Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
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LIBRO QUARTO - MEROPE

1 - La canzone d'oltremare

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1 - La canzone d'oltremare

 

I miei lauri gettai sotto i tuoi piedi,

o Vittoria senz'ali. È giunta l'ora.

Tu sorridi alla terra che tu predi.

 

Italia! Dall'ardor che mi divora

sorge un canto più fresco del mattino,

mentre di te l'esilio si colora.

 

Oggi più alta sei che il tuo destino,

più bella sei che la tua veste d'aria;

e di lungi il tuo vólto è più divino.

 

Odo nel grido della procellaria

l'aquila marzia, e fiuto il Mare Nostro

nel vento della landa solitaria.

 

Con tutte le tue prue navigo a ostro,

sognando la colonna di Duilio

che rostrata farai d'un novo rostro.

 

E nel cuore, oh potenza dell'esilio,

il nome tuo m'è giovine e selvaggio

come nel grido delle navi d'Ilio.

 

Italia! Italia! Non fu mai tuo maggio,

nella città del Fiore e del Leone

quando ogni fiato era d'amor messaggio,

 

novo come questa tua stagione

maravigliosa in cui per te si canta

con la bocca rotonda del cannone.

 

Questa è per te la primavera santa

che - dice il dio - «d'ogni semenza è piena

e frutto ha in sé che di non si schianta».

 

Oggi nova tu sei per ogni vena

sopra l'oblìo dell'onta; e nelle Sirti

ucciderai l'ultima tua sirena.

 

Come vivremo, o bella, per servirti?

come morremo, o fior delle contrade,

perché tu c'inghirlandi de' tuoi mirti?

 

Del miglior sangue fa le tue rugiade

e serba la promessa d'Oriente,

se il paradiso è all'ombra delle spade.

 

Siamo cinti d'oblìo. Siamo una gente

fresca e spedita, immemore dei giorni

squallidi, paziente e impaziente,

 

immemore dei sonni e degli scorni

quand'ella mendicava il suo preconio

dal ciompo, tempestando il pan ne' forni,

 

e la pace era femmina da conio

che per ruffian s'avea qualche Bonturo

e un Zanche per mezzano al mercimonio.

 

Giorni senz'alba, il rullo del tamburo,

lo squillo della tromba, e questa sorte

che turbina alle soglie del futuro,

 

vi disperdono. Tuonanoforte

le volontà, che nella rossa aurora

non s'ode il crollo delle cose morte.

 

Ecco il giorno, ecco il giorno della prora

e dell'aratro, il giorno dello sprone

e del vomere. O uomini, ecco l'ora.

 

È venuta col rombo del tifone

pel Mar Mediterraneo, più fiera

che l'astro su la spalla d'Orione,

 

più colorata che la messaggera

della Celeste. E al grido «Issa! Issa

già tutta l'aria è sola una bandiera.

 

Emerge dalle sacre acque di Lissa

un capo e dalla bocca esangue scaglia

«Ricòrdati! Ricòrdati!» e s'abissa.

 

E il Mar Mediterraneo, che vaglia

le stirpi alla potenza ed alla gloria,

in ogni flutto freme la battaglia.

 

«Ch'io mi discalzi» dice la Vittoria,

simile a grande mietitrice albana,

fosca sotto la fronda imperatoria

 

«Ch'io mi discalzi presso la fiumana

di Rumia bella, dove il suo meandro

nutre l'olivo a Pallade romana.

 

Ch'io pieghi e chiuda un ramo d'oleandro

in Lebda, nella cuna di colui

che suggellò la tomba d'Alessandro.

 

Ch'io m'abbeveri dove già fui,

non per l'umide argille alla caverna

onde il Lete discende i regni bui,

 

ma per l'aride sabbie alla cisterna

di Roma, che nell'ombra una silente

linfa conserva e una memoria eterna.

 

Con me, con me verso il Deserto ardente,

con me verso il Deserto senza sfingi,

che aspetta l'orma il solco e la semente;

 

con me, stirpe ferace che t'accingi

nova a riprofondar la traccia antica

in cui te stessa ed il tuo fato attingi,

 

con me dove chi combatte abbica,

perché nella corona io ti connetta

la foglia della quercia con la spica!

 

Se tu mi veda oggi nell'armi eretta

sopra la prua, tu mi vedrai domani

da presso curva al suolo che t'aspetta,

 

quando pacata come i Decumani

acerrimi, con nude ambe le braccia,

tu rempierai di semi le tue mani.

 

Troppo vegliai, avverso la minaccia

del sonno e della febbre, in Ostia morta,

volta al limo del Tevere la faccia,

 

tra gli stipiti alzati della Porta

Marina dove a vespero s'aduna

luce fatale dalle pietre assorta,

 

io sola con l'anelito, se alcuna

ombra d'iddio scorgessi o udissi entrare

nella foce la Nave e la Fortuna.

 

Ah, se tanto vegliai sul limitare

terribile, ch'io dorma un sonno lene

e breve, sotto l'Arco d'oltremare!

 

Ch'io sogni il greco sogno di Cirene,

sotto l'Arco del savio Imperatore

sgombro della barbarie e delle arene,

 

schiuso al Trionfo, mentre dalle prore

splende la pace in Tripoli latina,

recando i dromedarii un sacro odore.

 

O incenso del Deserto alla marina,

profumo delle incognite contrade

fulvo come la giubba leonina;

 

aròmati e metalli, armenti e biade,

e Berenice dalla chioma d'oro!

Il paradiso è all'ombra delle spade.

 

La palma è la sorella dell'alloro

Dice la grande Vergine che squilla

simile a Clio nel grande aonio coro.

 

E per noi dalla libica Sibilla,

sotto il cielo voltato dal Titano,

la sentenza di Dio si disigilla.

 

Preparate l'aratro cristiano,

preparate la falce per la mèsse,

il frantoio e la macina al Soldano,

 

l'ascia il piccone e il palo ch'ei dilesse,

i gran magli e le macchine forbite

simili a moltitudini indefesse;

 

i forni vasti come le meschite

pel ferro dissepolto, le magone

ov'aspro strida nell'assidua lite;

 

le fornaci per cuocere il mattone

dei costruttori, in cui porrem l'impronta

che piacque a Nerva: Roma col timone.

 

Ogni tristezza dietro a noi tramonta.

Chi latra ancóra nella lorda fossa,

quando il fato con l'anima s'affronta?

 

Italia, alla riscossa, alla riscossa!

Ricanta la canzone d'oltremare

come tu sai, con tutta la tua possa,

 

come quando sorgeva sopra il mare

in sangue e in fuoco un sol clamor selvaggio

«Arremba! Arremba!» e ne tremava il mare,

 

scrosciando la galèa, preso il vantaggio

e infisso il cuor del capitano al rostro,

con le vele e coi remi all'arrembaggio.

 

«Dienai', Dienai' e 'l Signor nostro!

Dienai', Dienai' e 'l San Sepolcro

cantava la galèa sul Mare Nostro.

 

Nel croscio de' tuoi secoli io t'ascolto.

«Dienai', Die n'aìti in mare e in terra

Alza nel grido il tuo raggiato vólto,

 

e in terra e in mare tieni la tua guerra.

 

 

 


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