Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
L'allegoria dell'autunno
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Per Ruggero Maroni

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Per Ruggero Maroni
Al popolo di Riva

Miei fratelli di Riva, e d’oltre il Sarca, e d’oltre il Ponale,

troppo mi tremerebbe la voce se oggi potessi parlarvi, se avessi la forza di condurre il feretro del mio giovine compagno serrando intiero il mio dolore nel mio cuore di combattente. Ma oggi l’intrepidezza non mi vale.

Più volte io approdai a Riva con la mia sottile nave da guerra, col mio guscio armato di Bùccari; e sempre mi parve, in una maniera ineffabile, sempre mi parve di approdare al vostro amore col mio amore.

Anche più volte sorvolai con la mia ala il Pretorio e la Rocca, quasi rasente, tanto ch’io potessi vedere chino dalla mia prua le vostre fronti alzate; e sentivo sul mio viso un soffio che non era il croscio del volo.

Perché dunque dalla vicinanza e dalla presenza non nacque la pacata consuetudine? perché ogni volta il tumulto della passione mi squassava le mie radici di uomo italiano, come quando primamente nel quarto mese della guerra volai sopra il Trentino?

V’era un patto di sangue, allora, fra voi e me. Persiste fra voi e me un patto ideale. E se questo patto doveva esser percosso, come solevan dire i Latini, per rimanere in perpetua fermezza, non poteva esser percosso da più alto segno.

Se percosso è il patto, ancor più fieramente percosso è il mio animo. La parte migliore di me è oggi presso la spoglia di Ruggero Maroni; e la miglior parte di voi, la più schietta valenza della vostra gente, del popolo vostro, rivelata è oggi dal sacrifizio e dalla morte.

Questo costruttore, o Rivani, come il suo fratello superstite, come Giancarlo il ferito superstite, è della razza che interpretò e trapassò l’ardire di Giacomo Cis nel lottare contro la rupe invitta, nello scalfirla con la punta del palo ferrato, nel diromperla col piccone a taglio, nell’incavare il primo solco, e nell’approfondirlo allargarlo agguagliarlo, e nel perseverare nel perseverare nel perseverare, nel ridare il filo al ferro il nerbo al braccio la lena al polmone, in piedi sul pendio ripido, su la ruga scabra, su la sporgenza vertiginosa, senza credere al pericolo, senza misurare il precipizio, senza scrutare l’abisso, testimoniando – in ogni giorno in ogni ora in ogni attimo – che la morte è la vittoria della vita.

Mors victoria vitae: grande parola, ben compresa e onorata ed esercitata nel Vittoriale degli Italiani.

Ruggero Maroni era un esempio costante. Era a me esempio: a me che mi sono sforzato – in pace e in guerra – di dare l’esempio, non altro, senza curare la gloria e il potere. Nella perfezione della disciplina egli era andato oltre, m’aveva egli sorpassato. Lo riconosco, con non umile sincerità; lo riconosco e dichiaro.

Dal primo all’ultimo giorno, dalla prima accoglienza all’ultimo commiato, egli condusse il suo cómpito col medesimo fervore, col medesimo vigore, con la medesima sagacia, con la medesima diligenza. Lavoratore silenzioso, egli compiva con lene semplicità la cosa più difficile. La sua parola era concisa come il suo disegno. La sua volontà era bene squadrata come le sue pietre e le sue travi. Aveva saputo dimenticare il suo nome in guerra, combattendo come un uomo della sua terra per la sua terra, scrollando le spalle a ogni proposta o promessa di ricompensa, egli eroe vero e taciturno in più d’un episodio ammirabile, egli che ben sapeva come nessun chiaro segno valga l’oscurità di un petto intrepido. Così, nel cooperare alla elevazione di questo parlante Reliquiario e di questo vegliante Sepolcreto, egli aveva voluto cancellare il suo nome e superar sé stesso nella sua fede di continuo rinnovata, nel suo amore di continuo aumentato. «Maestro di pietre vive» soleva io chiamarlo, come chiamavo e chiamo il suo fratello superstite. Magister de vivis lapidibus, come fu chiamato alcuno edificatore di Duomo.

I lavoratori della vostra razza non si coricarono, non si riposarono, sinché la scalfittura nella rupe non doventò solco, finché il solco non doventò trincea, finché la trincea non doventò sentiero, finché il sentiero non doventò la strada del Ponale aperta agli uomini e alle bestie, ai carri e alle some, offerta alla volontà e all’impeto, alla gioventù e all’avvenire.

Ruggero Maroni, già róso dal male, non si concedeva tregua, non respiro. Sempre in piedi, maravigliosamente dissimulava il suo male; celava il suo patire. Chiuso eroe, indomito nella midolla, tollerava l’intollerabile, conciliava l’inconciliabile: trasmutava il pensiero della morte in arte vittoriosa.

L’occhio mio stesso, che vede tanto a dentro, non riesciva a penetrare nel fondo della sua devozione eroica, della sua dedizione senza misura e senza figura; ché la ferma chiarezza del suo sguardo si affisava nel mio, quasi egli potesse ricreare a sé dalla sua luce interiore un volto immune da ogni traccia di duolo.

Quando la sua forza d’improvviso crollò di dal limite umano, egli aveva tuttora nelle mani scarne gli strumenti dell’opera. Uomini di Riva, poiché non cadde egli ucciso nel campo della battaglia, cadde nel campo della sua opera, con egual severità, con eguale splendore.

E confessarvi mi ardisco il mio primo pensiero nell’alba funebre: «Dove può dunque aver sepoltura e culto questo giovine maestro esemplare se non nel mio colle sacro, se non in una delle undici arche destinate ai miei compagni d’arme unanimi, , presso Italo Conci trentino, presso Beppi Piffer trentino

O fratelli, il colle è in vista di quella nave fatale che egli venerava ed amava: in vista di quell’Altare dalmatico ove con la mia fede s’inchinava la sua fede, senza preghiere.

L’antichissima lapide murata nell’atrio del vostro Pretorio attesta che instituito era in Riva della Tribù Fabia un collegio di nocchieri.

O Rivani, ho voluto che, precedendo le elette mie maestranze, recasse al feretro i miei lauri il nocchiero della nave di Tomaso Gulli «insanguinata e non vendicata».

E questo nocchiero si chiama Vincenzo Cama, quasi inviato alla custodia dell’Altare da un non cieco destino; poiché in un arcano linguaggio d’Asia la parola Cama significa Amore.

Deliberate dunque, fratelli.

Qualunque sia per essere il luogo del sepolcro, Ruggero Maroni è vivente in me: nobiltà aggiunta a nobiltà.

Inchinato accoglierò la deliberazione dell’Amore.

Nell’alba del 12 di gennaio, 1928.

Gabriele d’Annunzio



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