Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Laudi
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LIBRO TERZO - ALCYONE

11 - Ditirambo I - Romae frugiferae dic

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11 - Ditirambo I - Romae frugiferae dic

 

Ove sono i cavalli del Sole

criniti di furia e di fiamma?

le code prolisse

annodate con liste

di porpora, l'ugne

adorne di lampi

su l'aride ariste?

Ove l'aie come circhi

le trebbie come pugne,

come atleti la rustica prole?

Ove sono i cavalli del Sole

disgiunti dal carro celeste?

Ove le sferze sonanti,

le rèdine lunghe sbandite,

il tinnir dei metalli,

il brillar delle madide groppe?

Ove gli urli, ove i canti, ove i balli?

Ove la femmina bella

coperta di loppe e di reste

come d'ori e di gemme?

Ove gli scherni, le risse,

le nude coltella,

il sangue che fuma e che bolle,

il giovine ucciso che cade

nelle sue biade

asperse del suo ricco sangue

e del vin suo vermiglio?

Ove il tuo nume, o Dionìso,

e il tuo riso e il tuo furore

e il tuo periglio?

 

Qui scarsa mèsse

per piccole vite,

aia angusta, fatica molle,

mani prudenti, fievoli gole.

O Maremme, o Maremme,

bellezza immite

nata dalla Febbre e dal Sole,

o regni diurni di Dite,

voi l'anima mia sogna!

O Roma, o Roma, la prima

davanti alla faccia del Sole,

incombustibile forza,

semenza di gloria,

unica nata dal solco

del violento

ardua spica opima,

te l'anima mia sogna ed agogna

in un mar di frumento,

dal Cimino solitario

ai vitiferi colli dei Volsci,

fino a Minturno ov'erra

nel limo l'ombra di Mario,

fino a Sinuessa

ebra di Massico forte,

fino alle auree porte

della Campania promessa,

in un mar di frumento

innumerevole

come le trionfate stirpi

dalla tua guerra!

 

O arce della Terra,

nel dipartirmi

da te, al cospetto dell'Agro

ebbi presagio cruento

che m'infiammò d'amore

più novo e gagliardo

per tutte le tue are

e per tutte le tue tombe.

Vidi campo di rossi

papaveri vasto al mio sguardo

come letto di strage,

come flutto ancor caldo

sgorgato da una ecatombe.

Non mai più fervente rossore

veduto avean gli occhi miei grandi,

e tutta la mia vita tremava

dalle radici

come s'io mi svenassi

sul sacro tuo suolo

con vene giganti.

E l'anima, che si dipartiva,

impetuosamente

verso di te si rivolse, incesa

da dolor rovente

ch'ella udì stridere come

tizzo in piaga viva;

e tutta verso di te protesa

era, gridando il tuo nome

al fulgor vermiglio,

dal carro strepitoso

che la traeva in esiglio.

E intollerabile male

tra tutti i suoi mali

a lei parve la sua dipartita;

sentì la sua vita

spoglia d'ogni forza e senz'ali,

pallida e senza riposo

piegata su l'acre ferita,

ahi, mirò sé stessa lontana.

 

O Toscana, o Toscana,

dolce tu sei ne' tuoi orti

che lo spino ti chiude

e il cipresso ti guarda;

dolce sei nelle tue colline

che il ruscello ti riga

e l'ulivo t'inghirlanda.

E una dura virtude

certo nelle tue torri commise

e murò per la guerra civile

le pietre forti;

e carca di grandi morti

tu sei ne' tuoi sculti sepolcri,

o Fiorenza, o Fiorenza,

giglio di potenza,

virgulto primaverile;

e certo non è grazia alcuna

che vinca tua grazia d'aprile

quando la valle è una cuna

di fiori di sogni e di pace

ove Simonetta si giace.

Ma cuna dell'anima mia

è il solco del carro stridente

nella pietra dell'Appia via.

A piè del Celio infrequente,

sotto la Porta Capena

gemere udì l'Acqua Marcia

che abbevera l'Urbe affocata.

Si mosse di fra le tombe

e i lauri, fra la Morte che guata

e la Gloria che perde le frondi,

ai colli d'Alba giocondi.

Lasciò dietro sé le molli ombre;

più non vide la lunga catena

rosseggiar degli acquedutti;

non vide la fresca Preneste;

sdegnò di Tuscolo i frutti,

d'Aricia la selva serena;

s'affrettò alla spiaggia tirrena

ove dura fervente

la bava delle tempeste,

alle reggie di Circe funeste

ove urtò d'Odisseo la carena.

Anelante al deserto di luce

ove fuma vapor che avvelena

e rapisce gli spirti errabondi,

scoperse la candida rupe

onde Anxur pendente

nella truce canicola incombe

allo stagno mortifero e al Mare.

 

Appia via, cammino solare

incontro all'Austro rapido-ardente,

Appia via, dalla Porta Capena

cui la recondita vena

geme l'assidua stilla,

ove condurrai tu la mia

anima impaziente

che d'avidità risfavilla?

Non qui la mia messe è mietuta.

A mietere l'alta mia mèsse

mille falci indefesse

travagliarono solco per solco,

dall'aurora al tramonto,

per nove aurore

e per nove tramonti,

in terra sconosciuta.

E s'udiva in ogni meriggio

venir dagli orizzonti

infiammati la voce

e il tuono di Pan sopra a noi.

E ululava la torma feroce:

«O Pan, aiuta, aiuta

E per la stoppia i buoi

candidi, aggiogati ai plaustri

contra le biche manomesse,

mugghiavano di spavento.

O Pan, dammi il mio frumento,

dammi l'oro della mia mèsse

australe e la furia degli Austri

libici e la furia dei cavalli

dall'ugne adorne di lampi!

Non qui non qui ebbi i miei campi,

non qui ebbi i miei plaustri,

ma nel grande Lazio tirreno,

fino a Minturno,

fino a Sinuessa,

nella terra ebra di Massico

nella terra ebra di Cècubo,

a Fondi lacustre,

ad Amicle marina,

ad Ardea danaèia

ov'arde il sangue di Turno,

e su la curva spiaggia nomata

dalla nutrice eneia,

di qua dal rapace Volturno,

e presso lo stagno taciturno

pingue di calami e d'ulve

ove il Latino il lauro vige

tra le spiche fatte più fulve,

e ad Anzio amor del pirata

e della Fortuna crudeli

e del crudele Imperatore,

e a Ostia, nella sacra bocca

del Tevere irta di prore

gonfia di vele

ingombra de' lunghi granai.

 

Ovunque falciai e trebbiai

nel grande Lazio tirreno,

alle porte dell'Urbe e al confine

estremo, fra il Tevere e il Liri,

in ogni più fertile plaga.

Ma a te vanno i miei sospiri,

a te, ombra del Monte Circèo

letifera come il veleno

e il carme dell'avida maga

che tenne l'insonne

piloto re d'Itaca Odisseo

nel letto dall'alte colonne.

Quivi ancor regna nel Monte

l'Iddia callida, figlia del Sole;

e spia dal palagio rupestro,

tra sue stellate pantere

e sue tazze attoscate di suchi.

Gemon prigioni i suoi drudi,

bestiame del suo piacere,

cui ella tocca la fronte

con verga e susurra parole.

E i suoi pastori astati, prole

dell'Evia e del Centauro

generata nell'ora dell'estro,

di bronzea pelle, di pel sauro,

prole furibonda,

quivi sotto gettano rauco

ululo su la palude

e pungono il negro armento

dalle code nude,

i bufali, irosi mostri

profondati nel lutulento

pascolo che s'inselva di corna.

E, quando aggiorna,

tutta la palude ansa e soffia

per le froge e per le fauci emerse,

occhiuta di mille occhi torvi;

e l'acqua putre gorgoglia

e bulica occlusa dall'erbe

cui sradica il piè bisulco,

mentre nube di corvi

sinistra offusca e assorda l'aria

ove passa in silenzio mortale

la Febbre velata di nebbia.

 

Quivi io farò la mia trebbia,

quivi batterò la mia mèsse

in un'area vasta

come campo per oste schierata.

Ove sono i cavalli del Sole

criniti di furia e di fiamma?

le code prolisse

annodate con liste

di porpora, l'ugne

adorne di lampi

su l'aride ariste?

Ove le sferze sonanti,

le rèdine lunghe sbandite,

il tinnir dei metalli,

il brillar delle madide groppe?

Ove gli urli, ove i canti, ove i balli?

 

Ecco, al tripudio, ecco i cavalli!

Chi li conduce?

Ecco le sferze, ecco i crotali,

i cimbali cavi-sonori

che vince il rombo dei cuori,

le femmine scalze-succinte

ebre di luce,

i giovini possa-di-tori

ebri di strepito.

Ecco il fiore del sangue latino.

Ecco gli otri gonfi di vino.

Ecco la sapa dolce a mescere.

Ecco l'arido pane che asseta.

Ecco la tazza di creta,

foggia antica e ne' secoli bella,

ampia come bucranio,

rosea come mammella.

Ecco tutto il tripudio!

Versate i manipoli

sul suol vulcanio,

versate dal plaustro

accline i manipoli

come da cornucopia.

Tutta la terra è roggia

più che sinopia

agli occhi torbidi.

Il vento turbina,

suscita polvere in vortici.

Versano i plaustri

nell'aia l'oro stridulo.

L'oro s'accumula.

Dispare il suolo igneo

sotto la congerie

innumerevole.

Sola una bica, solo un aureo

monte è la grande area.

Tutto il Lazio è una stoppia

che arde e solvesi in cenere

da Sinuessa massica

fino a Roma romùlea.

Sola una bica, solo un aureo

monte è la grande area;

e i cavalli l'ascendono.

Scalpita, scalpita!

O Roma, questo è il monte di Cerere

madre di Prosèrpina,

questo è il monte della Magna Madre

che navigò pel Tevere.

I cavalli terribili

erti su l'unghia solida

l'ascendono, l'assaltano.

Scalpita, scalpita!

Crollano i manipoli

sotto l'urto, si spezzano

i culmi, si sgranano

le spiche, le ariste stridono,

le loppe volano.

Scalpita, scalpita!

Le sferze schioccano,

per l'aere guizzano

come le folgori.

Come le gómene

della nave in pericolo

sotto la ràffica,

si tendono le rèdine.

Gli umani polsi battono,

tremano i muscoli,

si gonfiano le arterie.

chi osa reggere

la forza degli Alipedi?

Balzano, s'impennano

le fiere, vèrberano

l'aere, col ferro quadruplice

i cumuli dirompono.

Le code intonse inarcansi,

le criniere svèntolano

come vessilli vividi,

le nari spirano

fiamma, gli occhi si rigano

di sangue, i fianchi pulsano,

le vene si palesano,

per l'ampie groppe rivoli

di sudore fluiscono,

nella schiuma dei difficili

freni brilla l'iride.

Scalpita, scalpita!

Tutto il fuoco dell'anima

ferina esalasi

nell'impeto e nell'ànsito

par circonfondere

gli acri corpi madidi,

sul sudor fremere

come un'ala invisibile.

Svegliasi nei rapidi

cuori l'anelito di Pègaso

verso il cammin sidereo?

Scalpita, scalpita!

Il vento turbina,

agita in nugoli

vani le spoglie spìcee.

Tutto l'aere è volatile

oro, per ove le candide

e negre e saure

e maculate groppe splendono,

per ove passano

i gridi rauchi,

gli schiocchi, i sibili,

l'urto dei crotali,

il tintinnìo dei cimbali,

il mugghio delle bufale,

il riso delle femmine

umane che Libero èccita.

 

Ma il cielo dilatasi

muto e solenne sul tripudio;

lungi si tace il Mare Infero

ove il figlio di Venere

dall'alta prora iliaca

gridò: «Italia! Italia

E l'ombra del re d'Itaca,

l'ombra dell'antico nauta

esperto degli uomini e dei pelaghi,

guata dalla magica

rupe se il Fato ferreo

lui anco chiami a vincere

un più grande pericolo.

O Forza, o Abondanza, o Vittoria,

voi all'opera terrestre auspici

siete e testimonii!

Tutto di voi s'illumina

il grande Lazio. In purpureo

lume il giorno cangiasi.

Il vento chiude i suoi turbini.

L'aere la terra pènetra.

Par nelle cose nascere

una vita indicibile,

però che i prischi numi italici,

subitamente reduci

dall'ombra delle Origini,

nella gleba rivivano,

nell'acqua nell'erba nella silice,

e laggiù, entro la reggia

del re Latino figlio

di Marica e di Fauno,

rinverdiscasi il Lauro

che fu sacro ad Apolline

Febo pria che il vedovo

di Creusa da Ilio

venisse per congiugnersi

con Lavinia vergine fertile.

O prodigio! O metamorfosi!

Su la grande area,

quadrata come la saturnia

Urbe nel nascere,

la calpesta messe al par d'occidua

nuvola s'imporpora.

Scalpita, scalpita!

E i cavalli son rosei

splendenti, come se nell'intimo

sangue una sùbita

aurora accendasi

e per i fumidi

fianchi trasparir veggasi.

S'ergono e di roseo

fuoco il petto e il ventre splendono,

ove s'intrecciano le tumide

vene come d'edera

intrichi per iperborei còrtici.

Fiammei spiriti

dalle narici esalano.

Scalpita, scalpita!

Or senton gli uomini

che un divin numero

modera l'impeto

dei solidunguli.

O prodigio! O metamorfosi!

Ecco, le ali titanie,

le solari penne, le lucifere

piume, infaticabili

flagelli dell'Etere

diurno, atefici

della rapidità precìpite,

cui le trame dei muscoli

contro le dure scapule

parean constringere,

ecco, ecco, si liberano

si spiegano s'allargano.

Nell'oro e nella porpora

aperte palpitano

le ali, le ali apollinee.

Il vento ch'elle muovono

solleva il cuor degli uomini

come un peàn che càntino

per sacri intercolumnii

cetere a miriadi.

Io Peàn! Io Peàn! Gloria

al Maestro dell'Opere,

allo Specchio degli Uomini,

al Titan dalla rutila chioma,

al Re delle alate parole,

al Duce dei cori eliconii!

O Forza, Abondanza, Vittoria,

e tu, Genio che mai non si doma,

voi siatemi qui testimonii.

Calpestano i cavalli del Sole

il rinato frumento di Roma.

 

 

 


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