
tra sue
stellate pantere
e sue
tazze attoscate di suchi.
Gemon
prigioni i suoi drudi,
bestiame
del suo piacere,
cui ella
tocca la fronte
con verga
e susurra parole.
E i suoi
pastori astati, prole
dell'Evia
e del Centauro
generata
nell'ora dell'estro,
di bronzea
pelle, di pel sauro,
prole
furibonda,
quivi
sotto gettano rauco
ululo su
la palude
e pungono
il negro armento
dalle code
nude,
i bufali,
irosi mostri
profondati
nel lutulento
pascolo
che s'inselva di corna.
E, quando
aggiorna,
tutta la
palude ansa e soffia
per le
froge e per le fauci emerse,
occhiuta
di mille occhi torvi;
e l'acqua
putre gorgoglia
e bulica
occlusa dall'erbe
cui
sradica il piè bisulco,
mentre
nube di corvi
sinistra
offusca e assorda l'aria
ove passa
in silenzio mortale
la Febbre
velata di nebbia.
Quivi io
farò la mia trebbia,
quivi
batterò la mia mèsse
in un'area
vasta
come campo
per oste schierata.
Ove sono i
cavalli del Sole
criniti di
furia e di fiamma?
le code
prolisse
annodate
con liste
di
porpora, l'ugne
adorne di
lampi
su l'aride
ariste?
Ove le
sferze sonanti,
le rèdine
lunghe sbandite,
il tinnir
dei metalli,
il brillar
delle madide groppe?
Ove gli
urli, ove i canti, ove i balli?
Ecco, al
tripudio, ecco i cavalli!
Chi li
conduce?
Ecco le
sferze, ecco i crotali,
i cimbali
cavi-sonori
che vince
il rombo dei cuori,
le femmine
scalze-succinte
ebre di
luce,
i giovini
possa-di-tori
ebri di
strepito.
Ecco il
fiore del sangue latino.
Ecco gli
otri gonfi di vino.
Ecco la
sapa dolce a mescere.
Ecco
l'arido pane che asseta.
Ecco la
tazza di creta,
foggia
antica e ne' secoli bella,
ampia come
bucranio,
rosea come
mammella.
Ecco tutto
il tripudio!
Versate i
manipoli
sul suol
vulcanio,
versate
dal plaustro
accline i
manipoli
come da
cornucopia.
Tutta la
terra è roggia
più che
sinopia
agli occhi
torbidi.
Il vento
turbina,
suscita
polvere in vortici.
Versano i
plaustri
nell'aia
l'oro stridulo.
L'oro
s'accumula.
Dispare il
suolo igneo
sotto la
congerie
innumerevole.
Sola una
bica, solo un aureo
monte è la
grande area.
Tutto il
Lazio è una stoppia
che arde e
solvesi in cenere
da
Sinuessa massica
fino a
Roma romùlea.
Sola una
bica, solo un aureo
monte è la
grande area;
e i cavalli
l'ascendono.
Scalpita,
scalpita!
O Roma,
questo è il monte di Cerere
madre di
Prosèrpina,
questo è
il monte della Magna Madre
che navigò
pel Tevere.
I cavalli
terribili
erti su
l'unghia solida
l'ascendono,
l'assaltano.
Scalpita,
scalpita!
Crollano i
manipoli
sotto
l'urto, si spezzano
i culmi,
si sgranano
le spiche,
le ariste stridono,
le loppe
volano.
Scalpita,
scalpita!
Le sferze
schioccano,
per l'aere
guizzano
come le
folgori.
Come le
gómene
della nave
in pericolo
sotto la
ràffica,
si tendono
le rèdine.
Gli umani
polsi battono,
tremano i
muscoli,
si
gonfiano le arterie.
chi osa
reggere
la forza
degli Alipedi?
Balzano,
s'impennano
le fiere,
vèrberano
l'aere,
col ferro quadruplice
i cumuli
dirompono.
Le code
intonse inarcansi,
le
criniere svèntolano
come
vessilli vividi,
le nari
spirano
fiamma,
gli occhi si rigano
di sangue,
i fianchi pulsano,
le vene si
palesano,
per
l'ampie groppe rivoli
di sudore
fluiscono,
nella
schiuma dei difficili
freni
brilla l'iride.
Scalpita,
scalpita!
Tutto il
fuoco dell'anima
ferina
esalasi
nell'impeto
e nell'ànsito
par
circonfondere
gli acri
corpi madidi,
sul sudor
fremere
come
un'ala invisibile.
Svegliasi
nei rapidi
cuori
l'anelito di Pègaso
verso il
cammin sidereo?
Scalpita,
scalpita!
Il vento
turbina,
agita in
nugoli
vani le
spoglie spìcee.
Tutto
l'aere è volatile
oro, per
ove le candide
e negre e
saure
e maculate
groppe splendono,
per ove
passano
i gridi
rauchi,
gli
schiocchi, i sibili,
l'urto dei
crotali,
il
tintinnìo dei cimbali,
il mugghio
delle bufale,
il riso
delle femmine
umane che
Libero èccita.
Ma il
cielo dilatasi
muto e
solenne sul tripudio;
lungi si
tace il Mare Infero
ove il
figlio di Venere
dall'alta
prora iliaca
gridò:
«Italia! Italia!»
E l'ombra del
re d'Itaca,
l'ombra
dell'antico nauta
esperto
degli uomini e dei pelaghi,
guata
dalla magica
rupe se il
Fato ferreo
lui anco
chiami a vincere
un più
grande pericolo.
O Forza, o
Abondanza, o Vittoria,
voi
all'opera terrestre auspici
siete e
testimonii!
Tutto di
voi s'illumina
il grande
Lazio. In purpureo
lume il
giorno cangiasi.
Il vento
chiude i suoi turbini.
L'aere la
terra pènetra.
Par nelle
cose nascere
una vita
indicibile,
però che i
prischi numi italici,
subitamente
reduci
dall'ombra
delle Origini,
nella
gleba rivivano,
nell'acqua
nell'erba nella silice,
e laggiù,
entro la reggia
del re
Latino figlio
di Marica
e di Fauno,
rinverdiscasi
il Lauro
che fu
sacro ad Apolline
Febo pria
che il vedovo
di Creusa
da Ilio
venisse
per congiugnersi
con
Lavinia vergine fertile.
O
prodigio! O metamorfosi!
Su la
grande area,
quadrata
come la saturnia
Urbe nel
nascere,
la
calpesta messe al par d'occidua
nuvola
s'imporpora.
Scalpita,
scalpita!
E i
cavalli son rosei
splendenti,
come se nell'intimo
sangue una
sùbita
aurora
accendasi
e per i
fumidi
fianchi
trasparir veggasi.
S'ergono e
di roseo
fuoco il
petto e il ventre splendono,
ove s'intrecciano
le tumide
vene come
d'edera
intrichi
per iperborei còrtici.
Fiammei
spiriti
dalle
narici esalano.
Scalpita,
scalpita!
Or senton
gli uomini
che un divin
numero
modera
l'impeto
dei
solidunguli.
O
prodigio! O metamorfosi!
Ecco, le
ali titanie,
le solari
penne, le lucifere
piume,
infaticabili
flagelli dell'Etere
diurno,
atefici
della
rapidità precìpite,
cui le
trame dei muscoli
contro le
dure scapule
parean
constringere,
ecco,
ecco, si liberano
si
spiegano s'allargano.
Nell'oro e
nella porpora
aperte
palpitano
le ali, le
ali apollinee.
Il vento
ch'elle muovono
solleva il
cuor degli uomini
come un
peàn che càntino
per sacri
intercolumnii
cetere a
miriadi.
Io Peàn!
Io Peàn! Gloria
al Maestro
dell'Opere,
allo
Specchio degli Uomini,
al Titan
dalla rutila chioma,
al Re
delle alate parole,
al Duce
dei cori eliconii!
O Forza,
Abondanza, Vittoria,
e tu,
Genio che mai non si doma,
voi
siatemi qui testimonii.
Calpestano
i cavalli del Sole
il rinato
frumento di Roma.