Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
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LIBRO QUARTO - MEROPE

4 - La canzone dei trofei

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4 - La canzone dei trofei

 

O Pisa, or tu sei vedova del mare,

che stavi notte e per tener fronte

in Tersanaia a fare, a racconciare,

 

quando un bando di Chìnzica o di Ponte

valeva a trarre in corso dai sessanta

scali ben unti le galere pronte!

 

Pende dal muro la catena infranta

nel chiostro dove Andrea pinse Rinieri

e i tuoi morti fiorìan la terra santa.

 

La Porta a Mare è triste. Ma pur ieri

nel tuo Vescovo il cor di Daiberto

balzò, verso i trofei de' Cavalieri.

 

O Salerno, nel duomo dove offerto

ti fu da Gian di Procita l'avorio

e l'oro sovra i marmi di Ruberto,

 

nell'ombra dove il settimo Gregorio

grandeggia, non fanal di capitana,

non stendardo d'emiro pel mortorio,

 

non insegna, non spoglia musulmana

hai, che tu orni in nome de' tuoi grandi

al tuo giovine eroe la coltre vana?

 

Non egli è su la bara che inghirlandi;

ma tu lo vedi, quasi fosse apparso.

E lo chiami per nome e l'addimandi.

 

Verginità del primo sangue sparso!

Ne bevano le sabbie un più gran flutto;

ma pur quel primo che sembròscarso

 

risplenderà sul giubilo e sul lutto

più vermiglio e più fervido a Colei

che sa pianger gli eroi con viso asciutto.

 

O Gaeta, se in Sant'Erasmo sei

a pregar pe' tuoi morti, riconosci

il Vessillo di Pio ne' tuoi trofei,

 

toglilo alla custodia perché scrosci

come al vento di Lepanto tra i dardi

d'Ali, mentre sul molo tristi e flosci

 

sbarcano i prigionieri che tu guardi

e che non puoi mettere al remo. O Cagliari,

i quattrocento archibusieri sardi,

 

che Don Giovanni d'Austria alla battaglia

sotto il Vessillo nella sua Reale

s'ebbe per incrollabile muraglia,

 

hanno veduto verso il mare australe

ardere il fuoco sopra Teulada

e nella sera accorrono al segnale;

 

ché vien pel mare d'Africa e dirada

l'ombra con la bellezza della morte

un che fu degno della lor masnada.

 

Egli ha per buon compagno, o Carloforte

che il ferro e il fuoco sai del predatore

e la sferza e la stanga e le ritorte,

 

un de' tuoi figli che nel suo furore

se ne sovvenne e, per i mille schiavi

di quel settembre, ebbe di mille il cuore.

 

Marinai, marinai, sopra le navi

e dentro le trincere, a bordo e a terra,

in ogni rischio e con ogni arme bravi,

 

fatti dalla tempesta per la guerra,

nel silenzio mirabili e nel grido,

infaticati sempre, a bordo e a terra,

 

di voi s'irraggi e palpiti ogni lido

d'Italia mentre per la mia più grande

Italia qui la vostra gloria incido.

 

Non le piagge che adorna di ghirlande

amare il flutto ove le sue melodi

Undulna dea dal piè d'argento scande,

 

ma oggi loderò con le mie lodi

l'acqua oleosa lungo le banchine

sonanti per gli imbarchi e per gli approdi,

 

l'acqua opaca ove colan le sentine

e nuotano i tritumi del carbone,

le fecce dei cavalli, le farine

 

delle sacca sventrate, il bariglione

rotto, la buccia putrida, la lorda

schiuma che ingialla il piede del pilone,

 

mentre alla gru che cigolando assorda

l'aria imbracato il bove da macello

pencola come botte che sciaborda.

 

Canto l'acqua dei porti. Odo l'appello

rude, il commiato, il grido. I reggimenti

partono. Ogni uomo armato è il mio fratello.

 

Veggo gli occhi brillare, veggo i denti

rilucere. Odo il lastrico del molo

rombar sotto la marcia. Sono ardenti

 

i vólti come se li ardesse un solo

riverbero, o il sorriso d'una sola

madre, di quella grande. Ogni figliuolo

 

oggi ha sol quella, e in cuore la parola

che alfine irruppe dalla bocca forte.

Guerra! È il croscio dell'Aquila che vola.

 

Guerra! Una gente balza dalla morte,

s'arma, s'assolve nell'eucaristia

del mare, e salpa verso la sua sorte.

 

Non più si volge indietro. Guerra! Sia

per giorni, sia per mesi, sia per anni

ella combatterà nella sua via.

 

Canto la libertà. Quali tiranni

furono uccisi? quali mostri vinti?

Qual forza li atterrò? di quanti inganni,

 

di che frodi senili erano cinti?

Chi diede al falso tempio il grande crollo?

Le colonne piegarono su i plinti.

 

Il precone stampato fu col bollo

rovente nella palma della mano

e nel dosso restìo, sino al midollo.

 

Strascicandosi contra l'uragano

gioioso che lo tratta come balla

di cenci, or vocia nella piazza in vano.

 

E marchiatelo ancóra su la spalla

e su la fronte! Poi gli sia concessa

la buona greppia nella buona stalla.

 

Altra parola è data, altra promessa.

Canto il domani e canto la canzone

dei secoli; ché l'anima è trasmessa.

 

A mira di balestra o di cannone

l'occhio è ben quello, che non batte ciglio.

Dritto è il silùro come lo sperone.

 

Canto la forza antica e nova, figlio

d'una carne vivente e d'infinita

progenie. O tu che m'odi, io ti somiglio.

 

Ma il balestriere, chino alla bastita

o alzato sul carroccio, anco in me vive.

L'anima eterna è il vaso della vita.

 

Canto le stive, le profonde stive

piene d'armi, di viveri, di tende,

di bottame; le maestranze attive

 

su i ponti apparecchiati ove risplende

forbito ogni metallo. I battaglioni

giungono. Il cielo è prode, con vicende

 

di nubi e di chiarìe, con padiglioni

immensi, con falangi impetuose.

E tutta la città par che si doni.

 

E diffuso è l'amore su le cose

come un ciel più vicino, simigliante

al vólto delle madri coraggiose.

 

Non sul vólto, nell'anima son piante

le lacrime divine e trionfali,

mentre il silenzio fa le labbra sante.

 

Gloria della città! Passano l'ali

ripiegate dell'uomo, i grandi ordegni

di Dedalo, le macchine campali

 

fatte di tesa canape e di legni

lievi, che porteran l'uomo e l'atroce

sua folgore su i fragili sostegni.

 

E le gole d'acciaio senza voce

passano, che laggiù nel lor linguaggio

conciso parleranno, dal veloce

 

affusto tratte al ciglio del villaggio,

lungo il palmeto, sopra le trincere,

davanti ai pozzi. Romba il carriaggio

 

su la selce. Seduto è l'artigliere

sul cofano. Conduce a coppia a coppia

i cavalli gagliardi il cavaliere.

 

L'applauso scroscia, un gran clamore scoppia.

Repente il sole batte su la faccia

giovenile, sul pezzo, su la doppia

 

groppa. E l'affusto trascinato a braccia

nella sabbia ove il mare s'impantana

vedo! Chi mai cancellerà la traccia

 

dentro le dune della Giuliana?

Il vento, il flutto, l'uomo, il tempo? È immota.

Gloria a te, batteria siciliana!

 

Canto il selvaggio anelito, la gota

che gronda, il lungo sforzo a testa bassa,

i polsi tra le razze della rota,

 

le spalle che sollevano la cassa

e la portano, l'ordine del fuoco,

la mira, il primo colpo nella massa

 

nemica, il suolo raso, l'urlo roco

delle strozze riarse ad ogni schiera

abbattuta, l'allegro ardor del gioco;

 

o Ameglio, e il ferro freddo; e la bandiera

tua vecchia, o Quarto Reggimento, issata

su la Berca nel soffio della sera.

 

Canto la Morte, alata e illuminata

come la prima legge della luce.

La vita è meno fertile. È rinata

 

da lei l'alta bellezza. Ella produce

le semenze che noi nella ruina

seminerem cantando. Ella conduce

 

le Muse, conduttrice più divina

d'Apollo. Non ha tombe ma trofei.

È tutt'avvolta d'aria mattutina

 

come la messaggera degli dei.

I più giovini eroi sono i suoi gigli.

O Gloria, ed ella è dove tu sei.

 

O Primavera, e tu le rassomigli.

Mentre che soffia il vento del Deserto,

ella infiamma gli anemoni vermigli.

 

Canto la Gloria cerula, dal serto

alternato di rostri e di muraglie,

che ride se il combattimento è incerto.

 

Immune dall'orror delle battaglie,

è bella come Roma nel suo trono

e Siracusa nelle sue medaglie.

 

Come sul mar risponde il tuono al tuono,

il presente al passato in lei risponde;

e la mia corda duplice è il suo dono.

 

Conculcate le stirpi moribonde

ella fa dell'Italia dai tre mari

la grande Patria dalle quattro sponde.

 

Quando nei nostri porti gli alti fari

s'accendono, ella sfolgora da ostro

sola nelle foschie crepuscolari.

 

E, vòlto verso lei notturna, il nostro

sogno ansioso vigila il mattino.

E il mattino per noi sorge da ostro.

 

Sorge con uno strepito marino,

tra le grida gioiose dei messaggi

che gridano il gentil sangue latino:

 

gridano i reggimenti e gli equipaggi,

gridano i morti, gridano i feriti

le vittorie da' bei nomi selvaggi,

 

gli eroi dai nomi oscuri ingigantiti.

Bu-Meliana, Sidi-Messri, Sciara-

Sciat, Henni! Par che al lauro si mariti

 

la palma. Tutta l'oasi è un'ara

fumante. Verri, Granafei, Briona,

Orst, Bertasso, Gangitano, Fara,

 

Moccagatta, Spinelli! Un nome suona

la morte, l'altro la vita. E la morte

e la vita son come una corona

 

sola composta di due fronde attorte.

Severo dal suo grande Arco sorride:

il battaglione è come la coorte.

 

Foss'io come colui che i nomi incide

col ferro aguzzo nella nuda stele

ad eternar la gesta ch'egli vide!

 

O Roma, almen quello del tuo fedele

inciderò nel fulvo travertino,

e il tuo modo: «Coi remi e con le vele».

 

O Roma, e mentre al giovine Latino

«Velis remisque» nella pietra intaglio,

scorgo l'Ombra del grande suo vicino.

 

Guarda la fresca tomba l'Ammiraglio,

quegli che fece co' suoi nervi soli

a San Giorgio di Lissa il suo travaglio.

 

«Gittai buon seme» ei dice. Si consoli

per quell'Ombra e s'inebrii del suo pianto

la madre di Riccardo Grazioli.

 

E tu resta, o Canzone, in camposanto.

Annotta. Sta fra l'una e l'altra tomba;

e veglia, incoronata d'amaranto.

 

Alla diana sonerai la tromba.

 

 


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